In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Quella che va in scena in Qatar non è la festa del calcio ma del capitalismo fossile

La giornalista argentina Dominique Metzger è rimasta esterrefatta quando negli uffici della polizia dello sceiccato – nell’ala riservata alle donne, ovviamente, perché da queste parti tutto è rigorosamente diviso per genere! – gli agenti le hanno chiesto come voleva che fosse punito il borseggiatore che le aveva rubato il portafogli. “Io sono rimasta a bocca aperta: mi hanno chiesto se volevo che il tribunale lo condannasse alla prigione, se dovevano espellerlo dal Paese (il ladruncolo era un immigrato.ndr) o che altro. Ho risposto che mi bastava riavere il mio portafogli”. L’incredibile di questa vicenda, come ha sottolineato la collega in un suo post sui social, è che la polizia credeva di farle un favore, di mettersi in bella mostra con una giornalista straniera. Una giornalista che magari nei suoi articoli avrebbe sottolineato come nel Qatar la giustizia funzionasse egregiamente! La paradossale vicenda, al contrario, testimonia solo come nello sceiccato la parola “diritti” non abbia semplicemente nessun significato. Le terrificanti condizioni in cui i lavoratori migranti sono tenuti da schiavi nelle aziende e nelle case dei padroni qatariani sono solo una diretta conseguenza di questa totale assenza di diritti mescolata ad un bel po’ di razzismo nei confronti dello straniero. 

Le associazioni per i diritti umani hanno denunciato la morte di 6500 lavoratori, per lo più indiani, nepalesi e bangla, per la realizzazione di questo Mondiale di sangue. Le autorità del Qatar hanno risposto che i decessi sarebbero “solo” 35, mentre gli altri decessi sarebbero dovute a non meglio specificate cause naturali. Cause naturali come quel disgraziato che è schiattato in camerata dopo turni di lavoro di 20 ore sotto il sole del deserto E la Fifa ci ha pure creduto. O ha preferito far finta di crederci. Ma siano più di seimila o “solo” una trentina, è innegabile che il rispetto dei diritti umani – per non parlare di quelli delle donne! – abbiano ancora un lungo percorso da fare prima di essere presi in considerazione in questo Paese.

La domanda allora è questa: perché assegnare i Mondiali di calcio proprio al Qatar? La risposta è semplice: per i soldi. Tanti, tanti soldi. Questo che sta andando in scena nel Paese degli sceicchipasserà alla storia come il mondiale delle bustarelle e degli investimenti miliardari. Che il calcio non fosse più solo passione e pallone, ma un giro d’affari da… sceicchi lo avevamo capito da tempo. Il Qatar si è solo inserito nell’andazzo generale investendoci denaro a badilate. Non ha dovuto faticare più di tanto a far “dimenticare” ad una Fifa che gli manco solo di quotarsi in borsa, i lavoratorimorti ammazzati nella costruzione degli stadi e pure a far spostare spostare i calendari dei campionati di tutto il mondo perché, sotto il sole del deserto, si può giocare solo a Natale. E anche a proibire, pena espulsione immediata, una semplice fascia arcobaleno attorno alla braccia del capitano. 

E’ cominciato così il Mondiale più ricco di tutti i tempi. Secondo il sito Money – che di soldi se ne intende! – la Fifa incasserà per l’intera kermesse la bellezza di 6,5 miliardi di dollari. Tanto per fare un esempio, l’ultimo Mondiale ha portato nelle casse della federazione “solo” 4 miliardi di dollari. E poi, ci sono gli indotti per le nazionali partecipanti, anche questi in forte crescita, gli sponsor, i diritti televisivi, il marketing come la vendita dei biglietti e dei gadget. 

“In totale – leggiamo su Money – l’evento muoverà qualcosa come 17 miliardi di dollari, più o meno il costo di una manovra finanziaria!” E continua: “Di fronte a queste cifre, ecco che organizzatori e Federazioni hanno chiuso più di un occhio sulle accuse piovute negli ultimi anni sul Qatar”. 

Insomma, anche se sul campo prenderà – come mi auguro – una vagonata di gol, la nazionale del Qatar il suo Mondiale lo ha già vinto: quello dei soldi. Quello del greenwashing invece, Il Qatar se lo sta giocando con la Cop egiziana, tanto per ricordare un altro Paese dove i diritti umani sono carta straccia. 

L’ambiente infatti è la seconda vittima sacrificale di questo Mondiale.

I colleghi giornalisti che stanno seguendo le partite non hanno potuto esimersi dal partecipare ai tour organizzati dalle autorità del Qatar che gli ha fatto ammirare pannelli fotovoltaici ultimo modello, eleganti auto elettriche ed altre meraviglie tecnologiche per dimostrare quanto il loro Paese sia “verde”. Nei comunicati ufficiali, il Qatar fa un gran vantarsi di aver compensato tutte le sue poche emissioni con i famosi crediti di C02. A parte tutte le critiche che potremmo fare sul sistema delle compensazione, viene facile immaginare come uno Stato che è una cassaforte di dollari e un pozzo di petrolio, come il Qatar, non faccia nessuna fatica ad acquistare crediti dai Paesi messi alla fame da quegli stessi dollari e petrolio. Ma anche a voler accettare il discutibile sistema delle compensazioni, la pretesa dei qatariani che si vantano di aver organizzato il primo mondiale neutrale dal punto di vista delle emissioni è una balla stratosferica. Basta pensare ai sette  super stadi costruiti ex novo con tanto di infrastrutture a sostegno, il mantenimento del manto erboso sotto il sole del deserto che richiedono oltre 10mila litri d’acqua al giorno, i semi fatti arrivare dagli Stati Uniti in contenitori a climatizzazione speciale. 

Wired, in un capitolo dal chiaro titolo “Specchietto per le allodole” ha spiegato che il Mondiale del Qatar “in totale produrrà circa 3,6 milioni di tonnellate di anidride carbonica, secondo il rapporto ufficiale della Fifa sulle emissioni di gas serra. Si tratta di 1,5 milioni di tonnellate in più rispetto alla precedente edizione in Russia del 2018”.

Il fatto è che i “conti” sulle emissioni li hanno tirati giù gli sceicchi, utilizzando evidentemente lo stesso pallottoliere con il quale quantificano i diritti umani e i morti sul lavoro, senza che nessun organismo terzo ci abbia potuto metter mano. “Gli organizzatori – sottolinea sempre Wired – hanno creato un proprio sistema, chiamato Global carbon council, sollevando preoccupazioni in merito alla trasparenza e alla legittimità.”

Anche associazioni come Carbon Market Watch hanno evidenziato tutte le manchevolezze delle ottimistiche dichiarazioni degli sceicchi sulle reali emissioni del Paese: ”L’indagine che abbiamo condotto sulle prove a disposizione getta seri dubbi su queste affermazioni, che probabilmente sottostimano i veri livelli di emissioni e l’impatto climatico del torneo”. Soltanto le emissioni imputabili alla costruzione degli stadi, secondo Carbon Market Watch, sarebbero sottostimate di almeno di otto volte.  

In altre parole, il Qatar se ne frega dell’ambiente pressapoco come se ne frega dei diritti umani. Il che non impedisce che anche il nostro Paese, ci faccia dei gran affari. Anche grazie ai Mondiali, lo scambio commerciale dell’Italia verso il Qatar ha registrato nei primi otto mesi dell’anno in corso, un aumento del 140% rispetto agli stessi mesi del 2021, raggiungendo i 4 miliardi di dollari. Esportiamo abbigliamento di alta moda, pregiati prodotti alimentari, macchine e soprattutto… armi! Voce questa che nei bilanci viene sempre etichettata col termine di “ tecnologia di difesa”! Tanto per non farci mancare la giusta dose di ipocrisia.  Ma se l’Europa questo inverno potrà rimanere al caldo dei termosifoni, ha spiegato l’Aie, Agenzia internazionale dell’energia, lo farà soprattutto grazie alle esportazioni di gas e di petrolio dal Qatar. Questo è anche il motivo per il quale, al di là di qualche ammirevole presa di posizione individuale – come la nazionale tedesca i cui giocatori si sono fatti fotografare con le mani davanti alla bocca -, i Governi europei si sono ben guardati dall’esprimere severi giudizi o dal prendere drastiche prese di posizione su questo Mondiale della vergogna. Italia compresa che, tramite l’ambasciata di Doha, ha inviato i migliori auguri alle autorità qatariane per la riuscita di questo Mondiale modello rammaricandosi solo di non poter essere presente con la nostra nazionale. 

Mondiale che, come avrete intuito, col calcio, perlomeno con quel calcio che ci aveva fatto innamorare da ragazzini, non ha più niente a che fare. Ce lo spiega, efficace come una sua indimenticabile pedata, una leggenda del calcio, quello vero: Éric Cantona. “Siamo onesti: questa Coppa del Mondo non ha senso! Peggio ancora, è un abominio! Il Qatar non è un Paese di calcio! Non c’è fervore, non c’è sapore. Un’aberrazione ecologica, con tutti gli stadi climatizzati. Che follia, che stupidità! Ma soprattutto un orrore umano, con migliaia di morti per costruire questi stadi che serviranno solo per divertire il pubblico presente per due mesi. L’unico senso di questo evento – e lo sanno tutti – è il denaro!” 

Dopo il lavoro, i diritti, la socialità e l’ambiente, il capitalismo si è mangiato anche il pallone.

Una Cop al gusto di Coca Cola

Domenica 6 novembre, nella soleggiata e vacanziera Sharm El Sheikh, andrà in scena la Cop più inutile di sempre. Ribaltando la questione, potremmo anche affermare che sarà la Cop più utile di sempre perché rivelerà agli occhi del mondo il fallimento di queste grande conferenze salvifiche che, se avevano un senso all’inizio – quando il capitalismo giocava in difesa e si limitava a negare i cambiamenti climatici – oggi che il capitalismo gioca all’attacco rischiano di rivelarsi addirittura controproducenti perché tentano di  mascherano il focus del problema, che è sempre e solo quello di uscire dai fossili e quindi cambiare il nostro modo di vivere e il nostro sistema economico. Quello che bisognerebbe fare per rimanere dentro i famosi limiti suggerirti dall’accordo di Parigi è chiaro a tutti. Il problema è che i Governi non lo vogliono, o non lo possono, fare. 

Ricordiamo che l’accordo di Parigi, nella cop 21, poneva l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature sotto i 2° C rispetto all’era preindustriale, impegnandosi per rimanere prudentemente dentro il grado e mezzo. Oggi, all’apertura della Cop 27 in Egitto, l’obiettivo prudenziale del grado e mezzo è già andato a farsi benedire da un pezzo. E anche l’aumento di soli due gradi è lontano. Il Rapporto sul Divario, (Gap) che l’Agenzia per l’Ambiente dell’Onu compila ogni anno per monitorare l’efficacia degli impegni delle nazioni del mondo sulla questione del cambiamento climatico, indicano un probabilissimo aumento della temperatura di almeno 2,8° C entro la fine del secolo. “Il fatto è che la crisi climatica richiederebbe una rapida trasformazione delle società – scrive il meteorologo Luca Lombroso -. Sono necessari infatti enormi tagli delle emissioni di gas serra entro il 2030: il 45% rispetto per arrivare a 1,5°C e il 30% per stare entro 2°C. Esistono soluzioni per trasformare le società, ma è giunto il momento di un’azione collettiva e multilaterale”. Vien da chiedersi se questa azione collettiva e unilaterale invocata dall’ambientalista possa venire da una Cop targata… Coca Cola! Proprio così. Il colosso multinazionale della celebre bibita frizzate sarà lo sponsor degli incontri di Sharm El Sheikh! 

“Sono stata una delegata alla Cop 26 di Glasgow – ha raccontato la scienziata ed ambientalista londinese Georgia Elliott-Smith  — Quasi tutti i giorni mi sentivo disperata, alcuni giorni piangevo. L’infiltrazione delle multinazionali nella conferenza era nauseante: i CEO delle aziende più grandi inquinanti del mondo riuniti, a fare pressioni sfacciate sui politici per proteggere i loro interessi e gonfiare i loro profitti. Quest’anno è anche peggio: la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha annunciato che Coca-Cola sarà lo sponsor aziendale della conferenza globale sul clima, Cop 27”. L’ambientalista inglese ha lanciato una petizione contro questa operazione di sfacciato greenwashing che ha ottenuto quasi 300 mila firma ma senza per questo riuscire ad annullare la suddetta sponsorizzazione. 

Non c’è niente da fare: inquinatori e petrolieri continueranno a farla da padroni anche a Cop 27 e i Governi dovranno mediare le loro richieste con quelle degli scienziati e degli ambientalisti.

D’altra parte, anche le aspettative degli ecologisti sono assai basse su una Cop come questa che non fa neppure notizia. In discussione ci sono solo alcune procedure burocratiche e non si parlerà di ulteriori limiti alle emissioni o, men che meno, di impegni vincolanti per i Governi. Il nostro Governo poi, andrà a  Sharm El Sheikh solo per “fare il tifo per il clima che cambia”, come titola l’Huffington Post. Dopo dieci anni di assenza, un premier italiano – la nuova presidente (declinato al femminile, toh!) del Consiglio, Giorgia Meloni – parteciperà ad una Cop ma soltanto per sostenere la necessità di rallentare l’uscita dalle energie fossili. Come dire che era meglio se restava a casa. 

Il fatto è che, come abbiamo scritto in apertura, il capitalismo ha imparato a giocare d’attacco. Nessuno oggi nega la necessità di contrastare i cambianti climatici ma la risposta che viene data è che bisogna tener conto della guerra, della crisi economica, delle bollette, della pandemia, dei rave party (questo solo in Italia) e della sacra difesa dei confini nazionali… Tutte questioni che, in analisi, dovrebbero spingerci ad agire ancora più drasticamente verso un rapido cambio di rotta perché sono tutti problemi legati al clima e all’energia, ma il gioco del capitalismo è ancora quello, dividi et impera, di negare ogni correlazione tra di loro e usarle come scusante per rimandare ogni azione. 

Eppure, dovremmo chiederci tutte e tutti, è possibile intraprendere un serio percorso che ci porti ad uscire dal capitalismo fossile senza rispettare i diritti, la democrazia e la libertà? Correttamente, gli ambientalisti parlano di “giustizia climatica” perché, senza giustizia sociale, l’ambientalismo è solo giardinaggio. 

Non è quindi nemmeno un caso se questa disgraziatissima Cop 27 si svolgerà in una Paese che i diritti umani non li ha mai presi seriamente in considerazione. L’Egitto è uno Stato di polizia. Anche senza voler ricordare la tragica vicenda di Giulio Regeni, nelle sue carceri sono rinchiusi e seviziati almeno 60 mila prigionieri politici. L’associazione Human Right Watch ha denunciato alla Bbc che nelle prigioni egiziane le torture vengono praticate in maniera sistematica e organizzata seguendo una vera propria “catena di montaggio”. 

Eppure i potenti della terra che andranno a Sharm El Sheikh, stavolta non per una vacanza o per fare immersioni, ma per un vertice internazionale, fingeranno di ignorare tutto questo e applaudiranno qualche pannello fotovoltaico che gli organizzatori del summit mostrerà loro. Agli ambientalisti, anche a quelli internazionali, è vietato fare domande scomodo ed anche organizzare manifestazioni perché il regime ha paura che si trasformi in una protesta contro il premier Abdel Fattah al-Sisi. “L’Egitto di Al-Sisi ha messo su un grande spettacolo di panelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti non dovrebbero stare al gioco” scrive sul Guardian Naomi KleinGreta Thunbergl’ha presa in parola e, per la prima volta, ha scelto di rimanere a casa. 

Addirittura, per proteggere le attiviste e gli attivisti che scenderanno a Sharm nei giorni del vertice, la rete Climate Legal Defense ha approntato una speciale assicurazione, dei numeri di emergenza ed una guida per difenderli da eventuali imputazioni legali. Assicurazione che sarà utile soprattutto a chi viene dai Paesi africani come la Nigeria. Paesi che sono i primi a pagare gli effetti dei Cambiamenti Climatici ma ai quali l’Egitto non darà nessuna voce. “L’Africa contribuisce solo al 4% alle emissioni globali di gas serra contro il il 19% degli Usa e il 13% dell’Unione Europea – spiega al Fatto Quoitidiano l’attivista Goodness Dickson dei Fridays for Future della Nigeria, uno dei tanti che non potrà esserci al vertice perché l’Egitto non gli ha fornito il pass di partecipazione – eppure siamo noi a pagarne gli effetti. Un milione di persone sono rimaste senza casa a causa delle inondazioni che continuano a ripetersi. Non distruggono solo gli edifici, ma anche i campi e i raccolti, ci portano alla fame, alla carestia ed a migrare in altri Paesi. Mi chiedo, perché non possiamo far sentire la nostra voce alla Cop?” 

Con Dickson sono rimasti fuori della porta come sgraditi ospiti tantissimi ambientalisti africani. Vuoi per motivi economici (gli hotel a Sharm costano un occhio fuori della testa), vuoi per motivi politici. Il risultato è che non ci sarà nessuna rappresentanza di attiviste e attivisti provenienti da Congo, Sudafrica, Tanzania, Mali, Marocco Somalia e altri Paesi africani. Non è solo colpa dell’Egitto. Molti, pur avendo ottenuto i documenti e racimolato il denaro grazie a Ong europee, sono stati costretti  a rinunciare al viaggio per paura di ritorsioni nei confronti delle loro famiglie o di essere imprigionati una volta tornati a casa. 

“Vale più l’ambiente o la libertà? – Si chiede il giornalista Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter ‘Il Colore Verde’ -. La battaglia per sistemare il clima del pianeta, per salvare vite umane, animali e vegetali… può fare a meno dei diritti e della democrazia? Secondo me no. Tra l’ambiente e la libertà, io risponderò sempre ‘la libertà’, ben consapevole di indispettire molti e far arrabbiare chi cerca realismo e concretezza dei risultati. Il cambiamento climatico non è un fatto tecnico-scientifico: è anche politica, economia, società, idee, paure e sogni. Non esiste giustizia climatica senza democrazia”. 

Guerra e pace (e clima)

La Sardegna è presa d’assedio da una esercitazione Nato condotta in clima di guerra mentre le compagnie petrolifere fanno affari d’oro e dei cambiamenti climatici non se ne parla più

Il primo a dare la notizia è stato l’Unione Sarda. Giornale non propriamente di sinistra ma che aveva il vantaggio di giocare in casa e l’onestà di indignarsi proprio come un quotidiano che parla alla gente deve fare. Ben diciassette aree marine sarde, per lo più nel cagliaritano, sono state improvvisamente prese d’assalto da un esercito di 4mila soldati, 65 navi militari tra cui una portaerei Usa, con contorno di elicotteri, carri armati e mezzi anfibi. L’operazione targata Nato e battezzata Mare Aperto è scattata all’improvviso, senza nessun avvertimento alla popolazione dell’isola. Proprio in giorni come questi in cui la Sardegna sta rilanciando la sua offerta turistica, dopo i duri tempi della pandemia. Semplicemente, l’Alto Comando della Nato ha improvvisamente deciso di giocare alla guerra e ha ordinato, senza nessun preavviso, alla Capitaneria di Porto di interdire ai “civili” l’ingresso alle coste e alle aree di mare segnalate.

La Capitaneria non ha potuto far altro che obbedire. Se è vero che la Sardegna è sempre stata utilizzata come un grande poligono di tiro dall’esercito – complice anche la sua bassissima densità – è anche vero che esercitazioni di questa portata, con eserciti di ben sette Paesi, non ne erano mai state fatte negli anni precedenti e, in ogni caso, tutte le operazioni venivano comunicate con largo anticipo. Ma siamo in guerra. E in guerra tutto è permesso. 

Nel  giornale di venerdì 13 maggio, l’Unione Sarda ha denunciato in un articolo intitolato: “Blitz militare: Sardegna circondata”: ”Non bastavano i 7.200 ettari del Poligono di Teulada i 12.700 di Perdasdefogu e i 1.200 di Capo Frasca, la più imponente esercitazione militare mai messa in campo nel mare di Sardegna e nei poligoni sardi si estenderà anche in aree che non hanno mai avuto niente a che fare con le servitù militari. E non sarà una passeggiata”.”. Sempre l’Unione cita espressamente Venezia chiedendosi se una simile operazione militare che scavalca ogni logica di tutela ambientale e di conservazione, sarebbe stata possibile nella laguna dei Dogi. Da veneziano, posso rispondere ai colleghi sardi: “Sì, purtroppo. Nella laguna hanno fatto anche di peggio”. Ma non questo il punto. Il punto è la catastrofe climatica. 

A dirlo stavolta è l’Onu. Lo scorso anno, ha avvertito l’Omm, l’organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, ben 4 indicatori chiave dei cambianti climatici hanno toccato dei record che definire “preoccupanti” è prenderli sottogamba. Si tratta delle concentrazioni di gas serra, dell’innalzamento del livello del mare, dell’acidificazione e del riscaldamento degli oceani. Tutti avvertimenti che “Il sistema energetico globale è rotto e ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”, come si legge nell’ultimo rapporto. L’unica speranza è: “porre fine all’inquinamento da combustibili fossili e accelerare la transizione verso le rinnovabili, prima d’incenerire la nostra unica casa”.
Ma la guerra sta spingendo l’umanità verso una direzione completamente opposta. 

Guerra e pace, si sa, sono agli antipodi. Esattamente come guerra e clima. E questo per almeno due motivi. Il primo è che per affrontare un problema complesso come la crisi climatica, servono diplomazia, tavoli di trattativa, un forte spirito di collaborazione internazionale. Tutte cose che i conflitti armati mandano a catafascio. La seconda è che tutte le soluzioni di “emergenza” per affrancarsi dal gas russo prevedono l’utilizzo, anzi, l’implemento proprio dei combustibili fossili. In altre parole stiamo finanziando esattamente quel modello economico che dovremmo superare. Non è certo un caso se i profitto delle multinazionali petrolifere siano schizzati in alto da quando è cominciata la guerra tra Russia e Ucraina. Nei primi tre mesi dell’anno la Shell, tanto per fare un esempio, ha realizzato profitti record: 9,1 miliardi di dollari, quasi tre volte rispetto al primo trimestre del 2021. 

Felicissimo Ben van Beurden, amministratore delegato della compagnia, che ha spiegato al New York Times come i recenti avvenimenti abbiano dimostrato come il petrolio rimanga “l’unica energia sicura, affidabile e conveniente”, sottolineando come nessuno oggi possa mettere in discussione che “l’economia globale sia costruita soprattutto sui combustibili fossili”. Tesi dimostrata anche dal prezzo del gas, che nel corso del 2021 ha intrapreso un  trend crescente di cui non si vede la fine, passando in Italia dai 18 euro per MWh di marzo ai 116 euro per MWh di dicembre 2021. Trend che fa la felicità dei suoi (pochi) azionisti e la disgrazia del resto dell’umanità perché al prezzo del gas è legato il costo del cibo. Fame e carestie stanno già ammazzando più della guerra in Ucraina nelle aree più povere del pianeta. Qui, dalla parte ricca della frontiera, ci si limita, per ora, a veder crescere le percentuali di chi vive sotto la cosiddetta “soglia di povertà”. 

E poi c’è anche un’altra questione per cui guerra e giustizia climatica non vanno proprio d’accordo. Ed è l’aspetto comunicativo. In guerre la prima vittima è la verità e l’unica regola la distrazionedai problemi veri. Questione come il gas e il petrolio vengono utilizzate come arma per farti odiare il nemico. Se la bolletta sale, il colpevole è Putin. Il problema delle emissioni climalteranti dei combustibili fossili che continuiamo ad utilizzare come e più di prima, non sono nemmeno dentro l’agenda politica dei mesi a venire. Così come un deciso passaggio alle alternative rinnovabili. In guerra si pensa solo alla guerra. Ridicolo persino pensare alle cosiddette “buone pratiche individuali”, tipo la differenziata spinta o la dieta vegana, che pure – se certo non bastavano a salvare il pianeta – in qualche modo erano utili a diffondere la consapevolezza che viviamo tutte e tutti sullo stesso pianeta Terra e che la tutela globale dei beni comuni è fondamentale per costruire un futuro sostenibile per l’umanità. Ma oggi? Perché qualcuno dovrebbe sbattersi a girare in bicicletta quando un paio d’ore di volo di uno solo di quegli aerei che stanno giocando alla guerra sopra la testa dei sardi, brucia più carburante di tutto quello che potrebbe bruciare lui nel resto della sua vita? Anche questo è guerra.

 

Foto di copertina. Copyright: Crown Copyright 2011, NZ Defence Force

Perché Bolsonaro voleva andare al Santo e perché era necessario rovinargli lo show

Secondo gli ultimi sondaggi raccolti in Brasile, la popolarità di Jair Messias Bolsonaro nell’ultimi 12 mesi è precipitata dal quasi 40 a sotto il 30%. Le cause di questo rapido e, ci auguriamo, irreversibile declino sono imputabili a due fattori principali: la gestione criminale della pandemia e la crisi economica che ha gettato in miseria fasce di cittadinanza che, sino a qualche tempo fa, si potevano considerare benestanti.

Per quanto riguarda la pandemia, il presidente brasiliano si è barcamenato sin dall’inizio dal negazionismo complottista ai famosi “trattamenti precoci” basati sull’uso di farmaci come l’idrossiclorochina e l’ivermectina. Trattamenti considerati inutili se non addirittura pericolosi dall’Oms e dalla comunità scientifica internazionale. Il risultato è che lo stesso rapporto sulla gestione della pandemia stilato dalla speciale commissione del parlamento brasiliano ha stimato che circa 606 mila brasiliani sono morti per una gestione definita criminale del Covid. Il senatore Renan Calheiros, tra i conduttori dell’inchiesta, ha dichiarato espressamente: "ho trovato le impronte del presidente nel malaffare” e Bolsonaro è stato ufficialmente incriminato per nove pesanti reati tra i quali figurano anche i crimini contro l’umanità. Come se non bastasse, Bolsonaro è ufficialmente indagato anche per altri due scandali relativi all’acquisto di vaccini, così come risultano indagati alcuni membri della sua famiglia ai quali il presidente, all’insegna del più puro nepotismo, aveva assegnato importanti incarichi.

La crisi sanitaria ha incentivato la profonda crisi economica che era già in atto ed ha causato un aumento dei prezzi che, su base annua, è stato stimato attorno al 10%. Intere fasce di cittadini che prima campavano con lavori precari o gestivano piccole aziende familiari, sono finiti ad ingrossare le file dei senza tetto.

Tutto questo ha infangato l’immagine di un presidente eletto in base alla promessa che, con l’aiuto di dio e di sant’Antonio avrebbe trasformato in nababbi tutti i brasiliani. Per non parlare del sostegno di una campagna di fake news come neppure Trump era riuscito a condurre. Cosa che, proprio come con l’ex presidente statunitense, ha portato ad una vera e proprio guerra tra lui ed i social, tanto che è stato approvato un decreto - non ancora convertito in legge - con l’intento di impedire la cancellazione dei suoi post sulle piattaforme che hanno accettato di moderare i contenuti col fact-checking.

È in questo contesto di profonda perdita di credibilità che Bolsonaro è venuto in Europa con l’intento di partecipare al G20 romano e successivamente alla Cop di Glasgow.

Per dirla come va detta, a Jair Messias del G20 non gliene poteva fregare di meno. E della Cop sul clima, meno del meno. Il vero motivo della sua comparsata europea era quello di recuperare credibilità nel suo Paese toccando i temi ai quali i brasiliani sono più sensibili come la migrazione e la religiosità. Per architettare l’operazione, Bolsonaro si è affidato all’amico Luis Roberto Lorenzato, deputato italiano eletto nella circoscrizione brasiliana (eh sì! L’Italia che è quel Paese dove non ti danno la cittadinanza e non ti fanno votare anche se ci risiedi e ci paghi le tasse da 10 anni, ma fanno eleggere onorevoli a gente che non parla neppure la nostra lingua ma ha un bisavolo italiano).

Tutto era stato orchestrato come la sceneggiatura di un film. Il presidente si fa vedere a braccetto con i “grandi” della terra, poi a spasso per le strade di Roma con la gente - migranti brasiliani ma anche cittadini italiani - che lo osannano come un campione olimpico. Le Tv brasiliane sparano questa spazzatura su tutti i canali. Nei social ufficiali del Governo, spopolano i post di Jair - che torna da vincitore nel Paese dal quale era partito, povero in canna, il suo bisnonno. Ai poster e alle consuete “mascherine” dedicate ai vari canali internet col presidente che sorride accanto alla scritta “il Brasile sopra tutto, dio sopra tutti” viene aggiunto: “L’Italia nel cuore”.

A questo punto, mancava solo la cittadinanza ad honorem. Per fargliela avere, Lorenzato si è affidato ad un altro deputato leghista eletto nel Veneto, Dimitri Coin, che si è fatto carico di perorare il conferimento dell’onorificenza all’amministrazione comunale di Anguillara. Incarico facile, perché il Comune è in mano alla Lega.
E proprio qui, arriva qualcuno a rovinargli la festa, al nostro Jair! E non è il presidio con tanto di sventolio di bandiere rosse in piazza De Gasperi, perché era già pronto a far da comparsa, nei pressi del municipio, un capannello di fedelissimi bolsonariani per permettere alle tv di filmare la “calorosa accoglienza” del ritorno a casa di Jair.

A rovinare lo show sono state solo e soltanto le attiviste e gli attivisti di Rise Up 4 Climate Justice che venerdì scorso hanno letteralmente smerdato la scena in cui il presidentissimo doveva esibirsi! Solo per questo la cerimonia non è stata svolta dove doveva svolgersi: nella sede del Comune di Anguillara. Bolsonaro e il suo seguito han dovuto saltare la tappa e passare direttamente al pranzo in una villa blindata. Nemmeno una passeggiata per una foto ricordo alla casa del bisnonno, ha potuto fare il "nostro" Jair!

E se l'avventura italiana è cominciata male, è finita ancora peggio. Il presidio indetto dal centro sociale Pedro e da altre realtà padovane a Prato della Valle, resistendo alle violente cariche ed agli idranti, ha completato l’opera, impedendo a Bolsonaro di entrare in un luogo famoso e venerato in tutto il Sudamerica come la basilica di Sant’Antonio che, ricordiamolo, è il veneratissimo patrono del Brasile! Anche i frati del Santo, va detto, ci hanno messo del loro, rifiutandosi di incontrare Bolsonaro e sottolineando in un comunicato “le strumentalizzazioni della religione, le devastazione ambientali e l’aggravarsi di una grave crisi sanitaria” imputabili al presidente brasiliano, ospite sgradito.

Una bella botta per un uomo che ha fatto della religione e di sant’Antonio i cardini della sua azione politica per giustificare, in nomine dei, il sacco dell’Amazzonia e il conseguente genocidio dei popoli originari! E dire che Bolsonaro ha espressamente evitato la Cop di Glasgow - dove pure era atteso - proprio per non essere contestato!

Non c’è che dire: il ritorno di Jair Messias Bolsonaro in terra patria sarà il ritorno di uno sconfitto. Tenuto anche presente che, intanto lui che cercava inutilmente di mettere piede in basilica per implorare l’aiuto del Santo, in Scozia i delegati brasiliani cedevano alle pressioni internazionali e firmavano l’accordo per mettere fine alle deforestazioni. Sì, certo, è il solito “bla, bla, bla” nel più puro e consolidato stile delle Cop, ma ai suoi amici latifondisti questa nuova presa di posizione non ha fatto piacere. Jair aveva promesso loro ben altro. Ma si vede che stavolta a sant’Antonio son girate le scatole!

Droni, telecamere e riconoscimento facciale. L’intelligenza artificiale alla prova della democrazia

L’intelligenza artificiale e le tecnologie che la supportano, se da un lato migliorano le nostre vite offrendoci soluzioni insospettabili sino a pochi anni fa, dall’altro mettono in serio pericolo i valori fondamentali della democrazia e della libertà, rischiando di compromettere diritti come quello di espressione, di riunione, dia associazione e della tutela dei dati personali. Un tema questo, non soltanto di difficile soluzione ma anche complesso da inquadrare, in quanto la tecnologia procede ad un passo talmente spedito da lasciare indietro non soltanto la legislazione, che risulta quasi sempre obsoleta, ma anche il dibattito politico ed etico. Un esempio pratico di come il tema sia di complicato d trattare sono le cosiddette “telecamere intelligenti” che molte città moderne hanno installato per monitorare il flusso di persone che passa per le strade, rivelandone l'età, il sesso e addirittura la reazione facciale davanti a determinati contesti, oltre alla marca delle scarpe ed al colore dei vestiti. In tutto il mondo ne sono state installate, sino ad ora, 245 milioni al costo medio di soli 20 euro l’una.
Algoritmi intelligenti analizzano i dati raccolti da milioni di sensori, generando informazioni in grado di rendere efficiente qualsiasi città. In Spagna, alcune città queste telecamere hanno ottimizzato la raccolta dei rifiuti e migliorato la qualità dell’aria. Los Angeles grazie ai sensori intelligenti, ha ridotto del 15% il tempo di percorrenza in auto, applicando una diversa gestione dei semafori, diminuendo il traffico ed abbattendo l’inquinamento. Nei Paesi Bassi, le lampade intelligenti possono prevedere lo scoppio di una rissa analizzando i movimenti delle persone e il livello di “rumore” della folla.
Le stesse identiche tecnologie, tutto sommato molto economiche, però, possono essere applicate anche a scopi commerciali o per fini illeciti e consentire un facile controllo di massa diffuso.
“Ogni volta che un utente crea un account Facebook, aumenta esponenzialmente il valore della rete. La tutela dei dati personali, il diritto alla riservatezza, il diritto di espressione e di associazione pacifica e di riunione sono alcuni dei settori quotidianamente maggiormente coinvolti dall'arrivo dei sistemi di IA - spiega l’avvocata Maria Stefania Cataleta, legale accreditata alla Corte penale internazionale e specializzata nella difesa dei diritti umani -. Pertanto, una serie di diritti vengono messi in discussione online. Quando trasmettiamo informazioni sui nostri movimenti o abitudini tramite un telefono cellulare, il nostro diritto alla privacy viene messo in discussione. Quando partecipiamo a dibattiti pubblici online, esprimendo la nostra opinione, esercitiamo la nostra libertà di espressione. Quando utilizziamo un'applicazione per accettare di partecipare a una manifestazione pubblica, esercitiamo il nostro diritto all'assemblea pacifica. In tutti questi casi sono in gioco i diritti umani”.

Maria Stefania Cataleta ha affrontato la questione nel suo ultimo libro, “Diritti umani e algoritmi”, edito da Nuova Editrice Universitaria. “Il diritto alla privacy è tutelato da diversi strumenti internazionali - spiega l’avvocata - ma questo diritto è costantemente minato dall'uso di Internet, che viene alimentato da un numero sempre maggiore di informazioni. Questi possono essere forniti con il nostro consenso ma anche estratti in modo fraudolento e utilizzati da reti criminali per estorcerci denaro, dai governi per effettuare controlli di massa o attraverso modi più banali come ad esempio dalle aziende per modellare i loro annunci pubblicitari in base al nostro profilo personale”.

Un campo questo, in cui legiferare è difficile. Da un lato, l’Europa si è dotata delle legislazione più protettiva al mondo per la protezione e la difesa della privacy dei suoi cittadini, ma dall’altro, proprio in virtù di questa legislazione rischia di trasformarci in una “colonia digitale” di Paesi come gli Usa o la Cina i cui governi sono quantomeno riluttanti ad approvare leggi o regolamenti che limitino l’uso di tecnologie legate all’Intelligenza artificiale.

“Gli Stati Uniti usano i loro prodotti naturali del capitalismo, Wall Street e Silicon Valley, per guidare la carica nel progresso dell’Intelligenza artificiale. Diverso l'approccio della Cina, che supporta la ricerca in questi campi con larghi finanziamenti pubblici, ma non sembra prestare attenzione al diritto fondamentale alla privacy individuale”.

Un esempio sono i nuovissimi droni equipaggiati con telecamere di riconoscimento facciale. Un campo questo, in cui l'intelligenza artificiale sta compiendo passi importanti. La Cina, in particolare, legge nel riconoscimento facciale un vantaggio strategico da esportare in tutto il mondo, ma senza tener conto dei rischi per i diritti umani legati a questa tecnica che consento il tracciamento completo di ogni cittadino. Non solo negli spostamenti, ma anche nelle abitudini e nelle reazioni di fronte a tutte le situazioni.

Gli scenari che si prospettano sono degni dei più famosi e angoscianti romanzi dispotici. E senza bisogno di regimi esplicitamente totalitari in stile “Grande Fratello”, perché, grazie alla rete, il capitalismo sta trasformando in merce anche la nostra stessa libertà e la nostra privacy sta diventando un prodotto da mettere nel mercato come una saponetta o un paio di pantaloni. E, per di più, col nostro stesso consenso, come si dice, “informato”!

“Oggi le persone offrono i propri dati personali volontariamente - conclude l’avvocata Cataleta -. Se in passato l'obiettivo era quello di tutelare il privato cittadino dall'ingerenza dello Stato e dagli abusi di potere, la tutela contro l'abuso di informazioni personali oggi mette in discussione il ruolo dei soggetti che offrono volontariamente i propri dati personali a società private in cambio di vantaggi. Gli utenti di Internet, infatti, rendono possibile, volenti o nolenti, la ricostruzione del proprio profilo individuale attraverso i cookie, il tracciamento, ed il consenso alla vendita dei propri dati. I diritti umani perdono il loro significato, nel caso della privacy, dove il loro uso può essere scambiato come qualsiasi altra merce in cambio di denaro o altri vantaggi. La libera vendita della privacy finisce per consentire il controllo totalitario da parte di chi gestisce queste informazioni per conoscere, pilotare e guidare, perché gli strumenti di apprendimento automatico hanno la capacità crescente non solo di prevedere le scelte, ma anche di influenzare emozioni e pensieri”. Che è come dire, la fine della democrazia.

La Riforma della Giustizia è un colpo di spugna per i reati ambientali

L'appello delle associazioni per inserire l'ambiente nella lista dei reati che non possono essere oggetto di prescrizione come quelli di mafia

Cominciamo subito con qualche esempio. Se la cosiddetta “riforma della giustizia” fosse già stata tramutata in legge, un procedimento penale tutt’oggi aperto come quello sui Pfas che hanno avvelenato le acque di mezzo Veneto non sarebbe neppure cominciato. Ugualmente potremmo affermare per processi come quelli delle tante discariche tossiche trovate in Campania, come la Resit di Giugliano. Oppure quello denominato dalla stampa “Ambiente Svenduto” che ha portato alla condanna di eminenti esponenti della politica e dell’imprenditoria pugliese per i fatti dell’ex Ilva di Taranto. La lista sarebbe ancora lunga, ma ci fermiamo qua. Velocizzare i tempi della Giustizia ponendo tempistiche stringenti in materia di prescrizione in casi come i processi ambientali che, per loro stessa natura, implicano attente ed approfondite analisi tecniche e scientifiche, non di rado molto complesse, su dati e rilevazioni che non sempre si possono ottenere in tempi limitati significa, in poche parole, concedere l’improcedibilità a tutti - o quasi - i reati connessi all’inquinamento. Un bel regalo per le mafie ambientali, questo promosso dal Governo Draghi!
Il problema di base di questa pretestuosa riforma della Giustizia è che pretende di velocizzare i tempi dei processi senza affrontare il vero motivo che è causa di questa lentezza. Ovvero la scarsità di personale e di magistrati. Per non parlare del bassissimo livello di informatizzazione di questi uffici dove si procede ancora a timbri. Nel caso dei reati ambientali, questa deficienza è ancora più grave perché il nostro Paese non si mai dotato di un apparato logistico e scientifico davvero in grado di valutare i danni e le conseguenze dei tanti episodi di inquinamento, e di portare a giudizio gli inquinatori. Non ci fossero state le Mamme No Pfas a rivelare quanto accadeva nel vicentino ed organizzare presidi, manifestazioni ed a raccogliere puntuali dossier di denuncia, la Miteni, o chi per lei, sarebbe ancora là a riversare i suoi veleni nelle nostre falde acquifere.

Un appello al Governo perché inserisca nella Riforma anche i reati ambientali tra quelli che non possono essere oggetto di prescrizione, come i reati di mafia, di terrorismo, di traffico di stupefacenti e di violenza sessuale, è stato lanciato da Legambiente, Libera Contro le Mafie, Wwf Italia e Greenpeace. “La storia del nostro Paese è segnata da disastri ambientali che soltanto dopo l'introduzione nel Codice penale del delitto 452 quater (quello concernente il reato di disastro ambientale. ndr) sono oggi al centro di importanti processi - si legge nell’appello -. Per queste ragioni e per la complessità delle inchieste necessarie ad accertare la verità, chiediamo al governo Draghi e alle forze politiche che lo sostengono di inserire il disastro ambientale tra i reati per cui non sono previsti termini che ne determinino l'improcedibilità. Sarebbe una scelta di civiltà, fatta con la consapevolezza che ad essere in gioco sono l'ambiente in cui viviamo, la salute delle persone e la credibilità stessa della giustizia”.

Tra le forze politiche, a denunciare questo che hanno definito “un colpo di spugna per i crimini ambientali”, sono rimasti solo i Verdì che hanno sottoscritto l’appello delle quattro associazioni sopra citate. “I processi che riguardano i disastri ambientali e sanitari sono odiosi come quelli di mafia e non possono portare a una prescrizione senza che prima ne siano state accertate le responsabilità - ha dichiarato Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi-. Rischiamo un clamoroso passo indietro nella difesa dell’ambiente e di cancellare, nei fatti, il reato di disastro ambientale”.

Nessuna risposta è ancora arrivata dal Governo.

A Trapani è stata intercettata la democrazia

Lo scandalo delle intercettazioni ai giornalisti

La domanda da farsi è come intendeva utilizzare queste intercettazioni?


La losca vicenda delle intercettazioni ai giornalisti che si occupano della Libia non può essere circoscritta ai colleghi spiati che pure sono stati profondamente lesi nei lori diritti di cittadini, oltre che nell’aperta violazione della loro carta deontologica che gli impone la tutela delle fonti. Questa storia non può neppure riguardare, più in generale, la sola categoria professionale degli iscritti all’Ordine, ma investe la stessa tenuta democratica del nostro Paese perché nasconde un preciso piano di insabbiamento della verità, colpendo chi questa verità ha il dovere di scoprire e diffondere. Un modus operandi che non è nuovo a chi segue le vicende della politica italiana e che ci ricorda tanti altri insabbiamenti il cui fine è sempre stato quello di ingabbiare la democrazia del nostro Paese. Mi riferisco, per fare un esempio, alle stragi fasciste ma anche a casi celebri come l’abbattimento di Ustica o all’assassinio di Ilaria Alpi. Tutte vicende che hanno visto interi apparati militari e polizieschi operare per coprire sanguinosi segreti di Stato. 
Le centinaia e centinaia di pagine di intercettazioni finite nei brogliacci che gli inquirenti hanno depositato alla procura di Trapani nell’ambito dell’inchiesta su presunti traffici di migranti compiuti dalle navi delle ong, non possono essere giustificate come errori o verifiche eccessive attuate al solo scopo di completare le indagini in corso. I giornalisti intercettati non erano e non sono indagati per questa vicenda, e nessuno aveva motivo di ritenere che potessero essere implicati nei reati contestati alle ong. Reati che, tra l’altro, non ci sono. 
Perché, diciamolo come va detto, siamo davanti soltanto all’ennesima montatura politica per criminalizzare il lavoro di chi salva i migranti in mare. Ma proprio per questo, proprio perché siamo di fronte ad una persecuzione giudiziaria usata come arma per far politica, l’inchiesta pubblicata su Domani del giornalista Andrea Palladino, fa ancora più paura. Fa paura perché siamo di fronte ad un potere che sa benissimo da che parte sta la ragione. Lo sappiamo noi e lo sa anche chi governa che non sono le ong che violano i trattati internazionali sul soccorso in mare. Non  sono le ong che finanziano politiche assassine di esternalizzazione delle frontiere. Non sono le ong che finanziano bande di delinquenti come la guardia costiera libica o che sostengono regimi corrotti, fascisti e massacratori in cambio degli ultimi barili di petrolio rimasti su questo pianeta agli sgoccioli. 
Non sono le ong ma le politiche migratorie dell’Unione Europea che dovrebbero finire nel banco degli imputati per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalle convenzioni i internazionali. Intercettare i giornalisti che, inseguendo quella che il codice deontologico chiama la “verità sostanziale dei fatti”, non possono fare altro che raccontare quanto accade in Libia e nel Mediterraneo, non può nascondere altro che un tentativo del potere di nascondere o tacitare questa verità. E nascondere e alterare la verità, lo sappiamo bene, è la prima regola di uno Stato fascista. Perché la libera informazione è uno degli scudi più potenti a difesa della democrazia. 
Ma c’è anche un secondo aspetto, ancora più pericoloso che va messo in luce. L’inchiesta della procura di Trapani è cominciata nel 2017 su pressione del Servizio Centrale Operativo (Sco) alle dipendenze dell’allora ministro Marco Minniti. Un nome che non ci tranquillizza affatto, considerando che la “stretta” sulle politiche migratorie, perseguita poi da Matteo Salvini, è avvenuta proprio con questo egregio rappresentante del Pd. 
Vien da chiedersi allora come lo Sco intende o intendeva usare queste intercettazioni. Scoprire le fonti che fornivano informazioni ai giornalisti? Per lo più si tratta di persone che vivono situazioni già pericolose che hanno un rapporto fiduciario col giornalista professionista che ha l’obbligo deontologico di tutelarli. Far trapelare questi nomi significa mettere loro, e spesso anche le loro famiglie, a rischio della vita. 
Nello Scavo di Avvenire, è stato intercettato mentre chiedeva ad un migrante detenuto in un lager libico se fosse possibili avere dei video che denunciavano le brutalità commesse dagli aguzzini. Altri giornalisti sono stati intercettati mentre pianificavano con contatti locali un viaggio in Libia. 
L’aspetto più inquietante della faccenda è che i giornalisti non sono stati soltanto intercettati ma ne sono stati rilevati anche gli spostamenti. Davvero queste sono informazioni “basilari” nell’ambito di una indagine farlocca sulle ong? No. Questa giustificazione non è assolutamente sostenibile. Sottolinea Beppe Giulietti in un suo tweet “Non abbiamo risposta alla domanda essenziale: perché venivano registrati i colloqui tra una cronista come Nancy Porsia e la sua legale Alessandra Ballerini (l’avvocata della famiglia Regeni.ndr) e perché sono state trascritte le parti relative ad un prossimo viaggio in Egitto “senza scorta” dell’avvocata?” La risposta fa paura. 

Coronavirus e Climate Change. Oppure, in parole più semplici, Capitalismo

La capillare diffusione del Coronavirus, partito da una città della Cina ed estesosi rapidamente in tutto il pianeta, ha avuto quantomeno il merito di far capire a tutti quello che i cambiamenti climatici avevano fatto capire a pochi. E cioè che viviamo tutti sullo stresso pianeta. I problemi non possono in nessun modo essere circoscritti da frontiere che esistono solo per la politica. Neppure militarizzandole. Neppure costruendo muri. Il mondo è uno solo e anche l’umanità, al di là di qualsiasi retorica nazionalista, è una sola. Tutti i popoli del mondo sono interconnessi. E così lo è l’economia, la cultura, il pensiero, le migrazioni, i problemi e le emergenze come questa pandemia che dalla Cina si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Ma non solo tutta l’umanità è interconnessa. Siamo interconnessi anche con l’ambiente che ci circonda. Come diceva Ferdinand de Saussure, “Tout se tient”, ogni cosa è collegata. E’ questo il primo comandamento dell’ecologia moderna. 
Il Coronavirus e le paure mondiali che ha scatenato ci ha posto di fronte ad una realtà che, quando e speriamo presto l’emergenza verrà superata, non può più essere ignorata. Questo, ai cambiamenti climatici – l’altra grande questione che investe tutto il pianeta – non era riuscito di farlo capire, nonostante l’innegabile impegno degli ambientalisti, degli scienziati e di personaggi carismatici come la nostra Greta. Le questioni, certamente, si sono poste in maniera diversa. La percezione del rischio individuale, nel caso del virus, è molto più immediata e naturale, oltre che considerata più vicina sia nello spazio che nel tempo. Anche i comportamenti che ci vengono chiesti per superare l’emergenza –  evitare i contatti, restare a casa, lavarsi spesso le mani, eccetera – sono molto più semplici da eseguire rispetto alle azioni che ci vengono chieste per fermate il Climate Change, e cioè cambiare stile di vita, rinunciare ai fossili, costruire una nuova economia. Oppure, se preferite parole più semplici e dirette: abbattere il capitalismo. Capirete che “lavarsi spesso le mani”, è una azione più facile da mettere in campo!

“Dobbiamo rivedere in modo radicale l’attuale modello di produzione e di sviluppo, che è insostenibile a livello ambientale, perché stiamo distruggendo la biodiversità del pianeta e sfruttando in modo selvaggio le risorse naturali ha sottolineato l’ambientalista Grazia Francescatoin una bella intervista pubblicata su Vita –  Ma che è inaccettabile anche a livello sociale, perché questo tipo di globalizzazione ha causato una disuguaglianza economica mai vista prima (8 persone al mondo hanno più risorse economiche della metà dell’umanità). Insomma, si tratta di promuovere quella che noi ambientalisti chiamiamo ‘conversione ecologica dell’economia e della società’, che vuol dire anche fare un salto culturale, creare una nuova coscienza collettiva”.
Siamo davvero sicuri che, proprio partendo dal presupposto che “Tout se tient”, l’esplosione di questa pandemia non abbia nulla a che vedere con i cambiamenti climatici, e, di conseguenza, col capitalismo? Molti studi scientifici mettono in evidenza che le variazioni repentine della temperatura e dei parametri ad essa collegati, come l’umidità, tendono a favorire il “salto di specie”, quel meccanismo per il quale il virus si trasforma e si trasferisce da una specie animale (il pipistrello, nel caso del Covid 19) all’uomo. Non è ancora certo in quale percentuale, i cambiamenti climatici e l’aumento della temperatura influiscono su questo meccanismo, ma una correlazione è sicura. Una ricerca di Giuseppe Miserotti per l’associazione Medici per l’Ambiente ha collegato l’esplosione delle ultime epidemie, dalla Sars all’Aviaria, sino all’influenza suina e all’attuale Covid 19, con i picchi di temperature, superiori perlomeno di 0,6 gradi sulla media, registrati nelle aree in questione. Anche a voler considerare le previsioni più ottimistiche sul surriscaldamento globale, c’è poco da stare allegri! In circolazione, sostiene Miserotti, ci sono miliardi di agenti patogeni pericolosi, sia negli animali che congelati nel permafrost in via di scioglimento degli oramai ex “ghiacciai eterni” dei poli. Agenti patogeni che potrebbero essere innescati proprio dall’aumento delle temperatura. 
Ma anche senza scomodare il Climate Change, non è un mistero che l’inquinamento imputabile alle energie fossili uccida anche senza bisogno di causare eventi meteorologici estremi. Citiamo, a tale proposito, solo la più recete ricerca del Medical Society Consortium che sottolinea come le patologie direttame note imputabili al consume di combustibili fossili accoppino almeno quattro milioni e mezzo di persone ogni anno! Vien da chiedersi come mai ci stiamo preoccupando tanto del Coronavirus! Ma anche in questo caso, “lavarsi spesso le mani” è una risposta più facile, più facilmente comunicabile e più tranquillizzante che “abbattere il capitalismo”. 
Ma, sostiene qualcuno, la diffusione di questa pandemia ha avuto perlomeno il merito di abbattere, se non il capitalismo, perlomeno le emissioni di gas serra. I cieli della Cina – che io personalmente non sono mai riuscito a vedere azzurri – non sono mai stati così puliti. Vero. Ma non è una buona notizia. Lo stesso Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha sottolineato che si tratta solo di un fenomeno temporaneo perché le attività che causavano l’inquinamento non sono state chiuse e, già adesso che in Cina si è usciti dalla fase emergenziale, stanno riprendendo con maggior vigore, come a voler recuperare il tempo, e il denaro!, perduti. Non illudiamoci, ha spiegato Guterres, che il virus ci aiuti nella lotta ai cambiamenti climatici. Anzi, il rischio è che la pandemia invisibilizzi la questione del Climate Change e distragga l’opinione pubblica dalla vera grande battaglia che l’umanità deve combattere per salvare questo pianeta dove “Tout se tient”, dal clima, alle epidemie, alla giustizia sociale. E stavolta nessuno ci potrà dire che basta “lavarsi spesso le mani”. 

A Madrid è stato assassinato l’accordo di Parigi. Cop25 sarà l’ultimo crimine contro l’umanità

Cop25 ha chiarito una volta per tutte che i governi del mondo non sono in grado di mettere in campo una strategia adatta a contrastare i cambiamenti climatici. Al contrario della precedente conferenza svoltasi a Katowice, dove gli osservatori più ottimisti avevano giudicato in maniera positiva l’apertura di alcuni, generici, spazi di intervento verso un definitivo abbandono dei fossili, la conferenza di Madrid ha messo tutti d’accordo: Cop 25 è stata un completo fallimento. A nulla sono valsi i “tempi supplementari” di ben 42 ore giocati dopo la prevista chiusura dei lavori nel tentativo di salvare perlomeno la faccia. I rappresentanti dei 196 Paesi che hanno partecipato agli incontri, non hanno saputo, o voluto, trovare nessun accordo sui tre punti principali in discussione: la regolazione del mercato del carbonio, le compensazioni ai Paesi poveri e la quantità di Co2 che ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a tagliare nei prossimi anni. Quei tre punti che a Katowice erano stati lasciati in sospeso e “rimandati a settembre”. Cioè alla prossima conferenza sul clima, questa di Madrid.
Come si temeva, non sono bastati i drammatici appelli degli scienziati (oramai non è rimasto più nessuno a sostenere tesi negazioniste) che hanno lanciato numerosi appelli al buonsenso, invitando i governi a dare retta alla scienza e non all’economia. Non sono bastate nemmeno le drammatiche notizie degli scioglimenti dei non più eterni ghiacciai artici o i fenomeni atmosferici sempre più estremi che si stanno verificando sempre più frequentemente in tutto il pianeta. A Venezia ne sappiamo qualcosa! Non sono bastate nemmeno i milioni di giovani che sono ripetutamente scesi nelle piazze di tutto il mondo a chiedere, in nome della “democrazia climatica”, una radicale svolta ecologista nella politica capace di ridare una speranza alla terra. Tutto questo non è servito a niente se non a dimostrare che i governi e la finanza procedono imperterriti in una direzione contraria a quella verso cui vanno la scienza, i cittadini consapevoli e pure il buon senso.
Il guaio è che sono i primi a tirarsi dietro il pianeta!

Quanto è accaduto a Madrid altro non è che un crimine contro l’umanità. Il peggiore. Non solo perché è il più cinico, il più cattivo e pure il più stupido. Questo rischia di essere il crimine “definitivo” contro l’umanità. Perché se l’aumento della temperatura non verrà in qualche modo contenuto, non ci sarà più posto per l’umanità sul pianeta Terra.

Sotto questo punto di vista, il genericissimo documento di intenti in cui si esprime la volontà di combattere in qualche modo i cambiamenti climatici, chiamato ipocritamente “Time for action”, appare solo come una crudele presa per il sedere. Senza considerare che, come ha sottolineato il noto ed apprezzato meteorologo Luca Lombroso, anche per questo documento assolutamente inefficace ai fini pratici, Brasile e Usa hanno avuto il coraggio di fare ostruzione! I primi perché hanno tutta l’intenzione di “monetizzare” la foresta amazzonica sino all’ultimo albero - e tanti saluti all’ultimo polmone verde rimasto su questa terra -, i secondi perché il loro presidente Donald Trump continua a sostenere tesi negazioniste in onore alle lobby delle energie fossili che lo hanno fatto eleggere.

Dopo questa Cop, di fatto, l’accordo di Parigi non esiste più. Solo l’Europa, grazie al nuovo Governo, qualcosa ha fatto approvando un percorso che dovrebbe condurci nel 2050 alla “neutralità climatica”, ovvero a zero emissioni. Ma l’Europa da sola non basta. Gli Stati Uniti, come hanno dichiarato da tempo, si stanno sfilando ed è possibile che nei prossimi incontri non parteciperanno neppure con un delegato. Cina, India, Russia, Paesi Arabi e il Brasile del presidente Jair Bolsonaro - guarda caso i Paesi che inquinano maggiormente e che sono stati tra i principali attori di questo fallimento - hanno ampiamente dimostrato che non sono disposti neppure e concedere una generica promessa a contenere le emissioni ed a limitare il consumo delle energie fossili.

Arrivati a questo punto, possiamo anche cominciare a discutere su cosa ed a chi servono queste conferenze sul clima se non a “dare un’opportunità ai Paesi di negoziare scappatoie”, come ha suggerito Greta.

Cronache di ghiaccio e di fuoco. La Siberia brucia, il nostro pianeta brucia e a qualcuno va bene così

La nostra casa è in fiamme. Letteralmente. In questi ultimi due mesi, che passeranno alla storia come il giugno e il luglio più caldi della storia del pianeta Terra, se ne andata in fumo una area più vasta del Portogallo: più di 100 mila chilometri quadrati. Anche di più, a dare retta alla sezione russa Greenpeace che afferma senza peli sulla lingua che il presidente Vladimir Putin non racconti tutta la verità quando parla della portata degli incendi.
Improvvisamente, di fronte alle terrificanti immagini di enormi ghiacciai trasformati in laghi, abbiamo scoperto tutti che la nostra Terra è molto, molto più fragile di quello che pensavamo o, meglio, speravamo. 
I ghiacci che pensavamo eterni della Groenlandia, del Canada, dell’Alaska e della Siberia si sono trasformati in fuoco, complice un aumento della temperatura su queste regioni che va dagli 8 ai 10 gradi rispetto alle medie registrate tra il 1981 e il 2010. Non ha mai fatto tanto caldo nelle terre artiche. Basta la semplice caduta di un fulmine per scatenare un incendio di proporzioni bibliche.
I disastri peggiori sono avvenuti in Siberia, terra che i russi hanno sempre considerato un territorio di conquista e di sfruttamento. Al momento in cui scrivo, ci sono oltre 180 focolai ancora attivi e, da quasi un mese, un incendio grande come la città di Londra continua ad avvampare senza che nessuno pensi a come intervenire.
I cieli di Krasnoyarsk, Kemerovo e di altre città siberiane sono neri di fuliggine. Il fumo sta arrivando anche a Mosca ed è soltanto una notizia di pochi giorni fa che Putin abbia dato ordine alla protezione civile di intervenire in qualche modo. 
Ma perché tanta indifferenza di fronte ad un disastro di queste proporzioni? «Gli incendi? Sono fenomeni naturali qui da noi. Combatterli è inutile! Sarebbe come affondare un iceberg per rendere più tiepida la temperatura del mare in inverno» ha dichiarato il governatore della regione di Krasnoyarsk, Aleksandr Uss, cercando di gettare acqua sul fuoco (in senso metaforico, ovviamente) davanti alle denuncia degli ambientalisti. A parte il paragone con l’Iceberg che è palesemente idiota, anche se l’avesse voluto, il governatore Uss non aveva nemmeno i mezzi per intervenire. Una legge nazionale russa vieta infatti la mobilitazione della protezione civile se i costi non valgono la candela. Come dire che prima di spegnere un incendio bisogna buttare giù due conti per vedere se l’intervento costa più del valore della “merce” che sta bruciando. E pazienza se gli incendi siberiani hanno sparato nell’atmosfera - sino ad ora - oltre 100 milioni di gas climalteranti! L’equivalente delle emissioni di un anno di Svezia e Norvegia insieme. Gas che, manco a dirlo, contribuiranno al riscaldamento del pianeta così che il prossimo anno ci saranno ancora più incendi. 
«Soltanto adesso, con un ritardo di almeno un mese e mezzo, il presidente Putin ha deciso di intervenire dichiarando addirittura di aver mobilitato anche l’esercito - mi ha raccontato al telefono una amica giornalista ed attivista ambientalista di San Pietroburgo che mi ha pregato di mantenerle l’anonimato - Una decisione arrivata sulla spinta dell’opinione pubblica mondiale, considerando che anche Trump lo ha chiamato, offrendogli il suo aiuto, perché i fumi sono arrivati anche in Alaska. Ma è tutto da verificare l’impegno del nostro presidente su questioni come queste che riguardano la tutela ambientale». 
Ma perché tutta questa indifferenza davanti ad un disastro di queste proporzioni? «Non è affatto indifferenza ma complicità. Non possiamo portare prove certe ma, secondo molti attivisti siberiani, non tutti gli incendi sarebbero naturali. La Siberia è da tempo una terra di conquista per il capitale cinese che ha investito in grandi progetti di estrattivismo. Gli incendi giocano tutti al loro interesse. Senza contare l’industria del legno che è quasi completamente appaltata ad aziende di Pechino. Ci sono più segherie cinesi che orsi, oramai. Il disboscamento illegale, gestito in collaborazione con la mafia russa, è una piaga consolidata nelle regioni di Krasnoyarsk e Irkutsk. Questi incendi permettono di avviare immediatamente riforestazioni di intere aree con piante non autoctone ma a più alto valore commerciale. Insomma, mafia e capitalismo si sono alleati per causare disastri ambientali cui aggiungere altri disastri ambientali e trasformare tutto in merce da vendere al mercato globale. Il tutto con l’appoggio più o meno coperto del governo di Mosca». 

Putin non combatte la mafia russa? “Come no? Più o meno come il vostro Salvini combatte la mafia italiana”.

Pfas, tutti sapevano. Nessuno è intervenuto

Un corposo rapporto dei Noe accusa la giunta provinciale di Vicenza della leghista Manuale De Lago di non essere intervenuta per fermare l’avvelenamento delle acque

Lo sapevano. Lo sapevano tutti e non hanno fatto niente. Non hanno fatto niente anche se, per scongiurare il più devastante caso di inquinamento della falda acquifera dell’intera Europa, sarebbe bastato applicare la legge! 350 mila persone - ed è una stima per difetto - avvelenate dai Pfas, gli acidi perfluoro alchilici utilizzati dalla Miteni per produrre rivestimenti impermeabili. 350 mila uomini, donne e bambini avvelenati grazie al silenzio complice delle autorità che avevano il compito di difendere la loro salute. 

Per almeno 13 anni, l’Arpav e la giunta provinciale di Vicenza hanno deliberatamente ignorato tutte le prove della contaminazione. Hanno fatto finta di non vedere per non dover intervenire nonostante fossero evidentissimi i segnali dell’ “incremento nella contaminazione da benzotrifluoruri, sintesi o sottoprodotti derivati dall’attività della Miteni”, come si legge nel documento di monitoraggio ambientale chiamato Giada avviato sin dal 2003 dall’Ufficio ambiente della provincia di Treviso. 

Un  rapporto del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri di Treviso testimonia come sin dal 2006 i preoccupanti risultati emersi dal progetto Giada fossero stati portati all’attenzione della giunta provinciale di Vicenza, capitanata dalla leghista doc Manuela Del Lago. Lo studio evidenzia senza possibilità di errore come la falda acquifera di Trissino, dove sorgeva la Miteni, avesse subito un drastico inquinamento imputabile “a fattori idrologici o a fatti nuovi verificatesi all’interno dell’area dello stabilimento”. 

Se la Provincia fosse intervenuta immediatamente, ora non saremmo all’emergenza. Ed invece sono stati zitti e hanno scelto di lasciare tutto come stava, permettendo alla Miteni di continuare a produrre Pfas ed al conseguente inquinamento di allargarsi sino a contaminare le falde delle vicine province di Treviso e Padova. 

Nella giornata mondiale dell’Ambiente il Governo non vuole sentire parlare di ambiente. Lega e 5 Stelle bocciano la mozione sull’emergenza sostenuta da Fridays for Future

Al Governo del Cambiamento dell’ambiente non gliene frega niente. Lo sapevamo sin dall’inizio della legislatura. Ce lo ha confermato quel Patto di Governo che i cambiamenti climatici non si sogna neppure di menzionarli. Ma lo sapevamo anche prima. Tanto i 5 Stelle che la Lega - i due partiti populisti per eccellenza, fabbricatori di fake new in perenne e urlata campagna elettorale - non  hanno nulla a che spartire con concetti complicati come quelli relativi alla difesa dell’ambiente. Non hanno né la capacità né tantomeno l’obiettivo di farsi carico di scelte che li porterebbero ad intaccare un sistema economico che, soprattutto in Italia, non ha niente di verde. Scelte peraltro, che risulterebbero anche impopolari ai tanti italiani che non hanno nessuna intenzione di cambiare stile di vita. Anzi, è proprio sulla paura del cambiamento che questi partiti hanno costruito le loro fortune elettorali. La “colpa” è sempre e comunque dei migranti e non del clima. Giusto? Oppure delle zecche dei centri sociali che quando vanno in piazza “obbligano” la polizia a pestare a sangue un giornalista. Perché mai 5 Stelle e Lega dovrebbero mettere tutto in discussione? Solo per evitare quei cambiamenti climatici i cui effetti più drastici li vedremo tra una ventina d’anni, quando si sa che l’orizzonte di politici di mezza tacca come sono quelli che ci governano non va oltre le prossime consultazioni elettorali? 

La bocciatura in Senato della mozione per la dichiarazione dell’emergenza climatica in Italia, come è stato fatto in altri Paesi Europei, è solo una logica ed inevitabile conseguenza di tutto ciò. La Lega e il suo elettorato, ai cambiamenti climatici neppure ci crede. E’ gente che ha paura. E l’ignoranza è un rassicurante rifugio che ha il vantaggio di regalarti granitiche certezze. Fermiamo i barconi e l’invasione… Prima l’Italia… Ruspe… Cosa pretendete? Che comincino a ragionare sul fatto che sarebbe meglio cambiare l’economia e non il clima? 


I 5 Stelle sono ancora peggio. Sono stati allevati in un partito di proprietà di una azienda privata che si tramanda di padre in figlio e che chiamano “movimento”. E’ vero che hanno raccolto voti di alcuni disperatissimi attivisti di movimenti ambientali, ma solo perché quando si è in campagna elettorale promettere non costa niente. Soprattutto se sei uno di quelli o di quelle che hanno la faccia come il culo. Stop ai vaccini che contengono metalli pesanti. Via l’Italia dalla Nato. Sì all’euro, no all’euro. Basta con le scie chimiche e il signoraggio bancario… Ma davvero qualcuno sperava che avrebbero tradotto in pratica politica le loro sparate da maghi di Luna Park?

Il risultato è il Governo che abbiamo. E facciamo attenzione che la bocciatura alla mozione, arrivata per giunta nella Giornata Mondiale dell’Ambiente, avrebbe potuto tranquillamente essere un “sì” senza che questo causasse stravolgimenti all’azione del Governo. Il testo presentato dalla senatrice Loredana De Petris (LeU) e dal suo collega Andrea Ferrazzi (Pd), era poco più di un impegno generico ad intraprendere qualche azione a difesa del clima. Niente di che… al massimo una dichiarazioni di buone intenzioni per “accontentare” i giovani e le giovani di Fridays for Future che si sono mobilitati con tanto impegno nei venerdì per il clima. Non c’era nessuna possibilità - per dirla come va detta - che la mozione potesse costringere il Governo a tagliare un solo euro di quei 19 miliardi di sussidi alle fonti fossili che continuiamo a sborsare alla faccia degli accordi di Parigi. Tanto per citare una voce di bilancio che, se davvero abbiamo cuore l’ambiente, bisognerebbe buttare fuori dalla finanziaria come le grandi navi dalla laguna. 

Perché allora il Senato non l’ha approvata? Perché la Lega non ha voluto perdere l’occasione di usare la bocciatura come una mazzuola per dare ancora in testa ai 5 Stelle. L’ambiente è un hashtag ancora adoperato dai grillini, anche se - tu vai a capire il perché - alle manifestazioni per l’ambiente non si fanno più vedere. I leghisti, dal canto loro, ne preferiscono altri: #sicurezza, #pistolepertutti, #stopinvasione… Allora cosa è successo allora? E’ successo semplicemente che il ministro Matteo Salvini ha voluto ricordare per l’ennesima volta al collega Luigi Di Maio chi comanda e chi detta l’agenda. E nell’agenda del Governo la parola ambiente devono ancora scriverla e mai la scriveranno. Dopo la scoppola elettorale, l’unico obiettivo dei 5 Stelle oramai è salvare la poltrona sino alla fine della legislatura. Tutto qua. Da “uno vale uno” a “mutismo e rassegnazione”, come si diceva una volta alle “burbe” in caserma. 

“Si vede che nessuno di quelli che ha votato contro ha dei figli. Si vede che nessuno del Governo vive in Italia, dove la temperatura media è aumentata non di 1,1 gradi come la media globale ma di 1,58 gradi. Si vede che nessuno di loro pensa di essere ancora vivo nel 2030”. Così hanno amaramente commentato sul loro profilo Instagram le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future che non hanno preso bene la bocciatura della “loro” mozione. 


Così come non hanno preso bene l’approvazione del testo alternativa avanzato dei 5 Stelle che l’emergenza climatica non la menziona neppure e parla genericamente di, pensate un po’!, “promuovere campagne di sensibilizzazione e informazione rivolte ai cittadini in sinergia con gli enti locali”. Non hanno preso bene neppure il fatto che Di Maio, tutto contento, abbia fatto passare tutto questo come una sua grande vittoria diplomatica nei confronti di quegli insensibili della Lega. Ma già, cosa dicevamo delle facce dei nostri eletti al Parlamento? 

#FacciamoCausa. I movimenti ambientalisti denunciano lo Stato Italiano per immobilità nell’affrontare i cambiamenti climatici

La prima “causa climatica” arriva nei tribunali italiani. L’iniziativa è stata lanciata oggi, alle ore 12,30, in occasione della giornata mondiale dedicata all’ambiente.
“Chiediamo ai giudici di condannare lo Stato Italiano per la violazione del diritto umano al clima – si legge nel comunicato di presentazione dell’iniziativa -. Il livello della minaccia rappresentata dagli stravolgimenti climatici e la debolezza delle misure messe in atto dagli Stati destano una crescente preoccupazione nell’opinione pubblica, che si organizza attraverso mobilitazioni sempre più intense a livello internazionale. Il movimento per la giustizia climatica rappresenta oggi uno dei fenomeni più rilevanti sulla scena internazionale, denunciando senza sosta l’immobilismo dei poteri pubblici nella protezione dei diritti umani connessi al clima”. A questo link potete trovare il testo integrale del comunicato. “Da questo punto di vista -continua il testo-, l’Italia non fa eccezione. Il nostro Paese ha obiettivi di riduzione delle emissioni scarsamente ambiziosi e non in linea con le raccomandazioni espresse dalla comunità scientifica per centrare l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro la soglia prudenziale dei +1,5 centigradi”.
Non sarà la prima “causa ambientale” al mondo. In ben 25 Paesi, la società civile è riuscita a portare alla sbarra lo Stato. E con lo Stato, le imprese e i progetti con un forte impatto sul clima. Alcuni contenziosi sono ancora in atto. Ma in Olanda, gli ambientalisti hanno visto la causa nei primi due gradi di giudizio e hanno imposto al Governo di rivedere i suoi piani.
L’iniziativa legale, che partirà in autunno col deposito dell’atto di citazione, e la campagna a suo sostegno, chiamata “Giudizio universale” sono state lanciate da una lunga lista di associazioni, movimenti, comitati ambientalisti e siti che si occupano di ecologia di tutta la Penisola, tra i quali EcoMagazine.
Per aderire, contribuire, o per essere inseriti nella mailing list informativa, collegatevi al sito Giudizio Universale. L’hastag ufficiale sarà #FacciamoCausa.
“La campagna è patrimonio di tutte le organizzazioni e i movimenti sociali impegnate in questi mesi contro i cambiamenti climatici – spiegano i portavoce di A Sud-, e vuole essere un ulteriore strumento di pressione per il nostro governo in vista della prossima Conferenza Mondiale sul Clima, in Cile”. 
Contatti.    Mail: stampa@giudiziouniversale.eu    Tel: 348 686 1204

A Vicenza nasce la piattaforma Veneta per la democrazia climatica. La marcia mondiale per il clima non si arresta

Una tappa fondamentale per la nostra Regione. Almeno 250 persone, in rappresentanza di comitati, associazioni e spazi sociali di tutto il Veneto, si sono riuniti al Bocciodromo di Vicenza per mettere insieme proposte, idee, iniziative, problematiche e costruire un percorso condiviso che porti alla marcia per la giustizia climatica, contro le grandi opere, che si svolgerà a Roma sabato 23 marzo. 
Un percorso, questo lanciato in Italia sotto l’hashtag #siamoancoraintempo, che apre spazi di mobilitazione in tutto il pianeta, perché non c’è zona della terra che non sia messa in pericolo dai cambiamenti climatici. Se è vero che siamo ancora in tempo, è anche vero che il tempo è questo. E’ necessario, per rispolverare un vecchio slogan ambientalista, pensare globalmente ma agire localmente. Tanto più in una Regione come il Veneto, da decenni ostaggio di una cricca di potere che ha mercificato l’ambiente sotto il tallone di grandi opere, inutili e dannose, come la Pedemontana, la Tav, il Mose, inquinando l’acqua con Pfas, la terra con capannoni, per lo più inutilizzati, e cemento, l’aria con valori di Pm10 che sono tra i più alti in Italia. E senza contare che già in Italia sono tra i più alti d’Europa!
Al di là di ogni inutile compromesso, a Vicenza è stato ribadito quando detto in occasione della marcia dell’8 dicembre a Padova: per difendere il clima non c’è che una sola strada, quella che cambia il sistema. Giustizia climatica è giustizia sociale. La lotta per difendere il clima è la lotta per difendere i diritti dell’uomo e per un lavoro che non sia asservito al capitale ma ricondotto alla sua funzione originale di sostentamento. Si lavora per vivere e non si vive per lavorare. Anche questa è una lotta contro l’inquinamento
Nei nove tavoli tematici in cui l’assemblea vicentina si è divisa, sono stati affrontati tutti gli argomenti -dall’inquinamento delle falde alla cementificazione del suolo, dal traffico automobilistico agli allevamenti animali intesivi – volti a mettere insieme una piattaforma completa di rivendicazioni per la giustizia climatica. Una piattaforma che, prima ancora che a Roma, sarà presentata alla Regione Veneto. 
Il 23 febbraio l’arcipelago ambientalista organizzerà in un campo di Venezia ancora da stabilire, una festa per l’ambiente che mescoli informazione, protesta e divertimento (siamo proprio nel bel mezzo del carnevale). 
Altri appuntamenti, li segnaleremo su EcoMagazine, non appena saranno pronti. Sempre su EcoMagazine, troverete, una volta conclusa la stesura, il documento finale del meeting al Bocciodromo ed i testi delle rivendicazioni ambientali preparate da ogni tavolo. 
Su Ecomagazine.infouna panoramica in stile “foto di famiglia” del meeting vicentino, gentilmente realizzate per EcoMagazine dal fotografo Attilio Pavin, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

A Katowice è stato un funerale

Cop 24 è conclusa. Adesso sappiamo cosa bisogna fare per evitare ila catastrofe. E sappiamo anche che i Governi non lo faranno. La 24esima conferenza mondiale sul clima è finita come era cominciata. Ed  era cominciata proprio male, con il discorso di apertura del presidente polacco, il nazionalista Andrzei Duda, che augurava buon lavoro ai delegati di quasi 200 Stati presenti, aggiungendo subito dopo che “la Polonia non può rinunciar al carbone”. Non è neppure un caso che Katowice, scelta come sede della conferenza, si trovi proprio nel cuore della regione mineraria più importante della Polonia, la Slesia, che copre oltre l’80 per cento dei suoi bisogni energetici bruciando carbone. 
L’obiettivo di Cop 24 era quello di approvare il cosiddetto “rulebook“, cioè l’agenda per rendere operativo l’accordo di Parigi. Accordo che, ricordiamolo, impegnava i Paesi firmatari ad attuare tutte le misure necessarie a limitare l’aumento della temperatura globale a 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale ed a contenerlo possibilmente entro il grado e mezzo. Accordo immediatamente criticato dai movimenti ambientalisti di tutto il mondo, in quanto non vincolante e basato tutto sulla “buona volontà” dei vari Governi. Tutto vero. Ma dobbiamo tener presente che, se l’accordo fosse stato vincolante, almeno un quarto dei Paesi firmatari – e, guarda il caso, proprio quelli più inquinanti! – non lo avrebbero sottoscritto col risultato che di politiche volte a ridurre i gas serra non se ne sarebbe più parlato. A Parigi, si è scelta la via diplomatica. Una via che, se non altro, ha tenuto aperte le porte a future negoziazioni ed ha consentito ai movimenti ambientalisti di tutta la terra di attivarsi, agendo localmente su prospettive globali, per chiedere ai Governi dei loro Paesi il rispetto di quegli accordi che loro stessi hanno sottoscritto. 

E l’adozione del “rulebook” inteso come una tabella di marcia con tanto di regole vincolanti e trasparenti per valutazione degli obiettivi è forse l’unico risultato positivo di questa conferenza polacca. Certo, neppure il “rulebook” sarà vincolante, ma renderà più facile stabilire come, dove, quando e perché un Governo ha sforato i limiti di emissioni che si era prefisso con gli accordi parigini. Ma rimante comunque una incolmabile distanza tra le piccole concessioni strappate ai vari Governi, con mezze promesse e impegni tutti da verificare, e la spaventosa urgenza della crisi climatica in cui il pianeta intero è precipitato.  
Gli accordi di Parigi assegnavano alle future Cop il compito di fare il punto sulla situazione climatica del pianeta. Qualche giorno prima dell’apertura dei lavori, l’Ipcc, il “panel” di climatologi dell’Onu impegnato nello studio dei cambiamenti climatici, aveva diffuso un rapporto preoccupante. Dati alla mano, da Parigi in poi, le emissioni di gas climalteranti non soltanto non sono diminuite ma sono addirittura aumentate. La conclusione del rapporto è drastica: abbiamo dodici anni per ridurre le emissioni di almeno il 45 per cento a livello globale altrimenti si apriranno per la nostra Terra degli scenari catastrofici. Senza un’inversione di rotta, raggiungeremo e supereremo già entro il 2030 quel limite che gli accordi di Parigi imponevano di evitare entro la fine del secolo. 
Come dire che, davanti al baratro, l’umanità invece di rallentare o cambiare strada, ha accelerato. Una accelerazione climatica che va di pari passo con l’accelerazione a destra che ha portato partiti nazionalista, populisti e radicalmente ignoranti in posizioni di Governo in molti Paesi del Mondo. Ai tradizionali “fan” delle energie fossili, come Arabia, Russia e Kuwait, si sono aggiunti via via Paesi come l’Australia del liberale Scott Morrison e, new entry, il Brasile di quella sorta di macchietta di generale golpista da repubblica delle Banane che altro non è il neo presidente Jair Bolsonaro. Per non parlare degli Stati Uniti, che con Barack Obama furono i protagonisti in positivo della Cop di Parigi ed ora con Donald Trump alla Casa Bianca hanno già annunciato di volersi sfilare dagli accordi di Parigi non appena i tempi della burocrazia internazionale renderà praticabile questa opzione. Trump, d’altra parte, ha più volte twittato che gli scienziati possono dire quello che vogliono ma lui, ai cambiamenti climatici, non ci crede e, riferendosi agli aiuti economici ai Paesi più poveri perché abbassino le emissioni, che non capisce perché mai “i contribuenti e i lavoratori americani devono pagare per ripulire l’inquinamento degli altri paesi”. Il bello di Trump è che è sinceramente convinto che gli Usa non si trovino sul pianeta Terra!
Una marcia indietro, questa degli Stati Uniti, che ha avuto l’effetto di rallentare la conversione verso energie più pulite di Paesi come la Cina (responsabile del 27% delle emissioni globali), dell’India(7%) e pressoché di tutti gli Stati africani. Paesi disposti a cambiare politica energetica ma soltanto nel caso che questa si dimostrasse più conveniente dal punto di vista economico rispetto all’utilizzo del fossile. 
Il che ci porta al nocciolo della questione: quali e quanti incentivi assegnare ai cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” affinché optino per una scelta energetica sostenibile? Una questione fondamentale che i delegati dei Paesi del mondo riuniti a Katowice hanno semplicemente evitato di affrontare, rimandando tutto alla prossima Cop che si svolgerà in Inghilterra. Perché la proposta di farla in Italia lanciata dal nostro ministro per l’Ambiente, Sergio Costa, è stata valutata dalla comunità internazionale credibile esattamente come il nostro Governo. Cioè, zero. 
Con una posta in gioco che è il futuro di tutto il pianeta, i delegati dei vari Governi sono andati a Katowice per litigare sugli spiccioli. Eppure “affrontare il cambiamento climatico farebbe risparmiare almeno un milione di vite all’anno” si legge in una relazione dell’Oms , l’Organizzazione Mondiale della Sanità. I benefici economici di un miglioramento della salute, sottolinea, statistiche alla mano, un articolo di ValigiaBlu, sono più del doppio dei costi di riduzione delle emissioni. “Al momento facciamo finta che i combustibili fossili siano combustibili a buon mercato, solo perché non ne includiamo il costo per la nostra salute e per l’economia” ha dichiarato Diarmid Campbell Lendrum, dell’Oms. “Non si tratta solo di salvare il pianeta in un ipotetico futuro, si tratta di proteggere la salute delle persone in questo momento”.
Per trovare dei politici capaci di guardare oltre i 4 o 5 anni del loro prossimo mandato, bisogna andare alle isole Marshall o alle Maldive. In quei Paesi insomma, che non sono imprigionati in politiche estrattiviste ma che, come colmo dell’ingiustizia, saranno i primi a pagare le spese dell’innalzamento del livello del mari. “Noi saremo i primi a soffrire le conseguenze dei cambiamento climatici – ha spiegato ai delegati la presidente delle isole Marshall, Hilda Heine, – Il mio Paese rischia l’estinzione. Entro il 2050 dovremo abbandonare centinaia di isole. Dove andremo?”
Tra i Paesi convertitisi ad una destra ostinatamente negazionista ci possiamo mettere anche l’Italia. Il siparietto del nostro sopracitato ministro a 5 Stelle in quel di Katowice, che ha proposto di far fare la prossima Cop anche ai bambini – “Loro parlano e noi adulti ascoltiamo. Abbiamo tanti da imparare dai bambini” ha dichiarato – è stato semplicemente pietoso. Ma si sa che i cambiamenti climatici sono rimasti fuori dal contratto del Governo del Cambiamento, proprio come gli incentivi al green sono stati esclusi dalla Finanziaria degli Italiani. Ricordiamo solo per amor di cronaca anche lo sproloquio del capo di gabinetto del ministero per la Famiglia, Cristiano Ceresani, per cui la colpa dei cambianti climatici sarebbe tutta del diavolo e dei peccatori, e chiudiamo qua il “contributo” del nostro Governo lega stellato alla questione del Climate Change. 
Chi ha capito invece, che i cambiamenti climatici sono una cosa seria è la finanza. Un articolo del Sole 24 Ore ha spiegato nei dettagli come ci si possa fare i soldi grazie al clima, investendo in operazioni finanziarie volte a “impadronirsi anzitutto di diritti d’accesso a falde acquifere sotterranee, sempre più scarse e preziose”. In particolare “nelle zone tra le più inaridite dall’effetto serra“, magari approfittando di situazioni contingenti come lo scioglimento delle nevi dei ghiacciai che liberano risorse idriche, proprio come è avvento in Nevada, con grande gioia degli investitori che hanno triplicato i loro soldi in due anni appena. 
A dettar legge, insomma, continua ad essere l’economia. Non la scienza e nemmeno la politica. In questo modo, i cambiamenti climatici sono stati utilizzati come utile ed emblematico strumento da rapina da un capitalismo che continua a crescere ed alimentarsi sfruttando gli ultimi sussulti di vita di un pianeta condannato. 
In mani rapaci, il clima è diventato un’arma da guerra puntata contro i Paesi meno industrializzati, prima per depredarli delle loro ricchezze fossili – le stesse che hanno causato i cambiamenti climatici – utilizzando Governi fantocci e terrorismi religiosi, e poi trasformando la loro ultima risorsa, la migrazione, in una merce da appaltare dove genera più profitto: le organizzazioni criminali, governative o meno. 
Il clima è entrato in borsa come un titolo in perenne rialzo. Al di là delle dichiarazioni di intenti, anche i Paesi europei che più si professano a favore di una svolta green, l’ottica di fondo rimane sempre quella capitalista. E’ il caso della Francia di Emmanuel Macron che aumenta le tasse sul carburante senza però impostare una politica di alternativa al trasporto privato, col solo risultato di scaricare i costi del disinquinamento sulle categorie meno abbienti.  
Oppure la proposta del nuovo padrone dell’Ilva, il miliardario indiano Adiya Mittal, che ha chiesto all’Europa l’istituzione di dazi verdi sull’acciaio prodotto da Paesi come gli Stati Uniti, le cui industrie non sono soggette al vincolo comunitario che le obbliga a ridurre del 43 per cento le emissioni di gas serra. Va de sé che questi dazi, anche a volerli definire “verdi”,  non andrebbero ad intaccare la quantità di Co2 sparata complessivamente nel pianeta Terra dall’inquinantissima industria siderurgica, quanto piuttosto a determinare “dove” questo acciaio viene prodotto. 
Ridurre i consumi, utilizzare materiale meno impattanti, riciclare e riutilizzare quanto è possibile, cambiare l’economia e non il clima, insomma, sono concetti ancora lontani dalla sfera di comprensione e di azione dei Governi. Soprattutto di quei Governi che potremmo definire neo nazionalisti ai quali i cambiamenti climatici fanno tutto sommato comodo perché possono cavalcare le tante crisi sociali che questi portano con sé – migrazioni, impoverimento, criminalità, svendita dei beni comuni… – per imporre militarizzazioni e autoritarismi. 
Tutto questo è passato sopra Katowice senza che i delegati dell’Onu riuscissero o volessero affrontarlo. Il rapporto dell’Ipcc indicava la luna e non hanno saputo o potuto far altro che guardare il dito. Sappiamo cosa bisogna fare ma sappiamo anche che i Governi non lo faranno. Sappiamo anche che non ci sono alternative e che solo una rivoluzione ci salverà. Quello che è andato in scena a Katowice è stato un funerale. Che sia quello della Terra o quello del capitalismo lo dovremo decidere noi. 

Attenzione: il Governo del Cambiamento sta cambiando il divieto di uso di Ogm!

5 Stelle e Lega hanno aperto la porta agli organismi geneticamente modificati e lo hanno fatto proprio lavorando all’interno della legge che doveva disciplinare le coltivazioni biologiche. Una legge sulla quali le associazioni di coltivatori come Aiab avevano già espresso forti perplessità, soprattutto in merito ai pesanti tagli dei già scarsi finanziamenti deviati verso le grandi e inquinanti coltivazioni che fanno abbondante uso di prodotti chimici. Una legge discutibile, elaborata senza tener conto delle osservazioni in merito dei coltivatori biologici che comunque non immaginavano che in fase di dibattimento, fosse accolto, nel testo approvato dalla Camera, la proposta dell’onorevole Guglielmo Golinelli, giovane deputato della Lega e grande allevatore di suini nel modenese, che abolisce in toto l’articolo 18. 
Come fa notare nel suo sito l’Aiab, l’associazione italiana per l’agricoltura biologica, l’articolo 18 era il muro che difendeva le coltivazioni nostrane dall’assalto degli organismi geneticamente modificati. Non solo l’articolo rimarcava il divieto assoluto di utilizzo di Ogm, ma affermava anche che non poteva essere commercializzato come biologico un prodotto contaminato anche se accidentalmente. 
“E’ un fatto che riteniamo gravissimo –  ha dichiarato il presidente di Aiab, Vincenzo Vizioli – che rende impossibile il sostegno di chi lavora per il buon biologico italiano. Riteniamo inaccettabile che si liberalizzi la contaminazione accidentale che, per le produzioni in pieno campo, apre pericolosamente la porta a future liberalizzazioni della coltivazione di Ogm. Liberalizzazioni che il nostro Paese più volte ha respinto grazie alla mobilitazione di associazioni e cittadini”. 

L’onorevole Guglielmo Golinelli, allevatore di maiali leghista
Oltretutto, fa notare Aiab, questa legge approvata dalla Camera viola il divieto sancito dal regolamento europeo di uso di Ogm in tutte le fasi di produzione, trasformazione e preparazione dei prodotti. 
“Insomma, invece di lavorare per evitare ogni tipo di contaminazione e qualificare il prodotto italiano, si sceglie la strada più semplice, quella dell’omertà – conclude Aiab -. I consumatori scelgono il biologico perché hanno paura dei pesticidi e vogliono evitare contaminazioni di qualsiasi tipo”. Si invoca da tutte le parti la massima trasparenza dell’etichettatura e di rintracciabilità di tutta la filiera “e poi si tiene nascosto al consumatore che nel prodotto c’è anche quello che lui, comprando biologico, sta cercando di evitare”.
Vincenzo Vizioli conclude invitanfo i parlamentari che riesamineranno la norma a reinserire l’articolo 18, sanando un passaggio che “vorrei poter leggere solo come errore e non come deprecabile strategia”.
Una deprecabile strategia, purtroppo, alla quale il cosiddetto Governo del Cambiamento targato leghisti e 5 Stelle ci ha già abituato da un pezzo! 

Il Veneto marcia per il clima. Siamo ancora in tempo e il tempo è ora

Tute bianche e maschere da angry animals, animali arrabbiati, dietro ad un grande striscione con le scritta “Stop Biocidio, cambiamo il sistema e non il clima” in testa al corteo. Dietro, un'originale carrozzella a pedali con tanto di impianto di amplificazione azionato da un pannello fotovoltaico per dare voce ai rappresentanti dei comitati e delle associazioni ambientaliste che si sono avvicendati al microfono. A seguire, un fiume colorato di oltre 5 mila persone che questo pomeriggio ha sfilato pacificamente per le strade di Padova, dalla stazione a piazza Garibaldi. Un corteo dalle mille bandiere ciascuna delle quali ricorda una delle tante lotte per l’ambiente che si stanno combattendo nella regione, dal Mose ai Pfas, dalla Pedemontana ai cementifici. Mille bandiere per mille battaglie ma per una sola guerra: quella contro i cambiamenti climatici. Una guerra che si sta combattendo in tutto il mondo, con milioni di persone scese nelle strade di tutti i Paesi per partecipare a questa marcia per il clima e ribadire che siamo ancora in tempo e che il tempo di cambiare è ora.
Quelli che un tempo venivano etichettati come i tanti comitati delle sindrome Nimby – Not In My Back Yard, traducibile con “non nel mio cortile” – hanno dimostrato con questa manifestazione di avere chiaro che il loro Back Yard oggi è il mondo. Perché i cambiamenti climatici riguardano tutta la terra e nessuno se ne può tirare fuori. Ridurre le emissioni di Co2 entri i prossimi 12 anni significa sovvertire un sistema economico che continua a basarsi sullo sfruttamento del lavoro e delle risorse, mercificando diritti e democrazia. Per questo, la battaglia per il clima è anche la battaglia per una società più giusta e includente.

«Non è l’umanità che sta cambiando il clima – ha spiegato Marta Busetto dell’associazione Mala Caigo, in apertura del dibattito che si è svolto nella sala polivalente di via Valeri, poco prima del corteo – ma un modello capitalista figlio di una logica estrattivista che vede il mondo come una cassaforte dove si può rubare sempre di più, come se le risorse fossero infinite». Non è neppure un caso se il Veneto, che è una delle Regioni più ricche d’Italia, sia anche una delle più colpite da fenomeni meteorologi estremi.

«Siamo la Regione dei 4 inceneritori e delle 17 discariche, senza contare i cementifici e le discariche abusive, non di rado nascoste sotto le nuove strade – commenta Mattia Donadel di Opzione Zero – Abbiamo uno dei siti più inquinati d’Italia, Porto Marghera, dove da decenni si fa un gran parlare di bonifiche che non arrivano mai. Siamo la Regione che utilizza più pesticidi di tutto il Paese, per non parlare dell’inquinamento dell’aria e delle falde acquifere con i Pfas o di città come Venezia, Padova e Vicenza che con 100 sformanti di polveri sottili all’anno sono tra le città più inquinate d’Italia. Quest’anno abbiamo superato la Lombardia come percentuale di terreno ulteriormente cementificato. Poi arrivano le inondazioni e con le inondazioni il ministro Salvini che ci spiega che è tutta colpa nostra, colpa degli ambientalisti da salotto, e non della Lega che sta governando il Veneto da più di vent’anni».

Veneto che è il laboratorio di un sistema di Grandi Opere, nato col Mose e proseguito con il Tav e la Pedemontana, volto ad impostare un sistema di corruzione che ha letteralmente espropriato la democrazia grazie ad un iter collaudato di commissariamenti e leggi in deroga.

Un sistema che, come hanno ribadito altri portavoce di organizzazioni ambientali e sindacali, ha colpito anche il lavoro, creando precarizzazione e sfruttamento. La lotta per il clima è quindi anche la lotta per il lavoro e per i diritti sociali. Se l’umanità sopravviverà ai cambiamenti climatici, lo farà solo imboccando la strada giusta per una società più giusta, libera dalla schiavitù del capitalismo.

In conclusione del dibattito, l’assemblea ha deciso di accogliere la proposta che viene dalla Val di Susa di partecipare alla manifestazione del 23 marzo a Roma, senza per questo trascurare le battaglie regionali. Battaglie da affrontare assieme e sotto una comune ottica di lotta ai cambiamenti climatici invocando il rispetto del protocollo di Parigi e, si spera, del documento rafforzativo che uscirà dalla Cop 24 che si sta svolgendo in Polonia. Per questo motivo, i comitati veneti hanno scelto di dare vita ad un tavolo di lavoro che non si limiti a mettere in fila tanti no ma ad impostare battaglia concrete volte a realizzare un mondo ad emissioni zero. «Dobbiamo fare capire che tutelate l’ambiente non significa rinunciare al benessere o al lavoro – ha concluso Francesco Pavin del No Dal Molin – ma, al contrario, creare un mondo più sano e più giusto, senza quello sfruttamento e quelle ingiustizie sociali che sono figlie di questo capitalismo che somiglia sempre di più ad una rapina a mano armata».

Dossier Libia, tutti gli orrori dell'altra sponda del Mediterraneo

Un progetto di LasciateCIEntrare per urlare cosa accade ai migranti in un Paese che è "sicuro" solo per la politica europea

Nessuno dica che non lo sapeva. Quanto accade nei lager libici è sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. Reportage giornalistici, testimonianze dirette, fotografie, allucinanti video girati qualche volta dalle vittime più spesso dagli stessi torturatori per ricattare i familiari dei seviziati o semplicemente per divertimento. Tutto questo è noto al mondo. Dite piuttosto che non ve ne frega niente o che non sono affari vostri, ma non dite mai che la Libia è un Paese sicuro o che i lager in cui rinchiudono i migranti sono centri di detenzione al pari di tanti altri.
E non dite nemmeno che l'Italia, l'Europa, noi stessi non abbiamo responsabilità di quanto accade in quel Paese. E' con i nostri soldi, quelle della "cooperazione", che i torturatori sono pagati per torturare, è con le nostre motovedette che la guardia costiera riprende i barconi dei profughi in fuga, quando non li affonda direttamente per lasciarli morire nel Mediterraneo.

Abbiamo trasformato il fenomeno della migrazioni in un business e lo abbiamo appaltato alla criminalità organizzata. In cambio, ci è stata restituita quella paura sufficiente per giustificare una politica fascista, populista e xenofoba. Una politica fatta di emergenze urlate, di proclami vuoti, di notizie false. Una politica che ha come unico obiettivo la limitazione dei diritti civili, la criminalizzazione dei movimenti e l'instaurazione di un regime totalitario. In altre parole, una politica che ha come obiettivo la stessa democrazia.
In tutto questo processo, il silenzio è complice. E per questo abbiamo deciso di denunciare con tutta la voce che abbiamo quanto accade in Libia. Perché tollerare tali continue e sanguinose violazioni dei diritti più basilari dell'uomo significa rinunciare alla nostra stessa umanità. Significa accettare il fascismo e la violenza come qualcosa di inevitabile. Oggi in Libia domani in Italia e in Europa.

Dossier Libia è nato all'interno della campagna LasciateCIEntrare in collaborazione con Asgi e Melting Pot proprio per questo scopo. Raccogliere reportage e testimonianze di quanto accade ogni giorno su quella sponda del Mediterraneo. Reportage di giornalisti di tutti i media del mondo che hanno acconsentito a collaborare con noi. Testimonianze raccolte dai volontari della rete di operatori che lavorano quotidianamente con le vittime della tortura e che abbiamo scelto di pubblicare senza censure - e vi assicuro che per noi questa non è stata una scelta facile! - proprio perché nessuno possa dire, un giorno, "io non lo sapevo".

Arrivederci alla prossima emergenza!


E così abbiamo assistito all’ultima “emergenza maltempo” che, con un bollettino di morti ammazzati degno della prima guerra mondiale (per citare un periodo che pare essere tornato di moda), ha messo ancora una volta in ginocchio il Paese dell’abusivismo edilizio, delle Grandi Opere e dei grandi condoni, dell’ambiente usato come un bancomat per mercificare i beni comuni, dirottare denaro pubblico nelle casse di aziende in odor di mafia e fabbricare consenso per politici inqualificabili.
Ma stavolta il Governo del Cambiamento ci ha spiegato con chiarezza di chi è la colpa: dei Governi precedenti, della Comunità Europea che non ci dà i soldi da spendere in altre Grandi Opere con le quali potremmo peggiorar ulteriormente la già pessima situazione, e, new entry, degli “ambientalisti da salotto”.
Virgolettato sparato dal ministro Ruspa, Matteo Salvini. Quello che nella sua veste di deputato europeo ha votato contro la ratifica degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici.

Eppure, che i cambiamenti climatici siano in atto e che l’umanità ha appena cominciato a pagarne le pesanti conseguenze, oramai lo sappiamo tutti, non solo i climatologi o gli scienziati. Lo sanno pure quelle persone che hanno votato per politici negazionisti come Bolsonaro, Trump o lo stesso Salvini. Politici cha hanno avuto la capacità di rassicurare le loro paure raccontando che la colpa è tutta dei migranti, dei poveri o delle donne che adorano farsi stuprare. Eppure sappiamo tutti che questi sono gli ultimi anni che l’umanità avrebbe a disposizione per cambiare rotta verso il disastro e cercare di limitare quei danni che, in ogni caso, bisogna mettere inevitabilmente in preventivo perché abbiamo perso troppo tempo.

Ma qualcuno direbbe che anche questo ritardo è tutta colpa degli ambientalisti da salotto. Qualcuno come la Lega che ha Governato il Veneto negli ultimi decenni ed ha portato la Regione in testa all’hit parade mondiale di consumo di suolo con un volume record di capannoni dismessi di oltre 21 milioni di metri quadri e, come sottolinea l’ultimo rapporto Ispra, ben 580 siti contaminati. Di investire in bonifiche non se ne parla nemmeno. Meglio dare i soldi ai cacciatori, che non sono “ambientalisti da salotto”. E nemmeno guardie forestale. Tanto per citare una categoria di lavoratori che ha subito tutti i tagli possibili, che all’ambiente potrebbe essere soltanto che utile ma che il presidente della Regione, Luca Zaia, si rifiuta anche di incontrare.

Ci stiamo preparando ad affrontare la subentrante epoca del nuovo clima con i pantaloni abbassati e senza un soldo per le bretelle.
Viene anche da domandarsi come si faccia ad essere così cialtroni. E la risposta è semplice: perché conviene. Naomi Klein l’ha battezzata “shock economy”. Per un certo modello di economia – lo stesso che ci ha regalato i cambiamenti climatici – è più remunerativo ricostruire che riparare. Mettere a norma di sicurezza una scuola costa meno che realizzarne una tutta nuova. E, vista così, non è nemmeno un caso che la Regione Veneto abbia stanziato più soldi per i presepi che per gli standard antisismici. Ma dall’Aquila terremotata alla Siria in guerra, dai disastri ambientali a quelli causati direttamente dall’uomo, l’economia che marcia e che fa guadagnare di più è quella della ricostruzione dopo la devastazione. La messa in sicurezza idrogeologica dei nostri fiumi ha il difetto di costare troppo poco. La finanza è un animale predatorio e si nutre di più a realizzare una nuova villa abusiva, magari esattamente nello stesso posto in cui la piena aveva spazzato via la precedente. Tanto poi si può sempre contare in uno di quei condoni in stile “e allora il piddi?” per i quali i 5 Stelle sono una garanzia. Perché a cambiare una guarnizione si guadagna di meno che sistemare una cantina allagata.

Lo sanno gli idraulici e lo sanno anche i nostri politici. Il giro di soldi che sta dietro una catastrofe va tutto a loro vantaggio. E non parliamo solo di eventuali tangenti. I disastri e le ricostruzioni portano clientele e visibilità che si traducono in consenso elettorale. Programmare interventi di risistemazione ambientale che, per forza di cose, devono essere studiati a lungo termine, no. Se poi questi interventi prevedono l’abbattimento di strutture abusive, la limitazione del traffico su strada, la lotta agli sprechi domestici, la riconversioni di fabbriche inquinanti, l’applicazione di politiche atte a limitare i cambiamenti climatici e altre cosa da “ambientalisti da salotto”, stiamo anche certi che di voti se ne perdono!

Ma a proposito di cambiamenti climatici, sapete dirmi quanti euro sono stati destinati su questo fronte nella “finanziaria del popolo”?
Bravi! Proprio così. Zero su zero!
Ci vediamo alla prossima emergenza maltempo!

Se il problema è la pioggia...

Ci risiamo. "Italia sferzata dal maltempo" leggiamo nei giornali. Titoli che sono gli stessi di un anno fa. Poi c'è la conta delle vittime. Sette persone hanno perso la vita lunedì. Altre quattro corpi sono stati recuperati oggi. Ci si augura che non arrivino altri aggiornamenti, ma anche così il numero delle vittime è superiore a quello dell'ultima "emergenza maltempo".

E dopo la conta delle vittime, ecco che i telegiornali sparano l'elenco dei danni. A Rapallo cede una diga, acqua alta da record a Venezia, la provinciale 227 per Portofino è cascata giù e il paese noto per la vita mondana è isolato, in Trentino 170 persone sono bloccata al passo dello Stelvio, tromba d'aria in Valsugana, decine di famiglie evacuate dalle loro case a Moena e nei paesi vicini, il mare spazza il porto di Posillipo devastando in maniera democratica tanto le barche dei pescatori che gli yacht dei vip, Adige e Piave in piena nel Veneto, scuole chiuse e incidenti un po' dappertutto.

A concludere il servizio tv o l'articolo, tocca alle dichiarazione del politico di turno. Il microfono viene dato al ministro, al deputato, o al presidente di Regione di turno. E qua, rispetto al servizio di un anno fa, qualche anima candida potrebbe anche aspettarsi delle novità. Non ci ripetono in tutte le salse che è arrivato il Governo del Cambiamento? Ma non c'è niente da fare. Anche se sono cambiati i suonatori, non cambia la musica. Anche se le scuse, e questo va detto, sono sempre più originali ("Ah, c'è una penale? Non lo sapevo quando facevo opposizione…") Ma la colpa delle strade che crollano è sempre e comunque dell'amministrazione precedente. Di assumere un serio impegno a lungo termine per mettere in sicurezza il Paese e prepararlo a quei cambiamenti climatici che, anche nella migliore delle ipotesi, saranno comunque drammatici ed inevitabili, non se ne parla.

Anzi! Se mai fosse entrata, potremmo scrivere che la questione "cambiamenti climatici" è stata completamente defenestrata dalla lista degli impegni delle nostre forze politiche. Opposizione compresa. Evidentemente non porta voti. Oppure la sua portata epocale va troppo al di là dagli orizzonti ristretti di questi politici che ci meritiamo.

Non è cambiata la musica - abbiamo scritto - perché, anche se sono cambiati i suonatori, non è cambiato quell'economica da rapina che continua a scrivere da solista lo spartito dove a noi tocca improvvisare. Se la colpa dei disastri è sempre del Governo precedente, la soluzione resta dappertutto quella delle Grandi Opere.

Da Trento, il neo presidente Maurizio Fugatti esce dalla sala di crisi della Protezione Civile soltanto per ribattere ai giornalisti l'importanza strategica della Valdastico e del tunnel sul Brennero. "Strade e autostrade vanno portate avanti - dichiara -, anche perché ormai c’è la piena consapevolezza delle persone sul fatto che neppure le remore ecologiste valgano più a giustificare lungaggini e rimandi. La migliore strategia di prevenzione di incidenti sta proprio nella costruzione intelligente di nuove opere”.

Da una Venezia allagata quasi come in un lontano '66, al sindaco Gigio Brugnaro non passa neppure per la testa che sarebbe stata una azione più intelligente potenziare la protezione civile piuttosto che assumere un battaglione di vigili palestrati ed armarli con le pistole per "correre dietro ai nigeriani”, per dirla come lui. «Giornate di acqua alta eccezionale come queste ci dimostrano che il Mose è necessario» ha spiegato, mentre con stivaloni da pescatore faceva la sceneggiata - davanti alle telecamere - di andare a salvare i turisti in piazza San Marco. Non ha spiegato invece che il Mose non entrerà mai in funzione, che non serve per fermare l’acqua qua alta e che è utile solo a dirottare soldi pubblici dalla salvaguardia vera a politici e privati in odor di mafia. Con paratie che si alzano solo sotto i 120 centimetri, piazza San Marco e tante calli di Venezia andrebbero ugualmente a mollo, e in caso di alte eccezionali come quelle di questi giorni, il pericolo di collassi delle paratie metterebbero in serio rischio la città.

Ma il problema vero del Mose, la "madre" di tutte le Grandi Opere italiane, non sta neppure qua e non si misura sui centimetri di marea che vanno al di là della portata delle paratie. Se invece di insistere su un'opera inutile e costosissima, pensata solo per foraggiare una nota gang di malaffare misto politico e mafioso, si fosse investito nel porre rimedio al dissesto della laguna causato dallo scavo inconsiderato di troppi canali, oggi Venezia non si troverebbe a mollo. Il Mose è la causa e non il rimedio dell'emergenza acqua alta di questi giorni.

Che sia proprio il cemento connesso alla politica delle Grandi Opere, e non la pioggia in se, a causare problemi all'Italia non viene in mente a nessuno di coloro che sono al Governo. Lo sottolineano ingegneri, ambientalisti, climatologi, ma non i nostri politici. Perlomeno non quelli seduti nelle stanze dei bottoni. Nessuno di loro ha neppure degnato di una risposta l'appello di Legambiente a chiudere le Grandi Opere più devastanti, salvaguardando il territorio e dirottando i fondi risparmiati alla messa in sicurezza idrogeologica dei nostri fiumi. Il Governo del Cambiamento continuerà come tutti i Governi precedenti, a finanziare opere come la Pedemontana che, più della pioggia che è sempre caduta al mondo, sono causa stessa del dissesto profondo in cui ci troviamo.

Sino alla prossima esondazione, sino alla prossima tromba d'aria, sino al prossimo allarme maltempo, per riscrivere da capo gli stessi articoli.

Internazionale “agisce e reagisce” per il sindaco di Riace


Il festival del giornalismo di Ferrara si ferma per manifestare a sostegno di Mimmo Lucano. Ed il Gad invita tutti a denunciare Salvini


“Agire e reagire” è il tema che Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale, ha scelto per il festival del giornalismo più importante d’Italia che si sta svolgendo in questi giorni a Ferrara. E “Agire e reagire” di fronte ad un sopruso come quello dell’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, è quanto hanno fatto i ferraresi che, grazie all’associazione Cittadini del Mondo, Ferrara che Accoglie, Rete per la Pace ed al Gad, Gruppo Anti Discriminazioni, hanno organizzato un presidio in contemporanea con la grande manifestazione che si stava svolgendo a Riace, nel pomeriggio di sabato.

Solidarietà e sostegno a Mimmo Lucano sono venuti dal pubblico di Internazionale, dallo stesso sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, e dai tanti giornalisti presenti ai dibattiti, tra i quali Gad Lerner e Ida Dominijanni, che hanno partecipato attivamente a presidio, nella piazza principale della città, ai piedi dello storico castello degli Estensi.

“Criminalizzare l’esperienza di Riace significa criminalizzare tutte le esperienze di solidarietà sociale del Paese - ha commentato Ida Dominijanni , cosa che peraltro il Governo sta già cercando di fare. Perché queste esperienze fanno paura e dimostrano quello che il Governo cerca di negare. Ma Riace non è una fiaba. E’ la dimostrazione vivente che l’accoglienza non soltanto è possibile ma anche conveniente”.

Anche il giornalista Gad Lerner invita alla mobilitazione e non farsi distrarre dalle bugie che stanno circolando sul sindaco. Una per tutte, la fake news diffusa da ambienti di estrema destra secondo la quale Lucano avrebbe scambiato accoglienza per favori sessuali. “Ci sono persone che si sono fatte intimorire e che ora hanno paura di schierarsi. ‘Aspettiamo di sentire cosa dice la magistratura’ dicono. Ed invece no. Queste titubanze sono solo un preannuncio di fascistizzazione. Questo è il momento di metterci la faccia. Mimmo Lucano non è un delinquente. Lo hanno detto anche i giudici. E’ stato messo agli arresti proprio perché esercitava il dovere morale dell’accoglienza, barcamenandosi a fatica tra le strettoie di leggi che, invece di favorire chi lavora come lui, ostacolano”.

Lo stesso festival di Internazionale ha ufficialmente aderito alla manifestazione in sostegno del sindaco di Riace. Tanti i ferraresi in piazza e tra gli organizzatori dell’iniziativa figurano anche le attiviste e gli attivisti del Gad, gruppo Anti discriminazione, che qualche mese fa si sono recati in procura per denunciare il ministro Matteo Salvini per incitamento all’odio razziale, depositando una ventina di esposti individuali. L’iniziativa ha preso piede e si è diffusa anche in altre città italiane dove dei privati cittadini hanno seguito l’esempio del Gad. Da sottolineare che l’acronimo Gad, a Ferrara, indica un quartiere con una alta percentuale di migranti, continuamente messa sotto attacco da esponenti della Lega.

Nel video, Giuliana Andreatti, attivista del Gad, spiega le ragioni che hanno portato dei cittadini, per lo più senza esperienza politica, a denunciare un ministro della Repubblica ed invita tutti a seguire il loro esempio.



Agire e reagire, quindi. Sempre e comunque, hanno spiegato gli attivisti e le attiviste del presidio. Perché se le leggi sono dalla parte dei potenti e dell’arbitrio, compito della cittadinanza attiva e quello di rimanere, sempre e comunque, dalla parte della giustizia e dei diritti.

All’arrembaggio! Venezia sale in barca contro le Grandi Navi

E’ stata una grande giornata di festa e di mobilitazione per Venezia. Una giornata in cui chi abita la città e chi l’ha a cuore ha trovato l’orgoglio di salire in barca o di scendere in fondamenta per ribadire che Venezia appartiene a chi la vive e non a chi la sfrutta come un bancomat. In questo senso, le Grandi Navi non sono altro che un emblematico esempio di una economia al collasso che scarica inquinamento e devastazioni ambientali sul territorio per produrre profitto per pochi, mercificando ed umiliando la stessa democrazia di base. Perché i canali sono le strade di Venezia e i veneziani li vogliono attraversati da imbarcazioni tradizionali a remi e non da questi immensi centri commerciali galleggianti, pieni di turisti da vacanza in saldo, che guardano la città dall’alto senza comprenderne la natura, e salutano dall’alto con la mano i pochi residenti rimasti come fossero vuote comparse in una insulsa cartolina.
Ma oggi è stata anche la giornata in cui il cosiddetto “Governo del cambiamento” ha gettato la maschera rivelandosi per quello che è: un nemico dei movimenti ambientalisti. Un governo che persegue le stesse politiche del peggior Pd condendole con razzismo ed autoritarismo. Nonostante il canale della Giudecca fosse presidiato da una cinquantina di barche a remi ed a motore, le grandi navi non sono state fatte passare ugualmente – al contrario di quanto avvenne un anno fa – scortate da una flotta di imbarcazioni della polizia che hanno speronato e sparato con gli idranti contro le leggere barche a remi. Non hanno esitato a mettere in pericolo la vita dei manifestanti e neppure di rischiare un incidente navale in bacino, considerato che, in acque basse, la manovrabilità delle Grandi navi è limitata. Eccolo qua, il “cambiamento”!

“A sei anni dal decreto Clini Passera che poneva un limite al tonnellaggio delle navi entranti in laguna, non è cambiato niente – hanno detto i portavoce dei No Navi – Le navi continuano a transitare per l’area marciana. E il ministro Toninelli non sa che pesci prendere. Un giorno dice una cosa e il giorno dopo la smentisce. I loro alleati della Lega invece sanno bene da che parte stare: quella degli interessi delle multinazionali crocieristiche”.

In questo solo fine settimana, le navi che transiteranno nel canale della Giudecca sono 18. E se consideriamo che ciascuna di loro inquina come 14 mila automobili si capisce come mai, Venezia – la città per antonomasia senza auto – risulta una delle più inquinate d’Europa, proprio come se fosse costruita a ridosso di una autostrada a tre corsie!

“Per questo – hanno detto gli attivisti – rilanciamo la proposta di organizzare una grande manifestazione a Roma, come suggerito da tutti i movimenti ambientalisti con cui ci siamo riuniti ieri al Sale. Dobbiamo porre questo Governo davanti alle sue contraddizioni. Parlano di cambiamento ma è chiaro a tutti che la confusione con cui trattano il problema delle Grandi Navi a Venezia e, in generale, tutta la politica delle grandi opere, è solo un sistema per evitare di decidere e lasciare tutto come sta, consentendo a chi saccheggia i territori di continuare impunemente a farlo”.


Nel video girato da Global Project, la polizia difende il passaggio della terza Grande Nave, mettendo a repentaglio la vita dei manifestanti sul barchino, tentando uno speronamento.


Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica

Fuori, sui masegni della fondamenta, decine di palloncini colorati, bandiere al vento e le installazioni galleggianti pronte per la grande festa di domani. Dentro, la “meglio gioventù” d’Italia. Quella capace di mobilitarsi per la giustizia climatica, la tutela dei territori e la democrazia ambientale. E sono in tanti. Nella sala degli antichi magazzini dove un tempo la Repubblica Serenissima conservava il prezioso sale, si sono radunate più di 300 persone, in rappresentanza dei 56 comitati e movimenti provenienti da tutta la penisola che hanno raccolto l’appello lanciato dai No Grandi Navi.
Siamo in fondamenta delle Zattere. Proprio sulle rive del canale che unisce Venezia alla Giudecca. Proprio dove transitano le Grandi Navi. Abnormi condomini galleggianti, il cui continuo via vai inquina l’aria e devasta i fondali di una città che vive della sue laguna, anteponendo il profitto di pochi ad un bene di tutti. Una città, questa che era dei Dogi, che è emblematica per dare il giusto peso alle tematiche ambientaliste. Qui, dove l’acqua e la terra si mescolano senza barriere, complementandosi l’una con l’altra, e dove la bellezza è allo stesso tempo vita e morte, a causa di un assedio turistico oramai insostenibile. “Qui è più semplice rendersi conto che le tematiche ambientali non possono essere disgiunte da quelle del diritto di cittadinanza, e che non si può parlare di giustizia climatica senza parlare anche di democrazia” spiega aprendo l’assemblea, nel primo pomeriggio, Marco Baravalle del Sale. In questa Venezia dove, con l’imposizione del Mose, è stato sperimentato il devastante sistema delle Grandi Opere,”è davanti agli occhi di tutti che la battaglia che l’umanità sta combattendo è tra chi difende i beni comuni e chi li vuole mercificare per trarne profitto. E cosa altro è questa se non una battaglia per la democrazia?” conclude Marco.

Il microfono passa di mano in mano sino a sera. A prendere la parola sono i portavoce dell’intero arcipelago ambientalista del Paese, da Taranto alla val di Susa, dai No Tap ai No Pfas. Negli interventi di tutti, si legge la volontà di percepirsi com un unico movimento, superando lo steccato del singolo problema e della specifica lotta. Proprio come hanno fatto i No Tav valsusini. “Siamo usciti dalla nostra valle per spiegare a tutta l’Italia che questa battaglia non riguarda solo noi – spiega Francesco Richetto – E’ una battaglia di tutti perché questo sistema economico è contro l’umanità. E’ la battaglia di tutti coloro che credono in un mondo diverso, dove i soldi non servono a ricavare profitti ma a far felici le persone. Mobilitiamoci, quindi, perché se non lo facciamo noi, nessuno lo farà per noi”.

Nessuno, e tantomeno il Governo. Perché i movimenti non hanno Governi amici. Oggi come ieri. Anche il Governo penta stellato che qualche suo tifoso continua a chiamare “del cambiamento”, non ha fatto altro che continuare le precedenti politiche “sviluppiste” di una economia malata. Un tradimento? Sì, per qualcuno, come per i portavoce dei comitati tarantini o per di Stop Biocidio della Terra dei Fuochi. “Questi politici hanno attraversavano le mobilitazioni e raccolto fiducia e voti da tanti di noi, cavalcando le nostre rivendicazioni come oggi cavalcano il razzismo – commenta Raniero Madonna – ma non ci hanno messo molto a rivelarsi per questo che davvero sono. Dei nemici dei movimenti”.

Le insostenibili posizioni di chi, a parole, tuonava contro il Mose o le Grandi Navi e, una volta al potere, ha cambiato radicalmente idea e governa con quella stessa Lega che ha sconquassato l’intero Paese con le Grandi Opere, sono, per Tommaso Cacciari, del Laboratorio Morion, una contraddizione da cogliere senza indugio, organizzando una manifestazione a Roma. “Al di là delle cupe narrazioni di razzismo che ottengono tutta l’attenzione dei media, c’è un’Italia straordinaria. Ci sono decine di migliaia di persone come noi, capaci di organizzarsi nei territori e di lottare per la democrazia ambientale. Prepariamoci a dare vita ad una grande mobilitazione. Se non lo facciamo noi, chi lo farà?”

Appello subito rilanciato da Margherita da Lonigo, portavoce delle Mamme No Pfas. “Ci siamo svegliate una mattina ed abbiamo scoperto che nel sangue dei nostri figli c’è una percentuale di Pfas superiore di dieci volte la soglia di pericolo. Abbiamo denunciato una fabbrica che ha inquinato irrimediabilmente la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Oggi la fabbrica è ancora là e continua ad inquinare e ad avvelenare i miei figli. Quando ci pensiamo, ci sale in corpo una rabbia che non ci serve nessun ulteriore incentivo per mobilitarci. E state tranquilli che non ci fermeremo mai!”

Ogm nei nostri supermercati? Pochi ma presenti

Ogm negli scaffali dei nostri supermercati? Sì. Ce ne sono. Basta fare un po' di attenzione e leggere le etichette. Io stesso, nel market sotto casa, ho trovato una farina precotta a marchio Pan e proveniente dagli Usa con la scritta - in piccolo e tra parentesi, ma comunque visibile - "Prodotta con mais geneticamente modificato". 
Come è possibile? In Italia è vietata la coltivazione di piante geneticamente modificata, ma non è vietata la loro importazione, sia pure limitatamente a prodotti destinati all'alimentazione animale, e previa una autorizzazione del prodotto a livello europeo. Ma la normativa europea è molto meno rigida di quella italiana. E con i regolamenti 1829 e 1830 del 2003 consente la commercializzazione di certi prodotti Ogm, purché la loro presenza sia indicata nella confezione.
Si capisce quindi, come possa capitare che un prodotto geneticamente modificato in vendita oltre frontiera, finisca per "cascare" nello scaffale di un supermercato nostrano.


Dal 2006, l’Istituto superiore di sanità in collaborazione con il Centro di referenza nazionale per la ricerca di Ogm predispone un piano nazionale di controllo sulla presenza di questi organismi nei cibi che finiscono nelle nostre tavole. L'ultimo rilevamento ha confermato il trend decrescente di Ogm nei prodotti commercializzati al dettaglio, a testimonianza, recita la nota ministeriale, della "consapevolezza crescente degli operatori del settore alimentare, che pongono particolare attenzione lungo tutta la filiera alimentare". Solo il 4% dei campioni prelevati conteneva trance sensibili di Ogm. E questi campioni provenivano da prodotti di importazione. In primis, prodotti a base di riso dalla Cina. "In Italia - conclude lo relazione dell'istituto superiore di sanità - la presenza di Ogm, autorizzati e non, negli alimenti continua ad essere decisamente limitata ed a concentrazioni estremamente basse" e "si può concludere che per i prodotti alimentari, sul mercato italiano, permane il rispetto dei requisiti d’etichettatura previsti dalla normativa vigente, assicurando in tal modo l’informazione al consumatore".
Questo non risolve comunque il problema della presenza di alimenti transgenici nel nostro Paese che non può certo definirsi "Ogm free" anche solo considerando che la gran parte dei mangimi a base di soia utilizzati nei nostri allevamenti - fatti salvi quelli certificati biologici - provengono da Stati Uniti e Canada dove l'uso di Ogm è legale e ampiamente utilizzato. E considerato che l'Italia produce solo l'8 per cento della soia di cui fa uso e che all'estero quasi tutta la soia è oramai transgenica, un rigido divieto in questo senso getterebbe nel panico tutti gli allevamenti del Paese che non saprebbero più dove rifornirsi.

In questo senso, gli Ogm sono emblematico esempio di una globalizzazione che ha instaurato in tutto il pianeta una dittatura economica capace di superare qualsiasi frontiera geografica e bypassare qualsiasi politica nazionale. La risposta o sarà globale o non sarà.

Quel pasticciaccio brutto assai del glifosato Monsanto

Duecento e ottantanove milioni di dollari di risarcimento. È costata cara alla Monsanto la sentenza del tribunale di San Francisco che ha sposato la tesi del giardiniere 46enne Dewayne Johnson, secondo cui la multinazionale non lo avrebbe informato correttamente sui rischi inerenti all’uso del glifosato. La Monsanto, come era prevedibile, ha già annunciato ricorso, ma la sentenza emessa questa estate, precisamente l’11 di agosto, rischia di spalancare le porte di penali miliardarie a tutte le altre cause di risarcimento per i danni causati dal glifosato. Ne sono in corso, nei soli Stati Uniti, quasi 5 mila. E questo è probabilmente uno dei motivi per i quali la Monsanto, sempre questa estate, è stata acquisita della Bayer per la cifra di “soli” 63 miliardi di dollari. La casa farmaceutica tedesca ha già deciso di cambiare il nome dell’azienda, oramai “sporcato” dalla cattiva fama che la multinazionale leader nella produzioni di ogm, si è ritagliata nella sua storia. E non solo per colpa del glifosato. La decisione dei giudici di San Francisco rimane comunque storica. Per la prima volta una corte di giustizia ha affermato che “il glifosato provoca il cancro”. Ma vediamo di approfondire la questione che, come sempre quando si tira in ballo scienza, giurisprudenze e, non ultimi gli enormi interessi economici che ci sono sotto, non può essere ridotta a bianchi e neri.
Innanzitutto, cosa è il glifosato? Si tratta di un potente diserbante non selettivo che viene assorbito dalla pianta tramite le foglie portandola velocemente al dissecamento. Diffusosi rapidamente a partire dagli anni ’70 in tutti i Paesi del mondo, sostituì rapidamente gli altri erbicidi in uso all’epoca in quanto questa sostanza si rivelava meno tossica per l’uomo ed inoltre, essendo facilmente degradabile, difficilmente arrivava ad inquinare le falde acquifere. Oggi è di gran lunga il diserbante più usato in tutto il mondo, sia nell’agricoltura che nel giardinaggio. In media, e considerando solo il peso del principio attivo, ogni ettaro coltivato ne consuma mezzo chilo all’anno. Nei soli Stati Uniti, con lo sviluppo delle coltivazioni transgeniche, strettamente collegato a questo diserbante, come vedremo più avanti, l’uso del glifosato è passato da 400 tonnellate nel 1974 alle 113 mila nel 2014.

Ovviamente, il fatto che negli anni ’70 si usavano diserbanti ancora più pericolosi ed inquinanti, non significa che il glifosato non comporti dei rischi comunque inaccettabili per la nostra salute. Ed infatti, la questione se questa sostanza causasse il cancro o meno, è stata subito sollevata da alcuni esperti. Le principali agenzie di regolamentazione si sono date battaglia difendendo tesi del tutto opposte sulla tossicità del pesticida in questione. Ma per ottenere un autorevole parere sulla pericolosità di questa sostanza, bisognò attendere il 2015 quando l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) dimostrò che tutti i precedenti lavori che assolvevano il glifosato era basati su dati forniti dalla Monsanto! Altre agenzie come l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e la Fao (Food and Agriculture Organization) successivamente difesero il glifosato dichiarando come “improbabile” una sua correlazione col cancro. Altre ancora, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dichiarato salomonicamente che il glifosato “non presenta potenziale genotossico” ma che comunque la sua “tossicità a lungo termine, la cancerogenicità, la tossicità riproduttiva e il potenziale di interferenza endocrina delle formulazioni devono essere chiariti”. Ancora la Iarc ha classificato questo diserbante nel gruppo 2A dei potenziali cancerogeni. Per dire, in compagnia delle carni rosse e delle emissioni delle fritture, mentre nel gruppo 1, più pericoloso, ci stanno le sigarette, le emissioni di raggi Uv e l’amianto.

Va considerato però che tutto questo bailamme riguarda solo il principio attivo del glifosato e non il prodotto in commercio e comunemente adoperato da agricoltori e giardinieri. Il brevetto esclusivo è scaduto nel 2001 ed ora sono molte le aziende che vendono glifosato, oltre alla Monsanto. Tutti questi prodotti, che fanno a gara l’un con l’altro per garantire un effetto ancora più efficace, si sono rivelati molto più tossici per la salute ed anche più inquinanti per l’ambiente, riuscendo, ad esempio, a raggiungere le falde acquifere come il principio attivo da solo non riesce a fare. Esemplare il caso di Pistoia, dove l’uso massiccio di questi prodotti sui vivai ha causato una percentuale di pesticidi nell’acqua superiore quasi al 30 per cento del consentito.

La guerra - ed uso questo termine a proposito! - che si è scatenata sopra il glifosato ha assunto aspetti che vanno ben oltre la corretta disputa scientifica. Monsanto, in più occasioni, ha messo in atto manipolazioni vergognose per screditare e colpire gli scienziati che denunciavano la pericolosità del suo prodotto, tacendo su studi di criticità che lei stessa aveva commissionato. E il tenace avvocato del giardiniere Dewayne Johnson, ha potuto così dichiarare che “la Monsanto ha combattuto la scienza”. E quando non l’ha combattuta, come rivelano le intercettazioni pubblicate nell’inchiesta Monsanto Papers, l’ha inquinata, pagando con vagonate di dollari dei prestanome perché pubblicassero come propri, studi fasulli preparati in realtà dalla stessa azienda su dati inventati di sana pianta. Un clima talmente scorretto in cui rimane difficile attenersi ai fatti o agli studi scientifici ma che si è rivelato un fertile terreno solo le teorie complottistiche. A tirare colpi bassi, infatti, si sono fatte avanti anche aziende che commerciano in prodotti per l’agricoltura alternativi al glisolfato che hanno finanziato altri studi, se non fasulli quantomeno pilotati, in cui si dimostrava la tossicità del diserbante targato Monsanto!
Una vera guerra senza esclusione di colpi in cui la prima vera vittima è stata la scienza. 

Ma, anche nel caso del glifosato, rimane comunque la difficile questione di tradurre in una sentenza o in una legge quello che uno studio scientifico definisce “probabile” pericolosità. La domanda è: fino a che punto vogliamo rischiare con la nostra salute? Negli Usa, una sostanza può essere commerciata liberamente sino a che non se ne dimostra la pericolosità. In Italia, vale il - sacrosanto! - principio di precauzione: fino a che non si dimostra che un prodotto non fa male alla salute, non può essere commercializzato. Ed infatti, proprio in ottemperanza a questo principio, l’uso del glifosato è tutt’ora vietato nei parchi, nei giardini delle scuole e degli ospedali ed anche nel verde urbano grazie ad un decreto cautelativo del ministero della salute entrato in vigore il 22 agosto 2016. Questo è il motivo per il quale città che ne facevano un ampio uso, come Bolzano - per citare un caso che ho verificato personalmente - che vantavano viali fioriti ed una cura impeccabile dell’arredo urbano, si sono trovate di punto in bianco coperte di erbacce! I giardinieri si son attrezzati con roncole e falci e han fatto quello che potevano, ma l’organico non era sufficiente per fare a meno di un, comodo ma potenzialmente pericoloso, alleato come l’usatissimo glifosato.

Di diverso avviso l’Europa. Nel novembre 2017 i delegati dell’Unione hanno votato a favore del rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione all’uso del diserbante incriminato. E ora che la Monsanto è diventata di proprietà della tedeschissima azienda Bayer, la vediamo difficile che si faccia retromarcia!

Ma oltre alla solita questione sulla difficoltà di sposare scienza - che per sua natura ragiona solo in termini probabilistici - e giurisprudenza - che deve esprimere pareri certi -, la questione glifosato investe una serie di pesantissimi interessi di natura squisitamente economica e politica.
Il glifosato è una porta aperta per gli organismi geneticamente modificati. Nelle coltivazioni transgeniche infatti, è stata introdotta una definitiva resistenza al questo diserbante. Come dire che, sparando questo prodotto sopra un campo Ogm, bruci tutto tranne le piante ogm. Ammettiamolo: una bella comodità! Non è un caso che la coalizione Stop Glifosate abbia fatto della sua lotta a questo diserbante un simbolo della lotta agli ogm ed all’agricoltura industriale. Proprio la Monsanto prima, e la Bayer dopo, hanno fatto di questo abbinamento - ogm e glisolfato - il punto di forza della loro campagna per l’agricoltura transgenica.

Considerata la crisi in cui versa l’agricoltura convenzionale, sempre meno sostenuta finanziariamente dalla Comunità Europea, le strade sul futuro che si aprono sono solo due: il transgenico o la sua rivale per eccellenza, l’agricoltura biologica. Ed è per questo che bisogna dire stop al glifosato. Non solo in virtù del principio di precauzione. Il fallimento del modello di produzione agricola industriale, che oramai si sostiene solo grazie ai piani di Sviluppo Rurale, deve spingerci a cercare una nuova strada. Una strada che porta alla sostenibilità ambientale ed ai bassi consumi energetici, basata sulla tipicità del prodotto con filiera a chilometri zero. Una strada che ci allontana dal baratro in cui vorrebbero farci precipitare le multinazionali che spingono verso la facile soluzione del transgenico, della coltura intensiva, del consumo privatizzato dell’acqua e delle risorse, per una agricoltura nemica dell’uomo, nemica della terra.

Spoiler Protection 2,0: l'app che fa sparire il ministro "Ruspa" dalla tua pagina social e ti salvaguardia il fegato

Anche voi non ne potete più di aprire la vostra pagina social e di vedervi sparare in faccia le ultime razzistate del nostro poco amabile ministro degli Interni? Sì, d'accordo. I commenti che leggete sotto, quelli dei vostri "amici" di Facebook - altrimenti non sarebbero vostri amici di Facebook - sono tutt'altro che favorevoli a Mister Ruspa, Matteo Salvini. C'è chi si indigna, chi ne sfotte l'ignoranza, chi sottolinea la deragliata fascista in cui sta spingendo il Paese, chi posta "not in my name" per ricordargli che gli italiani non sono tutti con lui. C'è anche chi lo denuncia, chi organizza presidi, chi scende per strada e chi sale in barca. Come oggi, a Venezia, dove un gruppo di ragazze e ragazze ha occupato il pontile della Regione Veneto. Tutte ottime iniziative di resistenza civile, per carità! Fatto sta che la bacheca di chi, come me, segue più la politica che il gossip o il calcio, straripa di immagini, notizie e segnalazioni che riguardano tutte lui: il signor Ruspa. Tanto per fare un esempio, ho appena aperto la mia pagina social e, solo nei primi dieci post, quattro mi piazzavano in bella mostra, e senza avviso "solo per stomaci forti" il faccione del nostro vice (?) premier che, per dirla soft, non mi ispira particolari moti di simpatia. Che vi devo dire, allora? Non so voi, ma io non lo reggo più e sto cominciando a rimpiangere quei bei post di una volta pieni di gattini che ruzzolavano su un gomitolo di lana!

Anche perché, il personaggio in questione usa i social proprio come un battaglione di carri armati in una guerra mondiale e ci bombarda come neanche fossimo una Guernica sotto l'aviazione nazifascista. Pur di non fare il ministro dell'Interno, che gli toccherebbe affrontare temi da niente, tipo la mafia, la violenza sulle donne, il razzismo dilagante o la collusione tra il capitalismo e le Grandi Opere, il nostro Matteo spara come una mitragliatrice su cose che non esistono ma che, proprio grazie ai social, ci fa credere che esistano. Lui dice che siamo invasi da milioni di clandestini che delinquono, ad esempio, che c'è in atto una sostituzione etnica e che vogliono imporci l'islamismo, compreso l'uso dei numeri arabi nelle scuole. Anzi, nelle "squole", scritto alla leghista. Che poi non sia vero niente, non conta un benamato piffero. Siamo nell'era della "percezione del rischio" dove ci si laurea in ingegneria con due tweet, con tre post su Fb sai tutto sui vaccini e quello che dice la scienza vale meno di quello che racconta la madonna alle veggenti di Medjugorie. Perché la scienza se la sfangano in pochi, mentre Medjugorie è sempre piena di fedeli, e la democrazia maggioritaria conterà pure qualcosa, o no? Qualcuno l'ha chiamata l'era della post verità, e il nostro ministro ci sguazza come un sorcio in una fogna.
Ma come possiamo fare allora, per tornare a vedere romantici gattini e non sorci sparaballe nella nostra pagina Facebook? Il rimedio è semplice. Magari non risolutivo del problema in sé, perché non ci spedisce il ministro a far la pacchia in un lager libico, ma comunque efficace per farci stare un po' tranquilli e farci aprire Fb senza che ci si chiuda le stomaco.

Il rimedio si chiama Spoiler Protection 2.0 e lo si scarica facilmente dalla rete. Una volta lanciato, basta inserire la parola chiave "Salvini" come termine da evitare come la peste nera durante la navigazione, ed il gioco è fatto. Non vedremo mai più il suo faccione incarognito che sbraita contro zingari, clandestini, froci, ebrei, comunisti e quei violenti dei centri sociali nelle nostre pagine.

L'idea è stata lanciata dal giovane scrittore trentino Mattia Zadra che invita tutti ad "eclissare" - questo è il termine da lui romanticamente scelto - il ministro Ruspa e le sue sparate usando questo filtro per il browser. "Grazie a questo tool sono riuscito a eclissare tutti i post che contenevano il suo nome sul mio newsfeed di Facebook e Twitter - ha spiegato Mattia -. Al ministro interessa solo fare rumore e, paradossalmente, anche chi inveisce contro di lui finisce col fare il suo gioco ed alimenta una guerra fatta di commenti saturi di odio, ignoranza e disinformazione che va tutta a suo vantaggio".

Spoiler Protection 2.0 è un programma nato con scopi assai più nobili che oscurare il Salvini. Lo usano gli appassionati delle serie Tv per evitare di leggere nella propria bacheca, prima dell'uscita dell'attesissima puntata, se Daenerys Targaryen siederà sul Trono di Spade o se sarà uccisa dalla malvagia Cersei Lannister. Insomma, l'app è stata studiata per bannare, per l'appunto, gli spoiler cinematografici. Ma Mattia ci assicura che è efficace anche per bannare il Salvini: "Appena l'ho attivato, mezza bacheca di Facebook mi è scomparsa! I post che parlavano del ministro sono stati coperti da un velo rosso. Non è mia intenzione, naturalmente, barricarmi in una beata ignoranza. Ma l'informazione vera, per me, passa dai giornali e non dai social. Ora, finalmente, posso tornare a usare Fb e Twitter come facevo un tempo senza rovinarmi la salute".


Secondo Mattia Zadra questa scelta, oltre che salvaguardare il nostro povero fegato, contribuirebbe a contrastare una politica che oramai è fatta solo di insulti. E sul fegato possiamo anche essere d'accordo. Sul secondo punto, qualche perplessità ce l'abbiamo. I social non sono pensati per discussioni approfondite e tanto meno per un confronto sereno e democratico. Inoltre, si stanno "stagnandizzando" sempre di più. Ognuno, nella propria bacheca, segue e commenta solo chi la pensa come lui e vi trova conforto e avallo delle proprie opinioni, anche se crede che la terra sia piatta. Su Twitter e su Facebook, soprattutto, viviamo ognuno dentro la propria tribù, abbia essa come feticcio post di gattini arruffati, di campioni di calcio o di draghi abbattitori di imperi. Chi ama il Ruspa continuerà a santificare tutto quello che gli esce di bocca come se fosse il sangue di san Gennaro, anche se tutte le nostre bacheche si tingessero di rosso. Mattia ritiene che, senza una risposta che faccia da eco, i toni esacerbati senza i quali il Ruspa non saprebbe condire nessun discorso, perderebbero efficacia. Un po' come i musulmani di Bosnia che, prima della guerra dei Balcani, rispondevano pacatamente alle provocazioni dei nazionalisti serbi con un "bisogna essere in due per litigare". Poi è andata come è andata.


Magari sbaglio io ma, sino a che il fegato mi tiene, non userò Spoiler Protection nel mio brownser, pure se continuerò ad evitare di rispondere con insulti agli insulti, ed anche di confrontarmi democraticamente con persone che "democrazia" non sanno neppure come si scrive. Ripensandoci però, l'idea di Mattia però, non era affatto male. Adesso corro a vedere se c'è un app che faccia sparire il Ruspa. Ma dalla faccia della terra, però!

Storie dentro e oltre i muri

«Coltivavo patate e ora coltivo migranti. E' molto più remunerativo». Perché questo sono i profughi: una merce. Una merce come tante altre. Raffaello Rossini, documentarista e regista, tra le altre cose, del documentario dal significativo titolo La merce siamo noi, ricorda così le testimonianze dei contadini della valle della Bekaa, a una trentina di chilometri da Beirut, che affittano i loro terreni alle famiglie siriane che fuggono dalla guerra. 
«La valle è coperta di tendopoli dove i profughi siriani, nell'indifferenza più completa del governo libanese, si sforzano di tenere una vita il più possibile normale. Pagano affitti altissimi sia per la terra che occupano che per le tende e i materiali che utilizzano. Sono anche una forza lavoro non indifferente perché, per non essere sfrattati, finiscono per lavorare a bassissimo costo nei campi che circondano le loro tendopoli. Nessuno può dire quanti sono perché il governo libanese ha vietato altri censimento da parte dell'Unhcr, dopo aver raggiunto la cifra di un milione e mezzo di rifugiati, un paio di anni fa. Nessuno dà loro nulla, né assistenza sanitaria, né scuole. E' gente che non esiste. Gente che non altro futuro se non non quello di morire in silenzio, coltivando il sogno, sempre più impossibile, di ritornare un giorno nella loro terra distrutta».

Raffaello Rossini ha portato la sua testimonianza all'incontro di Sherwood Open Minds, svoltosi giovedì 21 giugno aSherwood Festival. Il tema dell'incontro era "Storie dentro e oltre i muri. Sui sentieri dei migranti verso l'Europa e gli Stati Uniti". Un titolo che ben riassume il percorso che movimenti e associazioni hanno intrapreso qualche anno fa, con le prime carovane in Ungheria. Un lungo viaggio che è stato chiamato OverTheFortress, oltre la fortezza. Un lungo viaggio ancora tutto da concludere che ha l'obiettivo di raccogliere storie e costruire narrazioni migranti, per non rassegnarsi ai linguaggi dell'odio e della disinformazione oggi imperanti, per costruire campagne e iniziative di sostegno, e per "mettere benzina" nei motori di tutti i movimenti che, in Italia come all'estero, continuano a lottare per i diritti umani, contro un capitalismo che, ogni giorno che passa, somiglia sempre di più a una rapina a mano armata. 
Al dibattito, coordinato da chi scrive, è intervenuta Marta Peradotto, portavoce di Carovane Migranti, che ha raccontato degli incontri in Tunisia, in occasione della quarta carovana per i diritti dei migranti, con le madri e dei padri degli scomparsi in mare. «Impossibile non tracciare un parallelo tra i migranti dispersi nel Mediterraneo con i migranti che scompaiono, o meglio, che sono fatti scomparire, nella frontiera tra Usa e Messico. Abbiamo assistito a vari incontri tra le madri centroamericane e quelle tunisine. Tutte hanno ribadito che è venuto il momento di passare dalla lacrime alla lotta, perché non accada ai figli di altre madri quello che è successo ai loro figli». 
A chiudere l'incontro, Matteo De Checchi del collettivo Mamadou che costruisce spazi comuni in una zona di vera frontiera con la legalità come Rosarno. Matteo ha parlato del muro invisibile che abbiamo a casa nostra. Quel muro che vorrebbe impedirci e, soprattutto, di farci indignare per lo sfruttamento cui sono sottoposti i migrati, schiavizzati come braccianti a pochi ero l'ora. «Una responsabilità che non può essere limitata ai padroni dei campi o al caporalato, ma che si interseca anche con la grande distribuzione e coinvolge direttamente le amministrazioni e la politica». Quella stessa politica che preferisce nutrirsi di insulti e di richiami a emergenze che non ci sono, per distrarre l'opinione pubblica su questioni assai più pericolose come le infiltrazioni mafiose nei Comuni e nelle amministrazioni regionali. Quella stessa politica che ha fatto dei migranti una merce e che ha innalzato quei muri che non saranno né un freno né una soluzione, quanto piuttosto una concausa del problema.

Chi inquina l’acqua, uccide l’umanità. Nella giornata dei Crimini Ambientali, i cittadini avvelenati dai Pfas circondano la Miteni

Tante strade quelle che, nella giornata di ieri, hanno portato a Trissino movimenti, associazioni, spazi sociali, gruppi ambientalisti, cittadini stanchi di farsi avvelenare in silenzio. Tante strade che procedono verso una unica direzione e con un unico obiettivo: difendere la terra e l’ambiente in cui viviamo perché noi stessi siamo l’ambiente in cui viviamo. E se si ammala la terra, si ammala l’umanità.
Ieri, domenica 22 aprile, a Trissino, si è svolta la Giornata Contro i Crimini Ambientali. E quale piazza poteva essere migliore che lo spazio davanti la Miteni, la fabbrica della morte che per anni, nel silenzio complice di chi doveva controllare e non ha controllato, ha avvelenato le falde acquifere di mezzo Veneto?
All’appuntamento di lotta e di informazione, si sono presentati in tanti. Tra i duemila e i duemila cinquecento, secondo gli organizzatori. Non soltanto associazioni o i cittadini che per primi hanno denunciato la presenza di Pfas – i pericolosi composti perfluoroalchilici – nell’acqua che esce dal rubinetto di casa, ma anche movimenti ambientalisti dal respiro più ampio come GreenPeace, Legambiente, nominati Acqua Bene Comune, Medici per l’Ambiente, No Navi, reti Gas, associazioni contro la Tav e la Pedemontana, Salviamo la Val d’Astico, le guerriere ed i guerrieri delle Climate Defense Units con le loro maschere di Angry Animals, animali arrabbiati, e tante altre realtà ancora. Tutte accanto alle Mamme No Pfas che per prime hanno preso la parola nel palco antistante la Miteni, difesa, ancora una volta, da un cordone di polizia.
«Abbiamo cresciuto i nostri bambini mettendoci tutto il nostro impegno perché fossero sani, li abbiamo difesi dalle malattie ma non abbiamo pensato a difenderli dall’acqua che bevevano, Ma come potevamo noi pensare che proprio l’acqua che è vita, fosse pericolosa? Ora nel loro segue ci sono percentuali di Pfas da 10 a 40 volte superiori ai valori accettabili».
«Noi siamo gli animali arrabbiati – spiega un portavoce dei Climate Defense -,  simbolo della rivolta di una natura di cui facciamo parte indissolubilmente, la Mitemi è solo una delle tante opere che devastano i territori. Il Veneto, in particolare, è la nuova Terra dei Fuochi tra Pedemontana e Val d’Astico. Un biocidio cui diciamo: Basta! Oggi siamo di fronte ad un movimento di ribellione che, pur nella sua diversità, si è posto obiettivi comuni contro le lobby dell’affarismo che stanno trasformando terra, acqua, paesaggio, ambiente, salute e la nostra stessa vita in merce. Costruiamo tutti assieme un nuovo immaginario che metta al centro la nostra salute e la salute dell’ambiente contro chi vuole ricavare profitto dalle malattie».
Tante le realtà che prendono la parola sul palco, intervallate dalla musica della chitarra che intona la canzone “No Pfas”. Tante realtà di movimento e pochi rappresentanti delle amministrazioni. Gli unici Comuni rappresentati con la fascia tricolore erano quelli di Lonigo e di Legnago.
Su palco sale Marzia, vestita da ape che invita tutti i cittadini ad essere operosi e attivi come le api. E magari anche  pungere, quando necessario. Legambiente ricorda gli operai della Miteni, nel cui sangue sono presenti le percentuali più alte di Pfas. «Abbiamo chiesto il disastro ambientale e qualcosa si sta muovendo anche nelle istituzioni, ma fino a che la fabbrica e tutta l’area non sarà bonificata, non se ne esce».
Chiusura immediata della fonte di inquinamento sotto il principio di “chi inquina paga”, è quanto chiedono anche le Mamme No Pfas di Arzignano. «Accertiamo le responsabilità di chi ha inquinato ma anche di chi ha taciuto. Vogliamo inoltre l’adozione del principio di precauzione anche nelle nostre scuole. Ai bambini oggi non può essere data da bere l’acqua del rubinetto».
Luca di Acqua Bene Comune plaude al nuovo modo di far politica delle Mamme No Pfas e si augura che ne prendano esempio anche i politici di mestiere. Claudia porta la voce del recente convegno di Medicina Democratica: «Inquinare le acque è un crimine ambientale. Non facciamoci ingannare da false promesse. C’è una sola soluzione: chiudere le fabbriche inquinanti».
Una mostra di oltre 150 metri di fotografie e di pannelli scientifici fa da cornice agli stand con materiale informativo messi in campo dalle associazioni. L’aria che si respira è quella della grande festa ambientalista. Sul palco, l’ultimo intervento è di Claudio Lupo di Medici per l’Ambiente. «L’inquinamento delle falde non è solo una problematica idrogeologica. Noi esseri umani siamo acqua. Chi uccide l’acqua, uccide noi».
La giornata si chiude con musica e festa ma prima c’è l’azione contro la Miteni. La fabbrica viene circondata dalle attiviste e dagli attivisti che formano una grande catena umana seguendo gli Angry Animals che guidano il corteo illuminando la Miteni con grandi fumogeni colorati. É la chiusura simbolica di un impianto che produce morte da parte di una umanità che vuole continuare a vivere.

Bloody Money. Il valore sociale dell'inchiesta che attacca l'«oscura terra di mezzo»

Con una inchiesta giornalistica sono riusciti a fare quello nessuno è riuscito a fare prima. Portare in piena luce un sistema, tanto nascosto quanto consolidato di intrecci tra mafia e Stato, tra imprenditoria e politica che sta alla base delle cosiddette ecomafie. Un sistema corrotto e corruttore che troviamo alla base tanto della gestione dei rifiuti quanto delle grandi opere come il Mose o le bonifiche. Una " oscura terra di mezzo" come l'hanno definita loro, dove l'ambiente e la salute sono merci da vendere e comprare. Stiamo parlando dei reporter del giornale on line FanPage e della loro inchiesta in sette puntate Bloody Money, denaro insanguinato. Partiti dalla Campania e dalle speculazioni assassine perpetrate nella Terra dei Fuochi, i giornalisti di FanPage, nella quarta puntata, l'ultima pubblicata, sono arrivati nel Veneto, e precisamente a Porto Marghera. Ed è proprio qui, al cso Rivolta che, venerdì 9 marzo, incontriamo Antonio Musella, giornalista di FanPage e uno degli autori dell'inchiesta, in occasione di una iniziativa pubblica alla quale ha partecipato anche un altro personaggio che da sempre si è speso nelle denunce e nella lotta al malaffare che, oggi come ieri, ruota attorno alle bonifiche e alla salvaguardia della laguna, Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità


Come è nata questa inchiesta?

Antonio Musella - Tutto parte da una collaborazione che Fan Page ha avviato con il pentito Nunzio Carrella, un boss della camorra che potremmo definire come l'inventore delle ecomafie. Lo stesso ex procuratore antimafia Franco Roberti lo ha utilizzato per fare luce su tante inchieste. Noi ci siamo letti le carte procedurali e abbiamo deciso di dare fiducia a questo pentito. La prova che non fosse un millantatore ce l'ha data lui stesso quando ci ha portato in un campo vicino a Ferrara raccontandoci che in quel luogo era stato smaltito illegalmente una grossa quantità di amianto. Noi abbiamo preso le pale e abbiamo scavato sino a trovare i rifiuti tossici. Abbiamo avuto la prova quindi, che Carrella diceva la verità e gli abbiamo posto questa domanda: cosa farebbe oggi se volesse tornare in attività? Lo abbiamo quindi seguito per tutta Italia con una telecamera nascosta mentre riprendeva contatto con i suoi vecchi intermediari con una facilità che ci ha lasciato allibiti. Si è fatto avanti di tutto: eserciti di faccendieri, politici corrotti, mafiosi, imprenditori interessati solo al guadagno, burocrati venduti.


Come rispondete alle critiche che sono state sollevate sul vostro modus operandi?


Antonio Musella - Ci hanno accusato di usare metodi non consoni come l'agente provocatore. Ci hanno detto di aver ostacolato le indagini. Ma noi facciamo i giornalisti e non i magistrati. Abbiamo sempre correttamente avvisato la Procura dei nostri movimenti. Noi di Fan Page siamo convinti che il lavoro sociale che abbiamo costruito e i risultati che abbiamo raggiunto siano più importanti di queste critiche. Siamo stati i primi a rimanere sconvolti dai dialoghi che abbiamo registrato, da meccanismi di corruzione così palesi e dal cinismo con cui intere aree venivano avvelenate solo per lucro. Ci hanno anche accusato di aver fatto uscire tutto sotto elezioni, a scopo spiccatamente propagandistico. Non è vero. Abbiamo pubblicato l'inchiesta solo perché erano saltate le coperture e fare uscire tutto alla luce era la nostra unica difesa. 


Bloody Money parte dalla Campania, dalla Terra dei Fuochi, per approdare nel Veneto, alle bonifiche di Porto Marghera. Dove è peggio?


Antonio Musella - Subito dopo aver messo in scena il finto ritorno in attività del Carrella, il telefono che abbiamo usato come riferimento è diventato bollente. La chiamate arrivavano da tutta Italia. Campania e Veneto facevano la parte del leone. Ma ti direi che è l'Italia intera che è messa male. L'ambiente e la sua tutela sono temi semplicemente estromessi dall'agenda politica. Ne avete mai sentito parlare in queste ultime elezioni? Qui siamo a Venezia. Lo scandalo Mose ha fatto la storia della città ma ancora l'opera prosegue. Le bonifiche di Porto Marghera sono un altro scandalo a cielo aperto. Il problema è che c'è una oscura terra di mezzo, tra mafia, imprenditoria, politica e apparati dello Stato, dove la sola cosa che conta è fare business. Non importa come. Non importa se avveleni l'ambiente. Contano solo i soldi che si ricavano e conta ricavarli in fretta. 


Gianfranco Bettin - Lo smaltimento dei rifiuti è stata il principio di tutte le ecomafie. E' sbagliato pensare che questa storia che parta dal sud Italia. Al contrario, la storia nasce proprio qua, a casa nostra. Il primo smaltimento illegale è quello che le mafie hanno portato a termine a San Giuliano. Ricordo un intervista proprio al Carrella in cui un giornalista gli chiede se sono venuti a nord per mettere a sistema la procedura e lui gli risponde: "No. Noi siamo venuti ad imparare". Il cinismo con il quale l'inquinamento viene trasformato in un affare lucroso, e chi se ne frega se poi la gente ci muore, è stato inventato a casa nostra. Nel sud, casomai, ha incontrato la criminalità organizzata e ne è nato un matrimonio proficuo per entrambi. Direi che, più che le stragi, dove le responsabilità sono oramai chiare, il nido di serpenti che avvelena l'Italia, tra burocrati di ministeri, politici, imprenditori, massonerie e mafiosi, oggi sta tutto qua. Un cuore di tenebra che non è ancora stato esplorato. 


Una intermediaria di cui raccontate nella vostra inchiesta, Maria Grazia Canuto, afferma che a Venezia, con questa amministrazione, oggi il terreno è favorevole. Cosa ne pensate?


Gianfranco Bettin - Il primo segnale che ha dato l'attuale amministrazione, cioè cancellare il parco della laguna che avrebbe avuto il compito di vigilare su questo tema e tutelare l'ambiente e la salute, non depone certo a favore della trasparenza. Ma credo anche che sia ingenuo pensare che un sindaco possa impedire questa deriva. Gli scandali legati alle grandi opere ci insegnano proprio questo. Pensiamo alle bonifiche di Porto Marghera. Il denaro ottenuto sulla pelle di un territorio che ha pagato un prezzo terrificante in termini di inquinamento e di vite umane, e che doveva servire per la messa in sicurezza dello stesso territorio, è stato drenato verso un'opera devastante per l'ambiente come il Mose. Tutto ciò, senza che gli enti locali potessero intervenire. Anche per questo ol nostro Paese è messo male. Sono caduti i presidi locali e anche una amministrazione attenta, cosa che questa non è, non sarebbe una garanzia. Venezia? Al suo confronto, la Chicago di Al Capone è Disneyland. Tutte le attività più importanti economicamente sono in mano ad organizzazioni criminali: la salvaguardia, il Mose ed anche il turismo. Vedi la presenza di Cosa Nostra al Tronchetto. 


Antonio Mugella - Il rapporto tra ambiente e attività produttive, in Italia, è sempre stato predatorio. E' questa la storia della nostra imprenditoria e non si scappa. E questo vale anche per le aziende, tipo la Montedison, a partecipazione statale. Ho un terreno vuoto? Allora lo devo far fruttare al massimo. E se per farlo devo passare attraverso un faccendiere legato alla mafia, pazienza. E se poi quel terreno avvelenerà migliaia di persone innocenti, non sono fatto miei. Sono anche d'accordo con Gianfranco che la possibilità degli enti locali di opporsi e di contrastare questo malaffare che inquina oltre all'ambiente anche la stessa politica, sono scarsissime. C'è stato un furto sistematico di competenza proprio per aprire la strada a questa sorta di industria dell'inquinamento così remunerativa economicamente. Come difendersi allora? L'antidoto migliore resta sempre la mobilitazione dal basso. Così come avete fatto per lo stoccaggio di rifiuti industriali che avrebbe trasformato Marghera nella pattumiera più inquinata ed inquinante d'Italia.

L'Italia sotto la neve. E sotto la neve, le Grandi Opere

La prima domanda da che viene in mente a chi ascolta un Tg o legge un giornale in questi giorni, è come sia possibile che basti una nevicata un po' più consistente del solito per mettere in ginocchio l'intero Paese. Non è neppure il caso di scomodate i Cambiamenti Climatici. Tanto per citare un argomento che, in quest'ultima campagna elettorale, tutti sembrano aver dimenticato pur se dovrebbe essere centrale nel programma di governo di ciascuna formazione politica. Ma queste ultime nevicate con i Cambiamenti Climatici hanno poco a che fare! Ci spiegano, i meteorologi, che ogni 5 o 6 anni, statisticamente, si abbatte sull'Italia un ciclo nevoso che sfora dalle medie stagionali e che si rivela particolarmente inteso se accompagnato dall'arrivo del freddo vento siberiano, il Buràn: Proprio come è accaduto quest'ultima settimana. Nessuna novità. Dieci anni fa il Buràn arrivò in ottobre - andate a ripescare i giornali di quei giorni! - e causò gli stessi identici disagio che viviamo ora: treni bloccati, scuole chiuse, traffico fermo e romantiche fotografie delle nostre città storiche ammantate da candide coltri di neve.
Chiedersi come mai in questo decennio non è migliorato niente è una domanda sbagliata. In realtà, le cose sono peggiorate. Soprattutto nelle grandi città, la romantica coltre di candida neve ha congelato tutte le attività umane. Roma è andata in tilt. Napoli pure. Milano sta passando i suoi guai. Anche Venezia è rimasta isolata, sia pure per colpa di un traliccio che il Buràn ha abbattuto proprio sul ponte della Libertà.

Colpa delle amministrazioni comunali, tutte tra l'altro, di diverso colore? Sì e no. Il problema è che gli enti locali sono sempre più poveri perché le "emergenze", vere o presunte tali, sono gestite dai poteri centrali. Già. Perché non c'è niente, in Italia, che meglio si presti a trasformarsi un una fonte di denaro e di potere politico come la gestione delle "emergenze". Fatto sta che i Comuni hanno sempre meno soldi da investire in operazioni di manutenzione quotidiana. Gli spazzaneve non spazzano più le strade, i tecnici non perdono più tempo a verificare la tenuta di sistemi di deflusso e lo stato dei piloni, e anche la posa del sale, che prima veniva sparso sulle strade al primo apparire della neve, oggi viene centellinato. A Venezia, che questa settimana è stata gratificata da una spettacolare nevicata, non è stato sparso come di consueto per calli e campielli. Meno costoso mettere un cartello con scritto "vietato salire" sui punti più rischiosi, come sull'oramai mitico ponte di Calatrava, su cui i ruzzoloni sono diventati oramai una barzelletta. E così, se qualcuno si azzarda a transitarci, cade e si fa male, sono affari suoi, che il Comune lo aveva avvertito. Invece di far causa al Sindaco, rischia una multa.

Un altro punto da sottolineare è quello delle ferrovie. Bastano due fiocchi di neve a paralizzarle. Eppure, che i treni possano viaggiare anche quando la neve cade fitta fitta e tutto gela, ce lo dimostra la Transiberiana. Perché solo in Italia i treni si fermano? Per lo stesso motivo per il quale il viaggiatore da "utente" si è trasformato in "cliente". Spostarsi per andare a scuola o al lavoro non è più un diritto ma un'occasione per far guadagnare le finanziarie che hanno investito nel settore. La Tav è un perfetto esempio di questa devianza. Il progetto non risponde ad una logica di utenza ma ad una logica finanziaria. In altre parole, e oramai lo ammettono anche le fonti governative, l'Alta Velocità non serve a migliorare o a rendere più accessibile la fruizione della tratta da parte dei viaggiatori ma a dirottare denaro pubblico, vagonate di denaro pubblico, ai soliti noti: politici corrotti, amministratori incompetenti, finanzieri truffaldini e aziende in odor di mafia. Sotto questa ottica, perché mai le Ferrovie dovrebbero spendere denaro o impegnare risorse tecniche per far marciare i treni dei pendolari anche sotto la neve? Il costo non vale il guadagno né le perdita.

E questa è l'ottica che sta alla base di tutto quel sistema degno di bancarottieri fraudolenti che altro non sono sono le Grandi Opere.

E' notizia di qualche ora fa che, sempre a causa del maltempo, in Toscana è stato attivato l'allarme per il rischio idrogeologico. Neanche questa è una novità. Che i fiumi straripino quando piove o nevica un po' più del normale accade tutti gli anni, in Italia. Una stima di Legambiente ha quantificato in un milione di euro per ogni giorno di emergenza, i disastri causati dalla mancata prevenzione del rischio idrogeologico. Senza contare i danni ai privati e la perdita di vite umane che non può essere quantificata in denaro. Eppure basterebbe investire 10 miliardi di euro in previsioni di spesa, spalmabili quindi negli anni a venire, per attivare un piano di intervento che metta in sicurezza i corsi d'acqua dell'intero Paese. Poco meno di quando ci è costato - fino ad oggi! - l'incompiuto Mose. Senza contare il centinaio di milioni all'anno che saranno necessari per la sua manutenzione, nel caso, tutt'altro che sicuro, che l'opera venga primo o poi conclusa.

Ma investire in prevenzione, messe in sicurezza e in piccoli interventi sparpagliati in tutto il territorio, dando lavoro a migliaia di persone, investendo nelle piccole imprese e delocalizzando le competenze alle amministrazione locali, non è appetibile ad un sistema finanziario che ha oramai esautorato la politica e decide sul futuro economico e anche sociale del Paese.

Sotto la neve, pane, sotto il cemento, fame, recita un detto. Ma in Italia, se scaviamo sotto la neve troviamo solo le grandi, devastanti ed inutili opere.

L'Eni pronta a trivellare l'Alaska


Abbattuti i vincoli di Obama, la multinazionale italiana è la prima azienda ad ottenere i permessi di ricerca petrolifera nel mare di Beaufort 

Di Donald Trump si può dire di tutto ma non che sia uno che non mantiene la promesse. "La nostra economia si è fatta grande grazie al petrolio - aveva dichiarato prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti - e al petrolio torneremo in grande stile!" Detto e fatto. Il presidente che ha chiuso le porte ai migranti provenienti dai Paesi Canaglia, ha spalancate quelle stesse porte ai petrolieri, da qualsiasi Paese provengano. Ed i più lesti ad entrare sono stati quelli nostrani, quelli dell'italianissima Eni che è diventata così la prima multinazionale autorizzata ad andar di trivella dove nessuno aveva mai trivellato prima: nelle incontaminate acque della baia di Prudhoe, nel mare di Beaufort che bagna le gelide sponde settentrionali dell'Alaska.

Proprio come aveva annunciato in campagna elettorale, il presidente tycoon ha lavorato sin dai suoi primi giorni alla Casa Bianca per affondare uno ad uno tutti i divieti sulle trivellazioni posti dal suo predecessore Barack Obama, che aveva tentato di dare una svolta green all'economia americana.
E se il petrolio è oramai ridotto agli sgocciolii anche negli ex ricchi giacimenti del Texas e delle terre artiche, ragione di più - suppone Trump - per incentivarne la ricerca, sostenendola anche con fondi statali, in luoghi dove fino a poco tempo fa l'attività non era neppure considerata conveniente, vuoi perché le condizioni climatiche rendevano l'estrazione proibitiva e poco remunerativa, o vuoi perché la particolare delicatezza dell'ecosistema comportava un inaccettabile rischio ecologico.
Caratteristiche queste che riscontriamo entrambe nell'Alaska. Uno degli ultimi paradisi (quasi) incontaminati della nostra terra e, allo stesso tempo, un ambiente difficile in cui operare. Tanto difficile che nel 2015, la Royal Dutch Shell che aveva un permesso di ricerca in quelle acque aveva preferito rinunciare all'incarico dopo l'insorgere di una serie di incidenti che solo per fortuna non si sono tramutati in disastri ambientali. Gli ambientalisti, all'epoca, avevano cantato vittoria sperando che con la rinuncia della Royal Dutch e con la svolta ambientalista di Barack Obama, fosse tramontato l'ultimo tentativo dell'uomo di trivellare l'artico.

Ed invece, c'è voluta l'elezione di Trump per scombinare tutto, tornare indietro di 20 anni ed aprire le porte ad una nuova esplorazione estrattiva in Alaska. A farsi avanti per prima, come abbiamo detto in apertura, è stata l'italianissima Eni: l'azienda creata da Enrico Mattei con lo scopo di dare una politica energetica al nostro Paese, e tramutatasi in seguito in una spa con il solo fine di far cassa per i suoi azionisti, attualmente guidata dalla presidente Emma Marcegaglia e dall'amministratore delegato Claudio Descalzi.

E' notizia di questi giorni che l'Eni, grazie alla svolta della nuova amministrazione presidenziale Usa, ha incassato anche il definitivo parere positivo del Bureau of Safety and Environmental Enforcement, dopo il contestatissimo da parte ambientalista nulla osta regalatogli lo scorso luglio dal Bureau of Ocean Energy Management. Per la multinazionale italiana si tratta di un doppio regalo natalizio targato Donald Trump. Non soltanto potrà estendere la ricerca petrolifera nella acque antistanti l'isola di artificiale di Spy, nella baia di Prudhoe, dove già possiede 18 pozzi in attività, ma potrà automaticamente contare sul rinnovo di questa concessione di estrazione. Concessione che, nei piani di Obama, avrebbe dovuto abbandonare per sempre.

"Concedendo a questa società straniera il permesso di trivellare il mare antistante l'Alaska, - ha dichiarato preoccupato Kristen Monsell, direttore dell'associazione Center for Biological Diversity che ha tentato di opporsi alle decisioni dei due Bureau - il presidente Trump sottopone il Paese e l'oceano ad un rischio ambientale gravissimo. Le condizioni in cui l'Eni deve operare sono tali da far temere alte probabilità di incidenti e di sversamenti che causerebbero danni irreparabili a tutto l'ecosistema costiero e anche a quello marino che, ricordiamolo, è fondamentale per l'equilibrio dell'intero pianeta".

Agli ambientalisti ha risposto Scott Angelle, presidente del Bureau of Safety, che ha citato il provvedimento America-First Offshore Energy Strategy firmato di pugno da Donald Trump: "Lo sviluppo di risorse responsabili nell’Artico è una componente essenziale per centrare l’obiettivo della dominanza energetica". E perché non si dica che l'amministrazione Trump non ha a cuore l'ambiente, ha promesso Angelle, "stiamo lavorando con gli autoctoni dell’Alaska e i nostri partner per un approccio bilanciato all’esplorazione di petrolio nell’Artico".

L'aspetto più ridicola di tutta questa triste faccenda - oltre al concetto trumpiano di "dominanza energetica" che vuol dire non aver intuito neppure alla lontana cosa stiamo rischiando tutti noi, passeggeri del pianeta Terra, con i cambiamenti climatici in atto - è proprio questo "approccio bilanciato". Per accontentare gli animalisti infatti, i permessi di esplorazione sono stati concessi solo per i mesi invernali, quando cioè le balene, le foche e gli orsi polari che per il resto dell'anno hanno l'abitudine di affollare la baia di Prudhoe, sono meno presenti! Metti caso che gli rovini il sonno…

E di tutto questo l'Eni che dice? Niente. Neppure un commento o una nota. Nel sito del Cane a Sei Zampe si continua a leggere di quante belle cose l'azienda mette in campo per lo "sviluppo sostenibile" in Ghana o per diffondere le energie rinnovabili in Angola. Parla di innovazione, di formazione e di lavoro per i giovani, discute in costosissimi convegni di "sicurezza, migrazione e lotta al terrorismo" (termini che, già accostandoli, non si fa un favore alla verità…), e progetta futuri "verdi" per porto Marghera. Cliccando qua e là troviamo anche un intero capitolo sui cambiamenti climatici e scopriamo che l'azienda "riconosce la loro evidenza scientifica" ed è "seriamente impegnata a contrastarli". C'è anche tutta una "strategy" per un futuro "low carbon" basato su uno studio di "governance & risk management" a sua volta basato su "cinque driver"… Ma sulle stazioni in Alaska nessuna notizia. Neppure un rigo. Neanche su foche, orsi e balene insonni.

Quel dialogo tra sordi chiamato Cop 23


Doveva essere una Cop dai contorni essenzialmente tecnici, questa che si è aperta a Bonn lunedì 6 e che si svolgerà sino a giovedì 16 novembre. Una Cop senza grandi novità né particolari aspettative. Perlomeno prima che arrivasse Donald Trump a scombinare tutto. Doveva essere un incontro lontano dai fari della politica e circoscritto in contorni decisamente organizzativi per dare modo ai delegati dei 196 Stati che avevano ratificato l'accordo di Parigi, cui si è recentemente aggiunta anche la Siria, di accordarsi su come continuare quel percorso già avviato in Francia, stabilendo nei dettagli i contributi da versare, gli obiettivi e le misure da adottare per ridurre la produzione di gas climalteranti. Lo scopo di questa Cop 23, in altre parole, era quello di dare un contenuto dettagliato e pratico a quel famoso - e generico! - obiettivo di "mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2 gradi centigradi, meglio di 1,5, in più rispetto ai livelli pre-industriali" con il quale si terra concluso la sessione parigina.
Obiettivo questo, che già all'epoca a molti commentatori avevano definito "utopico" ma che rappresentava, quantomeno per i movimenti ambientalisti, una base di partenza e di lotta per poter esercitare pressioni sui loro Governi, fedeli al motto "pensare globalmente, agire localmente". Governi, c'è da sottolineare, sempre restii a tradurre in leggi quanto pomposamente sottoscritto negli accordi internazionali a salvaguardia dell'ambiente. Citiamo solo il caso dell'Italia che, dopo aver ratificato Cop 21 che metteva i fossili dalla parte sbagliata delle storia, rinnova le concessioni alle multinazionali per le trivellazioni del mare.
Citiamo l'Italia perché è il Paese in cui viviamo, ma gli Usa, stavolta, hanno fatto decisamente peggio. Già in apertura dellla conferenza, i delegati a stelle e strisce hanno pubblicamente dichiarato che loro sono entrati in aula "solo per tutelare gli interessi dei cittadini americani" e nient'altro. Come se gli Stati Uniti non facessero parte del pianeta Terra!

Non è un segreto che Donald Trump ritenga i cambiamenti climatici una bufala da complottisti e che non abbia nessuna intenzione di trattare su quello che ritiene "l'attuale livello di agiatezza americano", basato sull'economia fossile. I recenti cataclismi che hanno devastato anche il sud degli States, non gli hanno fatto cambiare idea. Avvenimenti naturali contro i quali, a parer suo, si può solo pregare dio.

Sin dai primi giorni del suo mandato, Trump ha cominciato a smantellare quanto di buono aveva fatto Obama in tema di ambiente, tra gli applausi delle multinazionali dei fossili che hanno negli Stati Uniti e nel Canada le loro trincee più forti. L'obiettivo del miliardario diventato presidente è ora quello di svincolarsi dagli impegni di Cop21. Non lo potrà fare subito, perché bisogna rispettare l'iter procedurale stabilito dalle Nazioni Unite ma sin da questi primi giorni di incontri è apparso chiaro che la delegazione Usa non ha fatto altro che complicare o addirittura respingere qualsiasi tentativo di lavorare per una soluzione comune.

Atteggiamento questo, che ha irritato in particolare i francesi che, probabilmente, nel rigetto statunitense dell'accordo di Parigi leggono un affronto personale alla loro "grandeur". La delegazione francese, con questo che è stato definito un vero e proprio "strappo diplomatico", ha già fatto sapere che intende organizzare un summit subito dopo questo di Bonn senza invitare gli Usa. Il che non è una cattiva idea. E' molto probabile che proprio l'atteggiamento negativo dei delegati Usa impedirà all'assemblea di risolvere uno dei nodi centrali di Cop 23. Ovvero, quello dei finanziamenti necessari a "rinverdire" l'economia: i famosi 100 miliardi di dollari all'anno. Dollari che, di sicuro, non saranno gli Usa a sborsare, pur se il Paese nordamericano è tra i maggiori produttori mondiali di emissioni climalteranti. Bisognerà, dice la Francia, sedersi ad un nuovo tavolo e rifare i conti senza i cugini d'oltreoceano.

Cop 23 si presenta quindi come un fallimento annunciato. Un fallimento che oltre a tutto lascia aperte tre pericolose domande: è realizzabile l'obiettivo di contenere i cambiamenti climatici entro i 2 gradi senza gli Usa? è pensabile di finanziare questo obiettivo senza il contributo economico degli Usa? Terza e fondamentale questione: come reagiranno le altre potenze mondiali - dalla Cina ai Paesi Arabi, ma mettiamoci anche l'Europa- nel constatare che il Paese più ricco e maggiormente inquinante rifiuta qualsiasi vincolo internazionale e si prepara a giocare sul panorama dell'economia mondiale senza regole e senza limiti imposti?

Sono pochi coloro che ancora si ostinano a trovare risposte positive a questi quesiti.

Eppure, Cop 23 era nato all'insegna del dialogo, della "talanoa". Parola che nella lingua parlata alle isole Fiji, cui spetta la presidenza del vertice, significa "parlare con il cuore". Sarà invece un incontro con sordi che hanno scelto di tornare a 20 anni fa, quando ancora i Cambiamenti Climatici erano una teoria come tante altre.
Per dirla con le parole di Patricia Espinosa, presidente dell'Unfccc, Cop 23 doveva essere "il momento per passare dalla speranza all'azione". Rischia invece di passare alla storia come il vertice in cui la speranza di contenere l'aumento di temperature entro i due gradi è definitivamente morta.

Voci dal Sale. Democrazia e giustizia climatica per dare un futuro alle terra

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Tante voci, tante narrazioni, tanti vicende di lotta e resistenza, quelle che sono riecheggiate ieri pomeriggio negli antichi magazzini del Sale della Serenissima, nella prima delle due giornate dedicate alla Giustizia Climatica, organizzata dal comitato Contro le Grandi Navi di Venezia. Tante voci ma una sola storia comune. Quella di chi difende la democrazia dal capitale, l'ambiente dalla mercificazione, i diritti dal sopruso. In altre parole, di chi difende la vita dalla morte, di chi apre strade perché l'umanità abbia un futuro in questo pianeta e chi le chiude.
Già, perché i cambiamenti climatici sono una realtà che nessuno oramai si ostina a negare. Neppure quei pochi potenti che, niente affatto disinteressatamente, affermano di non crederci. La "benzina" degli uragani che hanno investito i Caraibi e il sud degli Stati Uniti non è altro che l'aumento di vapore acqueo nell'atmosfera dovuta alla presenza sempre più massiccia di sostanze climalteranti.
Quelle sostanze di cui, per il 3% almeno, sono responsabili le Grandi Navi. Una percentuale addirittura rimasta fuori dagli accordi di Parigi perché queste navi solcano mari internazionali. Mari di nessuno, mari da inquinare a piacimento, mari dove non vi sono leggi, secondo la logica del capitale. Mari che sono un patrimonio comune, secondo gli ambientalisti, da difendere e conservare perché le generazioni abbiamo un futuro.

Ed è qui che si gioca la partita che ha in palio il futuro dell'umanità, sotto attacco da una economia che dopo aver divorato in pochi decenni quasi tutte le energie fossili che si erano formate in ere geologiche, pretende di infilare nel tritacarne del consumismo ambiente, diritti e dignità. Proprio in questa ottica - vita contro la morte - gli amici napoletani che si battono contro le discariche nella loro terra, hanno coniato l'efficace termine di Stop Biocidio. Basta uccidere la vita. Perché, in Campania, di discarica si muore. Interi territori sono stati occupati e colonizzati dalle mafie dello smaltimento dei rifiuti tossici. Zone senza legge, dove lo Stato è assente. Dove malavita organizzata, capitalismo e politica corrotta hanno stretto un patto sulla pelle dei cittadini che ricorda per molti versi la situazione in cui sono precipitati tanti Paesi sudamericani. E capita che chi non ce la fa più, fugga all'estero. Proprio come quelle famiglie che, più per disperazione che per umorismo partenopeo, hanno chiesto asilo politico alla Svizzera. Anche l'Italia ha i suoi migranti climatici!

L'uso indiscriminato e senza legge del suolo per il deposito di sostanze tossiche nel napoletano, ha un equivalente nel Veneto. Quando prende voce in assemblea, tocca al collettivo resistenze ambientali raccontare dell'inquinamento da Pfas che ha avvelenato le falde acquifere di un bacino di utenti di circa 800 mila persone. Senza nessun controllo da parte di chi doveva controllare, nonostante le denunce degli ambientalisti e della gente che si ammalava e moriva, l'azienda Miteni di Trissino, specializzata nell'impermeabilizzazione di tessuti, ha avvelenato oltre 200 chilometri quadrati appartenenti a ben 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo.

Ma sono anche racconti di resistenza, quelli che si sentono nel Sale. Resistenza da parte di politici onesti come i sindaci della Valsusa che raccontano lo scempio che la Tav sta facendo delle loro valli e della loro impotenza a porvi freno, pur essendo i rappresentanti, democraticamente eletti, dei loro concittadini. Resistenza e disobbedienza civile degli oltre 40 mila (quarantamila, avete letto bene!) bretoni che si sono messi di traverso per bloccare la realizzazione di un aeroporto inutile e devastante come quello di Notre Dame des Landes. Nonostante il Governo avesse deciso che non sarebbero stati realizzati più aeroporti in Francia, in quanto il territorio del paese era sufficientemente coperto dalla rete aerea, le multinazionali edili hanno fatto pressione sino a che quello stesso Governo dovette decidere che "prima però bisogna fare l'ultimo". Prevedendo una reazione dei cittadini, la polizia ha organizzato una grande operazione antisommossa e l'ha chiamata "operazione Cesare". Brutto nome nella terra di Asterix! Infatti, la contromobilitazione popolare, dedicata infatti, al noto gallo bevitore di pozione magica, ha portato in campo per ben tre volte 40 mila cittadini che hanno impedito la realizzazione dei cantieri. Anche senza bevanda magica!

Tante voci, dicevamo in apertura, ma una unica storia, se, invece del dito che indica, si guarda la luna. Per questo l'assemblea svoltasi ieri al sale è stata importante. Per avere un obiettivo comune, è indispensabile avere anche un linguaggio comune. "Ho sentito tanti racconti oggi - ha sintetizzato in chiusura dell'assemblea Tommaso Cacciari -. Racconti che parlavano delle lotte che si stanno portando avanti in Germania, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia, delle battaglie nel Salento, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. E ancora Lisbona, Barcellona, Napoli, la Valsusa, le Marche… e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. Perché la battaglia è solo una e racchiude in sé tutte le nostre battaglie per la difesa della democrazia dal basso, dei diritti dei migranti, della tutela della salute e del territorio: quella per la giustizia climatica, quella contro il neo liberismo, per una società più giusta e aperta. La battaglia per dare un futuro all'umanità".

E alla fine… festa in fondamenta con un banchetto degno di quelli di Asterix! Proprio come si faceva una volta a Venezia, quando non c’erano le Grandi Navi e la laguna apparteneva ai veneziani e non alle Compagnie di Crociera!

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Il Mose è nato dalla corruzione. Ecco cosa ci dice la sentenza della Corte d’Appello

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Alla fine dei conti, dei cosiddetti “imputati eccellenti”, a pagare è rimasto solo lui, l’ex ministro Altero Matteoli. La Corte d’Assise di Venezia lo ha ritenuto colpevole di corruzione per lo scandalo delle bonifiche di Porto Marghera e lo ha condannato a 4 anni di reclusione e al pagamento di 9 milioni e mezzo di euro, oltre all’interdizione dai pubblici uffici. Stessa pena, 4 anni e 9 milioni e mezzo di multa, anche all’imprenditore Erasmo Cinque della Socostramo. Due anni per corruzione  l’altro imprenditore Nicola Falconi, mentre un anno e dieci mesi con sospensione della pena sono stati inflitti l’avvocato Corrado Crialese per millantato credito.
Assolti tutti gli altri. L’ex presidente del Magistrato alle Acque Maria
Giovanna Piva per prescrizione, che non vuol dire che non prendeva soldi dal Consorzio, come era stata accusata, ma che è trascorso il tempo utile per incriminarla. Assolti per non aver commesso il fatto l’ex deputata socialista e poi berlusconiana Lia Sartori, e l’architetto Danilo Turcato, quello che curava i restauri della villa di Giancarlo Galan. Assolto per prescrizione pure l’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni dall’accusa di finanziamento illecito in campagna elettorale. Orsoni,  che tra tutti gli imputati, era quello meno coinvolto nello scandalo, non si è fatto vedere in aula. La vera colpa dell’ex sindaco è quella di aver consegnato Venezia ad uno come il Gigio Brugnaro. Ma su questa “imputazione”, non ci sono Corti d’Assise che tengano.

Resta comunque una sentenza che farà discutere, questa emessa questo pomeriggio dalla Corte d’Assise di Venezia che, in  pratica, dimezza le richieste penali dei pubblici ministeri e assolve metà degli imputati. Difficile un ricorso in appello perché molti dei reati contestati stanno per cadere anch’essi in prescrizione.
Si chiude quindi il sipario, con pochi perdenti e nessun vincitore, sulla grande inchiesta sullo scandalo Mose cominciata, non senza un tocco di spettacolarità, in una calda mattina del giugno 2014 con 35 arresti tra cui, ricordiamolo, l’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, l’ex assessore regionale Renato Chisso e l’ex magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta che al processo hanno preferito la via del patteggiamento.
Si è chiuso un sipario, dicevamo, ma la tragedia chiamata Mose è ben distante dal concludersi. Oggi che le “mele marce” sono state allontanate, i tempi di chiusura dell’Opera si allungano di mese in mese come ai bei tempi dei corrotti. La parlatorie arrugginiscono e fanno acqua da tutte le parti. E “la più grande opera di ingegneria italiana” come l’ha definita il pm Carlo Nordio, si sta rivelando per quel che è: una costosissima baraccata mangia soldi e devasta ambiente.
Anche i costi, al di là delle puntuali dichiarazione del Consorzio, lievitano di mese in mese più o meno come lievitavano una volta, con la differenza che le imprese coinvolte negli scandali di ieri, oggi piangono il morto, licenziano i lavoratori e ricattano la politica con l’arma dell’occupazione.
C’è da scommettere quindi, che questa di oggi passerà alla cronaca come la “prima” sentenza sul Mose. Altri sipari si alzeranno su altri scandali. Perché il vero scandalo sta tutto nell’opera.
Oggi gli ambientalisti, presenti ieri in aula con una nutrita delegazione, hanno comunque vinto una prima battaglia perché il tribunale ha sentenziato esattamente quello che loro sostenevano da tempo: dietro al Mose c’è corruzione. E non bisogna fare lo sbaglio di stare a sindacare sulle prescrizioni, su chi se l’è cavata per il rotto della cuffia, sulle assoluzioni più o meno piene, o sugli anni di galera inflitti o non inflitti. Il punto focale è che il Mose che ha trasformato la nostra laguna in un braccio di mare aperto, è figlio della corruzione. Questa, da oggi in poi, deve essere una certezza per tutti. Ed a questo punto bisogna tornare a chiedersi se l’opera serve anche a qualcosa, oltre che a far cassa per la corruzione. E magari domandarsi anche se è sicura e se porta più vantaggi che svantaggi per la città. Qualche dubbio a proposito, lo hanno solevato eminenti ingegneri idraulici!
“La sentenza dimostra l’alto grado di corruttela che stava dietro al Mose – ha concluso
Cristiano Gasparetto di italia Nostra -. Oggi non siamo più solo noi ambientalisti a denunciare questo malaffare perché anche la magistratura ha dimostrato la sua esistenza. La questione a questo punto è: se è stata necessaria tutta questa corruzione è perché il Mose, senza di essa, non sarebbe stato approvato, Solo la corruzione infatti ha potuto portare alla realizzazione di questa opera inutile, costosissima e devastante. Chiediamo quindi che vengano identificati i responsabili dell’approvazione di questa opera mangiasoldi e che venga finalmente effettuato uno studio per conto terzi, senza corruzione dietro, sulla reale efficacia del progetto”.
Siamo ancora ai primi atti della tragedia, quindi. Il sipario è ben lontano dall’essere calato.

E' arrivata la siccità. Tra cambiamenti climatici e cattive gestioni, il futuro è arido

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Una lunga striscia di sabbia. Una volta lo chiamavamo fiume Adige. E la Piave, solo per restare in Veneto, non è ridotta molto meglio. In quanto al lago di Garda, uno dei bacini idrici più grandi d'Italia, siamo all'allarme rosso: il livello sta scendendo di due centimetri al giorno e attualmente è attestato sui 70 cm, contro i 128 o 130 dei tre anni precedenti.
Le altre regioni italiane non sono messe meglio. Solo nell'ultimo anno, in Sicilia, le riserve idriche sono scese del 15 per cento. In Emilia, le città di Parma e Piacenza hanno dichiarato lo stato d'emergenza. La Sardegna è alla disperazione. Rispetto alla stagione precedente, le precipitazioni sono state minori del 40 per cento e il rifornimento idrico per le coltivazioni hanno registrato punte del 90 per cento di deficit. Anche se la situazione migliorasse improvvisamente, saranno ben poche le coltivazioni dell'isola che riusciranno a sopravvivere.
E poi leggi che che il Food sustainability index - lo studio internazionale dell''Economist Intelligence Unit che mette in relazione risorse e sostenibilità - piazza l'Italia al sesto al mondo per quantità di acqua a disposizione!
Stavolta però, i cambiamenti climatici non c'entrano. O meglio, c'entrano a livello globale. L'eccezionale ondata di caldo ha colpito tutto il bacino Mediterraneo sino al nord Europa. Solo in Italia, è stata registrata una temperatura media di 1,9 gradi in più rispetto alla media stagionale. Fatto salvo per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nessuno mette più in dubbio che questi picchi siano imputabili alla nuova stagione climatica verso cui l'intero pianeta si sta avviando, oramai, senza possibilità di ritorno.


Ma perché allora abbiamo scritto che, nel caso dell'Italia, i cambiamenti climatici non c'entrano con la siccità? Perché l'Italia avrebbe tutti i mezzi per far fronte perlomeno a questa prima fase dei cambiamenti se avesse dei politici all'altezza di gestire le risorse a disposizione. Politici capaci di uscire dalla fase emergerziale per impostare una oculata politica di gestione del bene comune.
Ed invece è l'opposto: il tema dei cambiamenti che avrebbe bisogno di strategie più a lungo che a breve termine, è sottovalutato - per dirla in maniera gentile - dai nostri politici di Governo e anche di opposizione. Evidentemente, è un tema che, al contrario di quelli legati alla "sicurezza" e al "degrado", non porta facili consensi.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Siamo uno dei Paesi più ricchi d'acqua e sprechiamo al bellezza di 2,8 milioni di metri cubi di acqua potabile al giorno - più di un quarto del totale - convogliandola in acquedotti che sono delle autentici scolapasta. Anche gli acquedotti dell'antica Roma erano più funzionali degli attuali.
E non è tutto. Anche noi italiani, siamo spreconi. Colpa nostra certamente, ma anche di chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto una efficace informazione. Il nostro consumo pro capite è superiore al 25 per cento rispetto alla media europea.
E vanno pesati anche i consumi dovuti ad una agricoltura che ha fatto dello spreco, dell'insostenibilità e dei sussidi statali il suo punto forte. L'89 per cento delle nostre risorse idriche se ne vanno a coprire queste produzioni. E anche qua, siamo gli ultimi in Europa con un utilizzo di di oltre 2 mila e 200 litri per italiano all'anno. Come dire che se ogni giorno ciascuno di noi beve circa due litri d'acqua, ne consuma quasi 5 mila per l'alimentazione. Basterebbe solo adottare la dieta mediterranea - si legge nel Food sustainability index - privilegiando i prodotti di stagione prodotti da una agricoltura per quanto possibile sostenibile e non aggressiva verso l'ambiente, per abbassare a 2 mila litri al giorno il consumo pro capite e rientrare nei parametri europei.
Tutti discorsi che la politica di governo, impegnata a salvare banche e a costruire emergenze sui migranti, non vuole ascoltare. Preferisce dichiarare "Stati di emergenza" - come ha fatto il governatore del veneto, Luca Zaia - che hanno il solo obiettivo di mungere qualche milionata di euro allo Stato. Euro che che finiranno nelle tasche degli agricoltori in modo da che possano continuare a fare agricoltura proprio come la fanno adesso e che, di sicuro, non verranno utilizzati per mettere in efficenza il nostro disatrato sistema idrico. Senza contare che la cattiva gestione delle risorse idriche ha avuto come conseguenza in tante amministrazioni, il loro affidamento al privato. Cosa che, come era lecito aspettarsi, ha comportato solo un aggravio di spesa per i contribuenti ed un peggioramento della gestione complessiva della "merce" in termini di sprechi. Più ne viene adoperata, e più il privato guadagna.
Quello che non vogliono sapere, i nostri amministratori, è che gli studi della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Desertificazione, hanno inserito nelle zone a rischio anche l''Italia. Il 70 per dell'intera Sicilia, il 58 per cento della Puglia e del Molise e, in percentuali poco minori anche le altre regioni, rischiano di trasformarsi in un Sahara.
Se va avanti così, tra i futuri migranti climatici, che tra il 2008 e il 2015 sono stato oltre 200 milioni, presto ci saremo anche noi italiani.

"Sopravvivere a Sarajevo", voci dall'assedio a Sherwood 2017

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Il Washington Post l'aveva definita "una perfetta parodia di una guida turistica alla moda". Il formato era quello delle celebri Michelin, infatti, ed anche le informazioni che vi si trovavano erano quelle che ci si aspetta di trovare in una guida: come vivere in una città straniera. Ma nel caso in questione, la parola esatta sarebbe "sopravvivere". La città infatti è Sarajevo ai tempi dell'assedio (1992 - 1996). La "Survival Guide Sarajevo" nasceva all'interno della città martoriata da un collettivo di artisti e scrittori, Fama, per dare voce alle tante pratiche di resilienza messe in atto dai cittadini della città bosniaca. Le informazioni che trovate sulla guida non sono quindi "dove si beve la migliore birra di Monaco di Baviera" ma "come costruire una lampada ad olio con un bigodino di metallo e un batuffolo di cotone", oppure "come coltivare funghi nello scantinato che serve anche da rifugio dai bombardamenti", "come attraversare la strada senza farsi cecchinare" o, ancora più importante, "come far sorridere e distrarre un bambino mentre fuori sparano".



Voci preziose che  ti mettono in mano l'assurdità di una guerra meglio di tanti articoli di giornale. Voci che non scivolano mai in ragionamenti moral o politici ma che restituiscono la quotidianità di persone che lottano per non precipiare nella pazzia in un mondo che nella pazzia è precipitato. Venticinque anni dopo la fine dell'assedio, la guida è stata anche tradotta in italiano dall'editore bolognese Matteo Pioppi, fondatore della Bébel. Ho avuto il piacere di partecipare con lui all'incontro che si è svolto ieri sera sotto il tendone della libreria dello Sherwood Festival in cui abbiamo chiacchierato insieme sulla guerra nei Balvcani rileggendola sulle pagine di questo libro che ha intitolato "Sopravvivere a Sarajevo". Nel video che potete scorrere in fondo alla pagina, Matteo ci spiega perché, in un quadro politico in cui ci viene raccontato che tutto è merce e l'unica alternativa che abbiamo sia scegliere tra il nazionalismo e il neo liberismo, questa guida è più che mai attuale. Di più, indispensabile per riflettere su ciò che davvero è importante nella vita.

Clima - Ultimo tango a Parigi

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Non è il primo "pacco" targato Stelle&Strisce, questo di Trump, che arriva al pianeta Terra, pur se rischia di essere l'ultimo e il più pesante. E sempre in nome del principio "American First". Prima l'America. Come se l'America non facesse parte del pianeta Terra! Considerazione questa che ha fatto dire al regista Michael Moore che «il partito Repubblicano americano è la più grande organizzazione criminale su scala planetaria». 
Ricordiamoci che il percorso istituzionale per contrastare (ma sarebbe più corretto dire “contenere) i cambiamenti climatici, cominciato a Kyoto nel 2005, è partito senza l'appoggio degli Usa. Questo perché un altro repubblicano, l'allora presidente George Bush, aveva rifiutato di sottoscrivere l'accordo e, anzi, si era dimostrato particolarmente ostile ad ogni mediazione sostenendo che «lo stile di vita degli americani non può essere oggetto di trattativa». 
Altri tempi. Il negazionismo allora, era considerata dai più una teoria rispettabile pur se errata, nonostante tutti i libri e tutte le pubblicazioni a suo sostegno fossero opera di supposti "scienziati" al soldo diretto delle compagnie minerarie o di "giornalisti" che riempivano solo le pagine di diversi giornali. 


Altri tempi. Dieci anni dopo, a Parigi, nessuno ha potuto tirarsi indietro: Cop 21, in tutti i suoi limiti politici ed ambientali stessi, è stato sottoscritto da tutti i Paesi del mondo tranne la Siria (che ha altri problemi) e il Nicaragua (che comunque è già ad emissioni zero ed ha promesso di aderire a breve). Oggi, dire che i cambiamenti climatici non esistono ha la stessa valenza scientifica di affermare che la terra è piatta. Ci possono credere, o far finta di credere, al massimo personaggi tra il grottesco e il cialtronesco come Trump, per l'appunto, o il sindaco di Venezia che ha appena comunicato che il Comune aderirà alla giornata dell'ecologia, ma sottolineando che «non sarà una manifestazione contro l'amico Trump» e che «per contrastare l'inquinamento noi abbiamo già agito in tempi non sospetti con azioni concrete». Una considerazione che non può non lasciarci sgomenti.
Dopo il primo No a Kyoto, gli Usa piano piano sono rientrati nell'accordo, e, grazie all’impegno di Barack Obama, paladino del green capitalism, sono stati tra i promotori dell’accordo parigino del 2015. Stavolta però, non sarà così facile, perlomeno sino a che in sella rimarrà un dinosauro politico del calibro di Donald Trump. 
La sua uscita dagli accordi di Parigi era ampiamente nelle previsioni, giacché in campagna elettorale non aveva fatto che derubricare i cambiamenti del clima come di una "bufala messa in giro dai cinesi". 
Il Donald è un esempio vivente di quell'economia da rapina a mano armata che sottende ad un capitalismo fondato sullo sfruttamento feroce dei fossili ed è comprensibile che del parere della comunità scientifica non abbia alcuna cura. Così come del futuro del pianeta. 
Ma cosa accadrà ora alla Terra? Intanto va a farsi benedire l'obiettivo - già utopico! - di contenere l'impennata del riscaldamento globale sotto i 2 gradi celsius, considerato che gli Usa sono una delle principali cause di questo aumento. E parliamo solo di fonti dirette, di emissioni provenienti dal suolo nazionale, perché andrebbero, a mio parere, considerate anche le emissioni - che non sono affatto trascurabili - che gli Usa spargono nel pianeta con le loro missioni di "pace" ai quattro angoli del globo. La guerra sì; non è un caso che la Siria, da anni teatro di guerra tra i più importanti del globo, non abbia sottoscritto Cop21.
Una prima conseguenza dello svincolamento degli Usa, potrebbe essere una reazione a catena. Già Russia e Paesi arabi ci stanno stretti su Cop21 e non è un caso che siano stati proprio loro a spingere perché non fossero vincolanti. E questo era un limite dell'accordo che avevamo già sottolineato a suo tempo. 
Gli Usa, dando via libera allo sfruttamento indiscriminato delle risorse fossili, si aggiudicano un innegabile vantaggio, oggi negato agli altri Paesi le cui economie ancora puntano su questo mercato e la cui crescita è “frenata” dalla firma del trattato Cop21. 
Perché dovrebbero lasciare agli Stati Uniti un tale vantaggio in questa corsa? Certo. Stiamo parlando di una corsa che ha come traguardo finale un mondo dove l'umanità non può sopravvivere. Ma questo è il capitalismo, bellezza! 
Qualche considerazione invece fa fatta sulla politica americana. Non è un mistero che Trump sia inviso ad una buona parte del suo stesso partito. Non certo per una sciocchezzuola come quella di mettere a repentaglio il futuro del pianeta, ma perché temono che stia dirigendo il Paese dalla parte sbagliata del… capitalismo! Già. Perché c'è una economia, che qualcuno chiama green, che sta spingendo per farsi largo nella spire della finanza mondiale. 
Senza addentrarci su considerazioni etiche riguardo questa nuova finanza -  sempre ammesso che il capitalismo un'etica ce l'abbia, da qualche parte - facciamo notare come la decisione di Donald Trump abbia trovato una immediata e ferrea opposizione da parte delle tante e potenti aziende o multinazionali che si sono riconvertite al verde. 
Un solo esempio: la fondazione Rockefeller ha annunciato da qualche giorno che liquiderà tutte  le sua azioni nel settore dei combustibili fossili in nome della salvaguardia del pianeta. La notizia ha avuto una pesante ricaduta proprio nel momento in cui Trump annunciava l'affondamento di Cop21. Tanto che gli investitori di una compagnia trivellatrice come la ExxonMobil hanno spinto perché questa si impegnasse a rispettare i limiti parigini, indipendentemente dalle decisioni del presidente degli Stati Uniti. E così hanno fatto altre multinazionali, non solo quelle green. Google, Microsoft nel settore dell'informatica, Unilever nel campo dell'alimentazione e tante altre ancora hanno dichiarato che, Trump o no, i limiti di Parigi, loro li rispetteranno in ogni caso; così come stanno andando verso questa direzioni molti sindaci americani, tra cui Bill de Blasio a New York .
Secondo un dato diffuso dal Partito Verde Europeo, nel solo 2016 oltre 5 trilioni di dollari a livello globale sono stati sottratti ai fossili e reinvestiti in energia pulite. La Cina e l'Europa - a parte l'Italia dove il trend è contrario, considerato che trivelliamo i mari, abbattiamo uliveti per costruire oleodotti e continuiamo a voler realizzare Tav e autostrade - sono all'avanguardia nella costruzione di questa nuova economia. «La cosiddetta green financing - sostiene la co-presidente del Partito Verde Europeo, Monica Frassoni - conviene non solo eticamente, ma anche economicamente, poiché la società è ormai direzionata verso le rinnovabili, a causa del crollo dei profitti per le fonti possibili, alla riduzione del costo delle energie pulite, alla creazione di posti di lavoro green vis à vis la perdita di molti posti di lavoro nei settori estrattivi sporchi». 
La svolta di Trump va letta, quindi, come una contraddizione interna al capitalismo stesso, ma anche come una forzatura rispetto al ruolo che gli stessi USA ambiscono ad avere all’interno delle potenza del G7, in particolare sulle scelte che riguardano l’economia.  E poi - chissà? - magari in questo spietato tiro alla fune tra capitalismo fossile e capitalismo verde, potrebbe spezzarsi proprio la fune. Sempre che prima non si spezzi la Terra!

Chi decide sul futuro del pianeta?

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Un G7 deludente sotto tutti gli aspetti, quello che si è consumato a Taormina. Deludente per gli accordi sulla lotta al terrorismo che non sono andati oltre ad una formale dichiarazione di intenti, E con un Donald Trump appena tornato da un tour in Arabia Saudita dove ha chiamato gli sceicchi sauditi, noti finanziatori dei movimenti integralisti islamici, "i migliori amici del mondo occidentale" indicando nell'Iran la "fonte di ogni male", non c'era da attendersi che a Taormina, la questione terrorismo fosse affrontata seriamente.
Deludente, il G7 di Taormina, lo è stato anche sul tema immigrazione, confermando "il diritto sovrano degli Stati di gestire i propri confini e di stabilire politiche nell'interesse della sicurezza nazionale", avallando, in pratica, quell'approccio securtario che si è ampiamente dimostrato fallimentare anche e soprattutto in tema di sicurezza. Da sottolineare l'uso del termine "nazionale" davanti a "sicurezza". Come dire: ogni "nazione" faccia quello che vuole. E buonanotte all'ipotesi di affrontare il problema come come dovrebbe essere affrontato: cioè nelle sue dinamiche globali.


Qualche risultato, le diplomazie europee lo hanno ottenuto solo sul tema del protezionismo, portando a casa un impegno - sia pure generico - a mantenere i mercati aperti. E sapendo come la pensa in merito un pazzoide del calibro del presidente degli Stati Uniti, è una cosa non da poco.
In compenso, un totale fallimento si è rivelato qualsiasi tentativo di far ragionare Mr. Trump sui cambiamenti climatici. Che tutte quelle menate sul clima che cambia fossero solo balle da campagna elettorale messe in giro dai democratici, il multimiliardario diventato presidente lo aveva sempre detto. I soldi poi, lo sanno tutti, si fanno solo inquinando. Concetto questo, che gli ha garantito l'elezione e l'appoggio delle maggiori industrie nordamericane, penalizzate dalle politiche green di Barack Obama.
Certo, la decisione finale sulla permanenza o meno della più grande potenza industriale mondiale nel club degli accordi di Parigi, non è ancora stata ufficialmente presa, ma vi sono pochi dubbi a riguardo. L'anima verde dell'amministrazione Trump - pensate un po' come siamo messi - è incarnata dalla figlia Ivanka. Niente di più che un gioco delle parti, naturalmente. Perché sull'inevitabile sganciamento degli Usa da Cop21 scommettono tutti i media statunitensi. Il tweet lanciato da Trump, "I will make my final decision on the Paris Accord next week!" (Prenderò la mia definitiva decisione sull'accordo di Parigi la prossima settimana) è già una pietra tombale. Se avesse capito la posta in gioco o se gliene fregasse qualcosa del problema del clima che cambia, non starebbe a pensarci su una settimana.
Gli scenari che si aprono a questo punto sono inquietanti. Se gli Usa se ne vanno, il club di Cop21 perderà la maggior fonte di investimenti che serviva a coprire le conversioni verso una economia sostenibile dei Paesi meno industrializzati. Secondo punto: la maggior potenza industriale del mondo, svincolata dai limiti di inquinamento posti da Obama, comincerà ad inquinare la terra senza limiti. Quella stessa terra dove camminiamo pure noi. E il clima che cambia non guarda frontiere o "nazioni". Terzo punto: cosa faranno l'Europa e le altre potenze mondiali? E' lecito attendersi che di fronte ad un produzione statunitense svincolata da ogni limite di emissioni di Co2, gli altri gruppi industriali si sentiranno penalizzati e premeranno per avere le stesse possibilità di "sviluppo" - termine da scrivere sempre con le virgolette - delle concorrenti a stelle e strisce. Insomma, senza gli Usa, quell'ultimo salvagente all'umanità che erano gli accordi di Parigi rischia di andarsene a fondo.
Perché di questo parliamo quando parliamo di cambiamenti climatici: della possibilità che ha l'umanità di continuare a vivere su questo pianeta.
E la domanda che bisogna porsi è: chi deve decidere sul futuro del mondo? E' giusto che spetti a quei sette personaggi interpretare i bisogni e le aspirazioni di tutta la razza umana? La questione è tutta qua e può essere rinchiusa in una sola parola: democrazia.
Chiediamoci: chi sono quei sette capi di Stato e chi rappresentano? I Paesi più industrializzati del mondo? E allora come mai non c'erano la Russia, l'India e, soprattutto, la Cina? Per il presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, i sette di Taormina sono i rappresentanti dei "Paesi che associano economia di mercato a democrazia". A parte il fatto che i due termini non possono essere associati per niente, il Gentiloni non l'ha detta giusta. Il vero comun denominatore di questi sette Paesi, è l'aspirazione alla continuazione di un sistema di governance globale ad ispirazione capitalista ed occidentale. E questo non è né giusto né ragionevole, considerando che il cambiamento climatico è una questione da affrontare solo globalmente. Insomma, il teatrino andato in scena a Taormina è tutto il contrario di quello che noi chiamiamo democrazia.
Certo, a parte Gentiloni (l'Italia elettoralmente fa sempre storia a sé), tutti gli altri leader sono stai "democraticamente" votati in regolari competizioni elettorali nei rispettivi Paesi. Anche Mussolini lo è stato. Basta questo a mettere chi vince al timone dei destini di tutto il mondo? I cambiamenti climatici non sono per nulla democratici. Tu puoi democraticamente eleggere un presidente che non ci crede ma il clima continuerà lo stesso a mutare. Se tutti gli scienziati affermano che se non spingiamo l'economia oltre della dittatura dei fossili, la temperatura aumenterà sino a mettere in pericolo la sopravvivenza dell'umanità, democrazia significa cercare tutti insieme una strada per ottenere il risultato di rallentare il cambiamento climatico. L'economia finanziaria non dovrebbe aver voce in questo processo. A Taormina, invece, è successo l'esatto contrario. L'esatto contrario di quello che per noi è democrazia.

Chiusura zapatista (una storia vera)
Me ne stavo a La Garrucha (Chiapas, Messico, America, pianeta Terra) stravaccato sull'amaca a ragionare con un "compa" della Giunta di Buon Governo. Il tipo mi racconta che era appena andato a San Cristobal ad ordinare un sistema di filtraggio dell'acqua per un paese là vicino. Ci avevano investito una bella cifra per il budget del municipio e lo avevano deciso di punto in bianco. La cosa mi stupì alquanto. Da quelle parti, "platicano", ciò discutono, su ogni problema per ore ed ore sino a che tutta la comunità è d'accordo. Noi diremmo: "ti prendono per sfinimento". E lo fanno anche su questioni assolutamente risibili come, che so?, la composizione del desayuno caliente, la colazione calda per i bambini che vanno a scuola (c'è pure una speciale commissione sul problema). Sul sistema di filtraggio che costava una sbarellata di pesos invece… nada! Gliene chiedo la ragione e quello mi guarda come si guarda un imbecille: "E che c'è da discutere sull'acqua? Si lavora perché sia potabile, sufficiente per tutti e… basta".

Una nube nera nera sui cieli di Roma. Facciamo finta di niente?

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Cinque giorni dopo, si viene a sapere che ci avevano ragione gli ambientalisti. Quel fumo sprigionatosi dal deposito dell'Eco X di Pomezia e che, nella mattinata di venerdì 5 maggio, ha invaso i cieli di Roma conteneva anche diossina e amianto. "Avevamo già avuto delle segnalazioni nei giorni precedenti all'incendio - aveva dichiarato all'Ansa il presidente di Legambiente Lazio, Roberto Scacchi - Dei cittadini ci avevano segnalato la presenza di mucchi di materiale plastico all'interno dell'area dell'azienda Eco X dai quali provenivano odori maleodoranti. Si erano anche formati dei comitati di quartiere sul problema. Abbiamo segnalato più volte la situazione alle autorità e denunciato pure la possibile presenza di amianto, ma sembra che tutto fosse in regola". Il problema, come vedremo più avanti, sta tutto nelle cosiddette "regole".


Fatto sta che quando il deposito è andato a fuoco, gli ambientalisti hanno subito denunciato l'inevitabile presenza di diossina, essendosi sviluppato da un cumulo di plastiche di riciclo allo stato grezzo e, quindi, non ancora trattate. Ci son voluti cinque giorni però prima che le autorità ammettessero che avevano ragione loro.
Con il cielo della capitale ancora oscurato dalla nube nera, era tutto un coro di "non destiamo allarmismi nella popolazione che è tutto sotto controllo". Anche Enrico Mentana apre il suo Tg sottolineando che "se la nube fosse sopra un'altra città e non su Roma, non staremmo neppure a parlarne".
Eppure la nube è nera, brutta, puzza e fa paura. E la gente che ci si trova sotto non ci crede che non faccia anche male respirarla, quell'aria che sa di plastica bruciata.
A gettare acqua sul fuoco, ci si mette anche la Giunta capitolina della sindaca Virginia Raggi e lo stesso Comune di Pomezia, pure lui a guida pentastellata. "I valori di Pm10 registrati dall'Arpa sono tutto sommato accettabili - ha dichiarato il sindaco della cittadina situata a poco meno di 30 chilometri dalla Capitale, Fabio Fucci -. I valori rilevati, sebbene siano sopra lo soglia di allarme, sono analoghi ai valori registrati nel centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità".
Il che, secondo lui dovrebbe tranquillizzarci. Secondo noi invece, dovrebbero preoccupare non poco chi si trova a respirare l'aria del centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità, come spiega il primo cittadino.
Ma il punto non è neppure questo. Tanto l'Arpa, quanto gli amministratori locali, e lo stesso ministro della Salute, Beatrice Lorenzin- che ad intervalli regolari esce dal suo ufficio a spiegarci che "stiamo attentamente monitorando la situazione" - parlano dei valori di polveri sottili. La diossina è un'altra cosa e non è rilevabile con questo tipo di analisi. L'amianto pure. E allora di cosa parlavano?
Anche sull'area interessata dal disastro, i conti non tornano. Da Pomezia ai quartieri di Roma, secondo la mappatura del ministero della Salute. Ma secondo segnalazioni raccolte dal Legambiente e dall'Ona, l'osservatorio nazionale amianto, la puzza di plastica bruciata si è sentita per un raggio di oltre 50 chilometri dal rogo. sino ad arrivare nei paesi più a nord della provincia di Latina. Sempre secondo il ministero, non ci sarebbero stati ricoverati a parte un vigile del fuoco, uno dei primi accorsi nel luogo dell'incidente, che ha accusato un lieve malore. Di opinione diversa Legambiente Lazio che parla di decine di persone giunte nei pronto soccorso degli ospedali accusando sintomi come bruciore aglio occhi, nausea e vomito.
Proprio come in tempio di guerra, la prima vittima dei disastri ambientali è sempre la verità. Le amministrazioni, sia locali che nazionali, si rivelano ancora una volta quantomeno impreparate - sia dal punto di vista scientifico che procedurale - a fronteggiare queste situazioni di crisi ambientale. La paura di innescare panico tra la popolazione impedisce di intervenire prontamente, perdendo tempo prezioso proprio nella prima fase, quella più delicata e pericolosa del disastro. Meglio adagiarsi su una politica di monitoraggio continuo, sperando che le cose si sistemino da sole. In fondo, quante volte i limiti di sicurezza di Pm10 e di altri inquinanti vengono sforati nelle nostre città senza che nessuno si sogni di protestare? Al massimo, si può consigliare alla gente di tenere le finestre chiuse. Male, non fa.
E come per tante altre devastazioni ambientali, si attende che sia la Procura a fare i primi passi. Con i tempi lunghi della giustizia italiana che non sono certo quelli che servirebbero a contenere ed a combattere i fenomeni inquinanti.
Subito dopo l'incendio, il cantiere dell'Eco X è stato messo sotto sequestro dalla Procura di Velletri. Ed è toccato allo stesso procuratore che indaga sull'ipotesi di reato per incendio doloso, Francesco Prete, dichiarare quello che gli ambientalisti affermavano, i cittadini sospettavano ma nessun amministratore aveva prima ammesso. Cioè che: "La Asl ha rilevato la presenza di amianto sul materiale campionato".
C'era quindi l'amianto e c'era quindi anche la diossina. E i giornali e i cittadini lo vengono a sapere - cinque giorni dopo - dal procuratore che indaga e non dal ministro o dall'assessore regionale all'ambiente o dal sindaco. C'è qualcosa che non funziona nella catena di comando e di pronto intervento, evidentemente.
Così, per sapere quanto vasta sarà l'area contaminata dove, con tutta probabilità verrà interdetto il raccolto agricolo, bisognerà attendere il prosieguo delle indagini.
Una stima di Coldiretti, parla di circa 150 aziende agricole coinvolte dalla nube. Numeri che sono sicuramente destinati ad aumentare, secondo Legambiente, perché la diossina è un inquinante infido e pericoloso e, più che nell'aria, si diffonde nella terra e nelle acque, avvelenando i prodotti della terra per lunghi periodi di tempo. Ma intanto che la giustizia fa il suo corso, i contadini continuano a lavorare la loro terra inquinata e gli operai impiegati nelle fabbriche della zona industriale di Pomezia, a ridosso del deposito bruciato dell'Eco X, continuano ad andare al posto di lavoro senza neppure la protezione di una mascherina per i residui di amianto. Quali saranno le conseguenze sui polmoni di questi lavoratori?
Non ci sono regole, in Italia, per gestire le crisi ambientali. E nessuno vuole prendersi la responsabilità di scriverle, perché queste regole sarebbero decisamente in contrasto con i dettami imperanti dell'economia e dello "sviluppo". Così come non ci sono regole certe sulle soglie di pericolosità di tante sostanze inquinanti e i limiti di sicurezza sono solo asticelle che si alzano e si abbassano a seconda dei casi. Così come non ci sono normative cui attenersi nella gestione di tante lavorazioni a rischio per il solo motivo di non abbassare la redditività. "Viene da pensare che un’impiantistica necessaria per evitare incendi neppure c’era nella Eco X - nota il presidente di Legambiente Lazio - perché probabilmente non era nemmeno necessaria per legge! Altrimenti la gestione dell’incendio sarebbe stata differente".
Ancora una volta, i tempi e gli obiettivi dell'economia, della politica e dell'ambiente sono sempre più distanti tra loro.

Il gasdotto for dummies. Ovvero, perché noi stiamo dalla parte degli ulivi

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Ulivi contro manganelli? Noi stiamo dalla parte degli ulivi. Anche perché i manganelli scendono sempre in campo quando le altre argomentazioni non convincono. Reprimere e criminalizzare, è un buon sistema per evitare di dare risposte. Soprattutto quando le risposte non ci sono o sono ben diverse da quelle che la propaganda ufficiale cerca di propinarci. In gergo tecnico, si chiamano "bugie". Ecco di seguito un elenco commentato con le principali "bugie" che raccontano quelli che stanno dalla parte dei manganelli. E che, non per altro, hanno bisogno dei manganelli.

Tap, di cosa stiamo parlando?
Lo possiamo leggere nel sito stesso della Trans Adriatic Pipeline: "Tap, Trans Adriatic Pipeline, è il progetto per la realizzazione di un gasdotto che trasporterà gas naturale dalla regione del Mar Caspio in Europa. Collegando il Trans Anatolian Pipeline alla zona di confine tra Grecia e Turchia, attraverserà la Grecia settentrionale, l’Albania e l’Adriatico per approdare sulla costa meridionale italiana e collegarsi alla rete nazionale".

Gas naturale, naturalmente.
Tutta la campagna pubblicitaria a favore del Tap si basa su due equivoci di fondo. Entrambi montati ad arte. Il primo è che "Una volta realizzato, costituirà il collegamento più diretto ed economicamente vantaggioso alle nuove risorse di gas dell’area del Mar Caspio", come si legge sempre sul loro sito che evita di spiegare per chi è "economicamente vantaggioso".
Il secondo è quello del "gas naturale". Naturale come dire che è ecologico. Ma stiamo parlando di metano. Siamo d'accordo che bruciare carbone è più inquinante ma non dimentichiamo che il metano, come tutti i combustibili fossili, fa parte delle energie non rinnovabili, quelle che a Parigi (ce lo vogliamo ricordare o no?) sono state buttate fuori dalla storia dell'umanità. dell'umanità che vuole avere ancora un futuro su questa terra, intendiamo. Il metano è un climalterante, è tutt'altro che un combustibile ecologico ed è un gas serra. Quando, sempre a Parigi, parlavamo di "decarbonizzazione" non intendevamo il processo di sostituzione del carbone col gas, ma abbattere le emissioni di carbonio. Quelle emissioni che anche il metano produce.
Il Tap, come tante altre Grandi Opere, si basa su queste due fondamenta di argilla: convenienza economica e 'sviluppo'. Siccome è facile smentirle con un po' di dati, le manganellate si rivelano sempre necessarie per convincere gli ambientalisti recalcitanti. Dove non può la logica…


L'obiettivo del Tap è variare le rotte di importazione del metano che oggi sono appannaggio di un Paese tutt'altro che stabile e amico dell'Europa come la Russia di Putin.
Già. Perché la Turchia guidata da quel Pinochet del Bosforo che altro non è Erdogan è un Paese serio, democratico e affidabile! Per non parlare della Georgia e dell'Azerbaijan, dei satrapi che le governano e che, oltretutto, pescano parte del gas che rivendono a noi proprio dalla Russia di Putin.

Grazie a questa condotta, l'Italia diventerà un hub dal metano. (Hub è un inglesismo brutto ed inutile per dire "fulcro". Noi lo usiamo perché tutta la propaganda a favore della Tap usa questo termine e ciò da anche l'idea del valore di questa propaganda.)
Manco per sogno. La Germania ha già investito sul raddoppio del North Stream che le porta il gas direttamente dai giacimenti russi. Il gas proveniente dagli Stan ce lo dovremmo ciucciare tutto noi. Anche perché la Francia non ne ha bisogno, visto che ha il nucleare. E così la Croazia.

Questo gas ci serve.
In Italia nessun Governo ha mai affrontato la costruzione di una politica energetica seria. Così come, ad esempio, hanno fatto Paesi come la Svezia o la Danimarca, pianificando per tempo il passaggio alle rinnovabili sulla lunghezza di decenni. Per cui nessuno può dire quanto metano servirà agli italiani nei prossimi anni. Due fatti però possiamo notare. Il primo è che la nostra capacità di importare metano, anche senza Tap, è già doppia rispetto ai fabbisogni attuali. Il secondo è che la tendenza dell'ultimo decennio all'uso di gas è in diminuzione.
La realtà è che il mondo sta cambiando. Le rinnovabili stanno rivoluzionando l'economia e non ci sono dubbi che alla fine, nonostante la fortissima e violenta resistenza delle multinazionali dei combustibili fossili, vinceranno loro. I Paesi che si adegueranno arriveranno primi al traguardo della storia. Il Trans Adriatic Pipeline ci riporta alla partenza.

Il governatore Emiliano gioca sporco sul Tap e cerca di spostare gli equilibri in vista del congresso del Pd.
Domenica scorsa, dopo una combattutissima partita, il Campodarsego si è imposto 2 a 1 sull'Union Feltre nella 29esima giornata del campionato di serie D, girone C. Come dite? Non ve ne frega niente? Neanche a me dell'Emiliano e del congresso del Pd.

I soldi investiti sono dei privati. Gli italiano avranno solo benefici in bolletta.
Questa barzelletta l'abbiamo già sentita e non ci diverte più. Il privato geneticamente modificato che lavora per gli interessi pubblici devono ancora inventarlo. Il Tap, oltre che dalle sei società iniziali - Saipem, Bp, Socar e in misura minore Fluxys, Axpo e Enagas - è finanziato anche dalla Banca Europea per gli Investimenti (che avrebbe nel suo statuto la mission di combattere i cambiamenti climatici, pensate un po') e vi partecipa anche la Snam con altri soldi pubblici che prima o poi ci ritroveremo in bolletta. Ricordiamoci soltanto del rigassificatore di Livorno. Altra Grande Opera "strategica" sull'approvvigionamento di metano che doveva essere realizzata interamente dai privati e poi si è trasformata nell'ennesima inutile incompiuta capace solo di fagocitare vagonate di finanziamenti pubblici. E senza che i privati ci abbiano rimesso un euro. Anzi.

Gli ulivi verranno solo spostati e non distrutti.
Che bello! E i poveri orsi polari che per colpa dei cambiamenti climatici si troveranno senza ghiaccio sotto il culo, li carichiamo su una nave e li portiamo nello zoo del film Madagascar. Scherzi a parte, non possiamo ridurre problemi complessi che richiedono una soluzione radicale al destino di ulivi e di orsi. Rispondere, a chi ribadisce il suo No al Tap chiedendo una diversa politica energetica, che gli ulivi saranno risparmiati, vuol dire fare brutta demagogia. Talmente brutta che servono le manganellate per farla entrare nella testa degli ambientalisti. E poi cosa significa "li spostiamo su un altro posto dove si troveranno ancora meglio"? Se son cresciuti là, devono restare là. Se c'è un altro posto adatto, piantiamoci ulivi giovani e facciamoli crescere. Con questo ragionamento, tra un po' sposteremo tutte le opere d'arte, anche quelle architettoniche, dentro musei privati a pagamento ed i paesaggi li ricorderemo in cartolina. A pagamento, pure queste.

Il metano ci aiuta nel passaggio alle rinnovabili
Questo sarebbe vero se ci fosse un Governo più serio. Ma, d'altra parte, un Governo più serio avrebbe fermato le trivelle in mare e non si imbarcherebbe mai in una opera senza futuro come il Tap. Il rischio, piuttosto, è che avvenga il contrario. Il nostro Paese attualmente ha creato una sovracapacità di energia elettrica basata sui fossili e in particolare sul metano che finisce per rallentare, se non addirittura opporsi, ad un auspicabile passaggio verso le rinnovabili.
Soprattutto, perseverare in questa direzione, ostinata e contraria ad un futuro senza fossili, ci allontana dalla vera soluzione che è la creazione di una politica energetica sostenibile, atta a contenere davvero i cambiamenti climatici. Bruciare metano al posto del carbone, - come ci ordinano le multinazionali del Tap - non è la risposta corretta alle domande che sono state poste negli incontri di Parigi. La soluzione è sempre quella: risparmiare energia, consumare meno, combattere lo spreco, utilizzare mezzi sostenibili, rinunciare al superfluo.
Ma non abbiate timore che un giorno ci arriveremo. Il giorno in cui i fossili saranno solo un ricordo e non sarà più l'economia ma la scienza e la democrazia dal basso a dettare l'agenda politica.

Dove nasce il terrore. la crisi siriana tra fascismi e combattenti per la libertà

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Perché? La domanda che pesava nel cuore di tutti noi, accomodati in platea, viene fuori solo alla fine dell'incontro. Marco Sandi, prima di porla sente il bisogno di scusarsi, quasi a vincere un naturale pudore nel cercare di entrare nell'intimo di una persona che ha dato tanto ad un ideale di giustizia e libertà. Tanto da mettere a repentaglio anima e vita. Perché lo hai fatto? Cosa spinge un giovane ad arruolarsi nelle Ypg per combattere, armi in pugno, i fascisti dell'Isis? Davide Grasso scuote la testa e risponde che queste sono domande senza risposta. Forse è nato tutto da una lettura giovanile di un libro sulla vita di Che Guevara, racconta. Forse su quelle pagine ha imparato che in tante parti del mondo, sorelle e fratelli, compagne e compagni, combattono per la libertà e per la giustizia. E le compagne e i compagni che lottano non vanno mai abbandonati. "Sapevo bene che, probabilmente, non sarei tornato vivo, ma sapevo anche che se fossi tornato vivo sarei stato contento della scelta che avevo compiuto". Ed è stato così? "Per certi versi sì. Ma non puoi andare a fare la guerra di rivoluzione e tornare integro. Quello che ho visto, quello che ho sofferto e che ho visto soffrire mi hanno scavato dentro. Di fronte agli immani orrori che ho trovato, quello che io ho potuto fare è quasi niente e non è sufficiente a colmare l vuoto che sento".


Almeno duecento persone, ben oltre la capienza dell'aula, sono venute all'appuntamento con il combattente Davide Grasso e il regista Claudio Jampaglia, questo pomeriggio al Baum dell'università Ca' Foscari di Venezia. Il tema era "La battaglia per l'umanità" perché, come ha sottolineato nella sua introduzione Jacopo Bernaus del collettivo universitario Lisc "siamo attivisti più che conferenzieri. Non abbiamo paura di dire che siamo dalla parte dei curdi perché quelle che si combatte nel Rojava e in tutto il Kurdistan non è solo la battaglia dei curdi per le loro terre ma la battaglia per l'umanità contro gli orrori del Daesh, la battaglia della democrazia contro il fascismo. Una battaglia che dobbiamo combattere tutti. Nell'ultimo comunicato del battaglione Antifa, in prima fila contro le milizie islamiche, abbiamo letto: 'pianteremo dei semi e li difenderemo sino alla fine'. Ed è quello che il collettivo vuole fare all'interno di una università sempre più lontana dai principi del sapere critico e della conoscenza dal basso".

L'incontro è stato organizzato, oltre cha da Lisc, anche dall'associazione Ya Basta Edi Bese. Marco Sandi, che ha avuto il compito di moderarlo, ha chiarito subito il campo da equivoci. Se oggi tutti i media sono concentrati sull'attentato di Londra, il cuore di Ya Basta non è in Inghilterra ma nel Rojava, assieme a coloro che combattono davvero il terrorismo. Tra le compagne e i compagni curdi, e non tra quei governanti che a parole attaccano l'Isis ma finanziano proprio quei Governi fascisti che soffiano sul fuoco degli integralismi ed hanno trasformato la Siria in un "poligono di tiro".

Quanto sta accadendo a Mosul non è la liberazione di una città, come è stato per Kobane, dove esisteva un progetto politico e non solo militare di liberazione, ma una conquista. Una conquista volta a riconsegnare la città a quelle milizie che hanno giurato fedeltà al criminale di Damasco, Bashar Hafiz al-Asad.
E che quanto accada su quel fronte non sia sempre quello che le tv ci fanno vedere lo testimonia l'altro ospite della serata, Claudio Jampaglia venuto a proiettare il suo docu-film Our War. "Come i peshmerga nel Kurdistan orientale, in Siria le milizie di Assad non fanno passare nulla. Né medici, né medicinali, né tantomeno giornalisti. Parlo di quelli veri. Conosco una giornalista britannica che è ferma da due settimane ad un posto di blocco. Mi ha scritto che ha visto passare solo una troupe della Bbc e ne ha chiesto ragione ai soldati. Le hanno risposto: ma quelli sappiamo che cosa scrivono".
La verità, qualcuno ha scritto, è sempre la prima vittima di ogni guerra.

L'ospite d'onore dell'incontro, avrebbe dovuto essere lui, Karim Franceschi, autore de "Il combattente" (Rizzoli), che è tornato a combattere con il Ypg. Il collegamento dal fronte di guerra doveva essere la sorpresa della serata. Ma non c'è stato niente da fare. Ci auguriamo che il problema sia tutto nella difficoltà di collegamento in rete, ma un po' di preoccupazione non riusciamo a mandarla via.
A Karim, un abbraccio forte da tutti noi.

A raccontare quanto accade nel fronte, rimane Davide Grasso, che dalla Siria è tornato da poco. Davide traccia una mappa precisa delle azioni in cui sono impegnati in Siria combattenti arabi e curdi delle Ypg, e del prossimo obiettivo: la città di Raqqa. Parla anche dell'attentato di Londra. "Non è stato un attentato al Parlamento. Il terrorista voleva solo colpire la gente comune. Così come avviene in Siria, considerato che il popolo siriano è stato trasformato un carne da macello dai tagliagole dell'isis ma anche dalle feroci milizie di Assad e dai governi occidentali. Il sindaco di Londra ha ribadito che la città non si piegherà al terrorismo. Giusto. Ma dovremmo definire meglio cosa sia terrorismo. Proprio in Inghilterra, qualche giorno fa è stato arrestato un ragazzo inglese che tornava in patria dopo aver combattuto nelle file curde. Lui, che ha combattuto i terroristi, lo hanno chiamato terrorista. Ma terroristi veri, come Erdogan o gli sceicchi dell'Arabia Saudita che fomentano l'integralismo e l'Isis, sono considerati alleati dai governanti europei. Per non parlare del presidente del Kurdistan iracheno, Mas'ud Barzani, che compie autentici genocidi gasando interi quartieri di Damasco e accordandosi con l'Isis per massacrare gli yazidi eppure, forte del petrolio che scorre sotto il suo Paese, viene accolto a braccia aperte ai colloqui di pace di Ginevra".

Come sia possibile che terroristi diventino alleati, e combattenti per la libertà vengano visti come terroristi - in una Europa dove l'opinione pubblica ed il rispetto dei diritti umani dovrebbero ancora contare qualcosa - è imputabile solo ad una pesante mancanza di corretta informazione.
Anche nella guerra contro il terrorismo e il capitalismo suo alleato, la prima vittima è sempre la verità.
Conclude Davide: "Conoscere ed informarsi è il primo fronte su cui dobbiamo impegnarci tutti. Se non capiamo quello che accade nel mondo, siamo tutti in pericolo. Anche solo a camminare per le strade di Londra o di Venezia".

Pfas, il veleno nell'acqua e nella testa

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Un vero paradiso, il Veneto. Per gli inquinatori. Quegli inquinatori che, anche quando i risultati di ricerche scientifiche e le denunce dei comitati per l'ambiente portano a scoprire intere aree trasformate in discariche tossiche, possono sempre contare sulla complicità della Regione Veneto, pronta a ritoccare al rialzo i limiti di sicurezza delle percentuali delle sostanze tossiche. Anche a costo di andare allegramente in deroga a regolamenti nazionali ed europei, oltre che alle stesse indicazioni dell'Oms. E' accaduto con le polveri, è accaduto con l'amianto, è accaduto… sempre.
Accade anche oggi con i Pfas, composti chimici nati dalla fusione di solfuro di carbonio e acido floridico. Composti di cui, solo fino a qualche anno fa, soltanto gli studiosi di chimica conoscevano l'esistenza, ma che ora, secondo alcune stime (e neppure le più pessimiste) perlomeno 400 mila persone che vivono lungo il bacino del Fratta Garzone hanno scoperto di avere nel sangue con valori ben oltre la soglia di attenzione. Numeri degni di una epidemia di peste medioevale, quando i medici giravano con le bautte dal becco lungo per difendersi dal contagio e il popolino, complici i governanti, se la prendeva con gli untori.
Oggi che il popolino, complici i governanti, se la prende con i migranti e la scienza qualche progresso l'avrebbe pur fatto, ci è voluto un medico epidemiologico vicentino, Vincenzo Cordiano, per scoprire che nella ottantina di Comuni attorno a Trissino da anni la gente moriva in percentuali che sforavano le medie Istat per patologie riconducibili ai Pfas. A qualcuno allora è venuto il sospetto che tutto fosse riconducibile a quella fabbrica, la Miteni, di Trissino appunto, specializzata nell'impermeabilizzazione di tessuti tramite i Pfas, che aveva fatto registrare negli ultimi anni la bellezza di ventun operai morti delle medesime patologie: tumori ai reni e ai testicoli, in particolare.
La faccenda a questo punto, si sposta in procura. Anzi, in tre procure, perché tre sono le provincie le cui falde sono state contaminate di Pfas: Vicenza, Verona e Padova. Arrivano studi scientifici, analisi e gli screening. La Regione ne ha attivato uno che durerà dieci anni senza pensare che certe malattie ammazzano molto prima ma considerando che, per i tempi della politica, dieci anni senza dover prendere decisioni scomode sono una manna del cielo. Arriva anche l'Unione Europea che laurea il Po e i suoi affluenti come i fiumi più inquinati e pericolosi del continente. Come dire: "Ecco cosa ottenete ad andare in deroga ai nostri limiti". Arriva una prima sentenza del tribunale di Venezia che non può che prendere atto che le falde sono inquinate da far paura ma si prende il disturbo di sottolineare che detto inquinamento non è dovuto soltanto ai Pfas ma anche a tante altre sostanze nocive. E se per voi questo è un motivo in più per intervenire velocemente, per la Regione è un motivo in più per prendere tempo e studiare un "piano complessivo di bonifica". Aspettando i risultati dello screening tra dieci anni o, se preferite, due legislature. Arriva anche la Miteni che casca dalle nuvole. "Abbiamo inquinato? Beh… bonificheremo" e intanto continua ad inquinare come prima, complice, come abbiamo detto, la Regione Veneto che per evitare di scontrarsi con chi produce pur sempre "schei", oltre che morti ammazzati, gli adegua i limiti di sversamento così da non far perdere alla fabbrica neppure un giorno di lavoro.
A chiedere la chiusura immediata della Miteni e la bonifica immediata della falda, rimangono solo i soliti ambientalisti. Quelli che hanno ragione sempre dopo una decina di anni e dopo un bel po' di inchieste della magistratura.
Abbiamo detto tutto? Ah già… dimenticavamo… Buona giornata mondiale dell'acqua potabile a tutti!

Guerre per il petrolio e petrolio per le guerre

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I cambiamenti climatici generano guerre. E le guerre generano i cambiamenti climatici. Facciamo le guerre per i combustibili fossili e consumiamo combustibili fossili per fare le guerre. Ci siamo mai chiesti quanto costa un carro armato in termini di emissioni di Co2? Quante emissioni serra porta con sé un bombardamento? 
D’accordo, di fronte a tragedie come quella di Aleppo, tentare di valutare la questione in termini di riscaldamento globale, sembra una bestemmia. Ma non dimentichiamoci che la guerra in Siria è stata causata anche dai cambiamenti climatici. 
Uno
studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” e riportato in italiano dalla celebre rivista Le Scienze (versione nostrana di Scientific America) ha spiegato come la guerra civile che sta insanguinando il Paese mediorientale sia imputabile, tra le altre cause, ad una tremenda siccità. La peggiore mai registrata in quell’angolo di medio oriente che ha visto nascere la civiltà. Tra il 2006 e il 2011, la siccità ha messo in ginocchio l’agricoltura, costringendo decine di migliaia di contadini a spostarsi verso le città. Un flusso migratorio che si è mescolato con quello dei profughi provenienti dal vicino Iraq in guerra – altro conflitto che ha radici profonde nel riscaldamento globale – causando un forte aumento dei prezzi, scarsità di generi alimentari e tensioni sociali. “Non stiamo sostenendo che la siccità abbia causato la guerra – scrive il climatologo Richard Seager – ma che, aggiunta a tutti gli altri fattori di tensione, ha contribuito a spingere la situazione oltre il limite, fino al conflitto aperto. E una siccità di tale entità è stata facilitata dalle attività umane in corso in quella regione”.
“I cambiamenti climatici mettono sotto stress le risorse idriche e l’agricoltura e probabilmente aumenteranno ancor più il rischio di conflitti – ha spiegato Seager su Scientific America – La guerra siriana vive ormai di vita propria, tuttavia, l’aggravamento della siccità per i cambiamenti climatici è stato un fattore importante nell’innescare la disgregazione sociale.”

Il caso della Siria non è certo l’unico. Altri
studi scientifici hanno messo in relazione l’aumento di temperatura con lo scoppio di conflitti in tutto il mondo, dall’africa sub sahariana allo stesso Egitto, dove la rivoluzione è stata preceduta da una impennata dei prezzi del cibo causata dalla siccità. 
Non è quindi una questione secondaria chiedersi quanto ci costa in termini di emissioni di Co2 quelle guerre causate proprio dalle emissioni di Co2. 
Più difficile dare una risposta esauriente. 
Il primo in Italia a fare i conti in tasca ai… carri armati è stato, a quanto ci risulta, il meteorologo Luca Mercalli. In un suo
articolo del 2003 (quando ancora i negazionisti contestavano la teoria dei cambiamenti climatici), consultabile nel sito della società meteorologica italiana, l’ambientalista si domandava, riferendosi a Desert Storm: quanto petrolio ci costa la guerra per il petrolio? 
Partiamo intanto dai dati che abbiamo. 
  • Un carro armato consuma in media 200 o 300 litri ogni 100 chilometri. Poi ci sono le “eccellenze”: l’Abrams M1, ad esempio, soprannominato “l’ingozzatore di benzina”, ne brucia almeno 450. 
  • Un aereo tipo F-15 Strike o un F16 Falcon consumano 16 mila e 200 litri all’ora. (Non mi lamenterò più della mia Kawasaki 750Z!)
  • Un bombardiere B52, 12 mila litri all’ora.
  • Un elicottero da combattimento Apache, 500 litri all’ora. 
  • I mezzi di appoggio sono assai più parchi, e possiamo stimare, sempre lavorando di difetto, il consumo medio in un litro a chilometro. 
Limitandoci solo alle forze dell’esercito statunitense e dei loro alleati, Desert Storm ha messo in campo 42 F17 che volarono per 6900 ore in 38 giorni, 2400 aerei, 1848 carri Abrams, più di 50 mila veicoli d’appoggio. Solo i rifornimenti in volo che tutti i telegiornali mandarono in onda in quanto “spettacolari”, costarono 675 milioni di litri di carburante sufficienti a riempire i serbatoi di 17 milioni di auto. 
“Assegnando un parco mezzi più o meno di questa consistenza – scrive Mercalli – e applicando un coefficiente di utilizzo molto prudente di una sola ora al giorno per mezzo, si ottiene un consumo giornaliero di 45 milioni di litri di carburante”. E parliamo solo delle forze alleate di terra. Senza considerare le navi, le portaerei che vanno col nucleare e sulle quali bisognerebbe fare tutto un altro discorso, i consumi dell’esercito iracheno e i pozzi di petrolio dati alle fiamme. 
Facciamo adesso due conti della serva: 45 milioni di litri di carburante bruciati si traducono con emissioni pari a 112.400 tonnellate di Co2. Come dire che 10 giorni di guerra inquinano – e, ripetiamolo, la cifra è calcolata per difetto – come per una anno una città di oltre 110 mila abitanti. 
“Da ciò si constata come, oltre ai problemi di ordine etico che difficilmente giustificano un tale sperpero di risorse volto a danno di una nazione (quindi si preparano altri costi energetici per ricostruire quanto distrutto) – scrive Mercalli –
un tale volume di emissioni gassose in atmosfera vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto”. Tanto per fare un esempio, l’emissione giornaliera derivante dal conflitto iracheno equivaleva almeno alla metà del carico di emissioni che il nostro Paese avrebbe dovuto ridurre per mettersi in regola con gli allora accordi di Kyoto. 
A questo punto vien da chiedersi
come mai, durante la Cop parigina, le attività militari siano state esonerate dall’obbligo di ridurre le emissioni. Anzi, le cosiddette “spese per la difesa” non hanno neppure fatto parte degli argomenti messi nelle agende di discussione. Quella guerra che secondo Gino Strada dovrebbe diventare un tabù come l’incesto, è stata invece esonerata da ogni rendicontazione climatica. Come fosse welfare cui l’umanità non può rinunciare. 
Eppure la guerra ammazza. Prima ammazza con le bombe, poi ammazza ancora di più con l’inquinamento climalterante e le conseguenti guerre innescate all’inquinamento climalterante. 
Marinella Correggia giornalista di Altreconomia in un suo
interessante articolo si chiede provocatoriamente “quanto carburante fossile ha consumato il 3 ottobre 2015 l’aereo AC-130 della United States Air Force per i 45 minuti di bombardamenti sull’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz”.
Mike Berners-Lee, autore di “How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything” scrive: “I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche oltre e dopo la fase della guerra”. 
Opinione condivisa anche da Barry Sanders, autore di “Green Zone. The environmental costs of militarism”: “Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Scrivendo il mio libro mi sono accorto che
il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi”. Una prospettiva davvero inquietante. 
Nel 2005, l’associazione ecologista Friends of the Earth ha stimato che
solo il mantenimento dell’apparato militare mondiale – senza contare il suo uso – produce due miliardi di tonnellate di Co2 all’anno. Oggi, più di dieci anni dopo, il bilancio è peggiorato. 
E la fetta più grossa della torta militare mondiale, è quella che si mangiano gli Usa. “Da quanto ne so – scrive sul suo Facebook il meteorologo Luca Lombroso –
il solo Pentagono ci costa in emissioni quanto la Svizzera“. Il sopracitato Sanders è ancora più esplicito. “L’esercito degli Stati Uniti è il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo: oltre il 5% del totale. E la percentuale sarebbe molto più alta, se si comprendessero i costi energetici di produzione delle armi, il consumo di combustibili fossili e di materiali da parte dei privati contractors e infine l’enorme peso della ricostruzione di quanto distrutto dalle guerre”. 
Vien da chiedersi se si possa pensare di contenere l’aumento di temperature entro i due gradi, come prevede Cop 21, mantenendo questo mostruoso apparato inquinante capace solo di generare altre occasioni di inquinamento climatico. 
L’ultimo rapporto dell’International Peace Bureau spiega che ciò non è possibile: “
Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti. Le spese militari rubano alla comunità internazionale i fondi di cui ha disperatamente bisogno per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica”.
Destinare alle iniziative di contenimento dell’inevitabile aumento della temperatura globale le risorse che oggi vengono spese per finanziare le guerre che sono la principale causa dell’impennata della temperatura globale, sarebbe probabilmente la sola speranza dell’umanità di vivere su questo pianeta così come ha vissuto sino ad oggi. Ed è quanto ha chiesto l’appello “
Stop the Wars, Stop the Warming” lanciato da scienziati climatici e ambientalisti Usa nel luglio del 2014. Appello inascoltato dall’allora presidente Barack Obama. E possiamo azzardarci a prevedere che non avrà miglior fortuna con Donald Trump!
“È un circolo vizioso infernale – si legge nel documento -: l’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense per condurre guerre per il petrolio e le risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita non solo con le guerre per il petrolio, ma con l’uso di petrolio per fare le guerre”.

Il Parlamento Europeo ratifica l’accordo di Parigi. Per i movimenti si apre la stagione delle battaglie per il clima?

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Dalla politica non ci si deve aspettare niente. Una legge dello Stato, un accordo internazionale, non valgono più di un due a scopa se non c’è la volontà di applicarli. Non basta neppure la supposta buona fede di chi siede nella stanza dei bottoni. Tutto questo per spiegare che il raggiungimento del quorum di ratifica dell’accordo di Parigi, pur se va annoverata tre le “buone notizie” del giorno, non porta con sé assolutamente niente di definitivo o di vincolante. La partita del clima è ancora tutta da giocare.
In ogni caso, la ratifica degli accordi di Parigi, sancita ieri, martedì 4 ottobre, dall’Unione Europea, rimane comunque un fatto positivo. Ricordiamo infatti, che il documento di intenti varato da Cop21 sul mantenimento della temperatura entro i 2 gradi, per diventare operativo, implicava la successiva ratifica dei Governi di perlomeno 55 Paesi del mondo per una responsabilità complessiva del 55% delle emissioni climalteranti. Ieri, con la firma dell’Unione Europea il tetto è stato ampiamente raggiunto.
E qualcuno potrebbe anche stupirsi di come mai ci son voluti più di sette anni per ratificare il protocollo di Kyoto, mentre per Cop21 ne è bastato uno solo. Il perché di questa velocità, lo si spiega facilmente con due osservazioni. A dar la sveglia all’agenda politica dei nostri Governi, non è stata purtroppo la scienza - che da decenni mette in guardia dai pericoli conseguenti ai Cambiamenti Climatici - ma, ancora, il capitale.

Il primo punto da tenere in considerazione è che il futuro dell’economia, anche di quella che la Naomi Klein definisce “shock”, è solo e comunque green. Se Paesi come l’Olanda o la Svezia hanno già avviato l’iter per bonificare l’intero sistema di mobilità, sia pubblica che privata, vietare i motori a benzina e convertirli all’elettrico, non lo hanno fatto per amore dell’ambiente. O, perlomeno, non soltanto per amore dell’ambiente. I loro Governi si sono semplicemente resi conto che con il petrolio siamo agli sgoccioli. Gli ultimi giacimenti rimasti sono una delle prime cause delle guerre, delle devastazione e delle migrazioni forzate che affliggono la Terra. L’economia fondata sui fossili continua a combattere ma è già morta, pur se non se n’è ancora accorta (scusa Ariosto). Prima si sterza verso il green, e prima si arriva al traguardo dei Paesi che nel domani prossimo venturo potranno dire di contare nello scacchiere mondiale. E l’Italia? Stiamo ancora trivellando i nostri mari per non scontentare le multinazionali estere! All’appuntamento con la green economy del futuro, ci presenteremo con le classiche mutande del nonno.
La seconda osservazione è ancora più triste della prima. Dobbiamo ricordarci che nel piatto di Cop21 è stata rilanciata una posta di oltre 100 miliardi di dollari, da stanziare tra il 2020 al 2025, con i quali compensare le perdite dovute ai tagli di emissioni climalteranti ed incentivare le aziende verdi. Su chi dovrà gestire questi finanziamenti e con quali criteri (tanto per dirne una, si sono “dimenticati” di inserire la clausola del rispetto dei diritti umani per i Paesi che dovranno godere dei finanziamenti climatici) è la vera partita per la quale si sono scannati a Parigi. E questo spiega anche perché Paesi come l’India o la Cina, dove il concetto di “tutelare l’ambiente” non ha neppure una traduzione credibile, si sono affrettati a ratificare tutto ciò che c’era da ratificare pur di essere tra i primi a sedersi al tavolo dove verrà spartita la torta.
Ma, come dicevamo in apertura, la notizia che l’accordo di Parigi è diventato legge, sia pure non vincolante, né in Italia né altrove, rimane comunque una buona notizia. La politica, almeno stavolta, ha fatto quello che doveva fare e nei tempi previsti. Adesso la palla passa ai movimenti, alla cittadinanza attiva, alle associazioni. Perché la politica di più non può o non sa fare. Dovranno essere i cittadini a fare di Cop21 una bandiera, alzare la voce e pretendere che amministrazioni locali e Governi rispettino quegli accordi che loro stessi hanno ratificato. E dobbiamo aspettarci una battaglia dura, perché mai, nel dopoguerra, la democrazia è scesa a livelli così bassi come di questi tempi. E non è un caso. Perché la battaglia per il clima e la battaglia per la democrazia sono la stessa battaglia.
Cop21 ha ratificato che i fossili e l’economia che vi aveva capitalizzato sopra, stanno marciando dalla parte sbagliata delle storia dell’umanità. E, assieme a loro, tutto quel cieco fervore sviluppistico fatto di Mose, Tav, Grandi Opere, Grandi Navi, Ponti sullo Stretto, “Milioni di posti di lavoro” che hanno massacrato ambiente e democrazia negli ultimi 50 anni.
Il loro tempo sulla nostra Terra è finito. Dobbiamo solo farglielo capire.

Quella rapina a mano armata che chiamano TTIP

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Si scrive TTIP. Si legge “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, ma col "trade" e con la "partnership" non ci azzecca nulla. Nei media, l'acronimo viene comunemente tradotto con "trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti". Da cui si evince che, in questa storia brutta assai, anche il nome è sbagliato. Il TTIP infatti, non è un trattato sul commercio e sugli investimenti. E non perché lo scrivo io.
Lo ha sottolineato, tra gli altri, anche il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz in uno suo intervento al Parlamento italiano il giorno 24 settembre del 2014, che passerà alla storia per il totale disinteresse dimostrato dai nostri onorevoli. "Il TTIP non è un accordo di libero scambio, come vogliono farci credere - ha sottolineato il Nobel statunitense -. Un accordo simile potrebbe essere contenuto in tre pagine: noi eliminiamo le nostre barriere doganali e voi le vostre. Ma gli Usa non sono interessati ad un accordo di libero scambio. Gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio per favorire particolari interessi americano che non non sono neppure gli interessi dei cittadini americani. Ecco cosa è il TTIP. Questo è il motivo per il quale l'Ustr (United States Trade Representative, l'agenzia governativa che gestisce le trattative in materia.ndr) si è rifiutata di rivelare il testo dell'accordo anche ai membri del Congresso. Vogliono che i nostri e i vostri rappresentanti siano all'oscuro di quando contenuto nell'accordo. Figuriamoci i normali cittadini che non ne devono sapere assolutamente nulla".

La segretezza con la quale sono condotte le trattative su un piano economico che, nel bene e nel male, coinvolgerà oltre 820 milioni di persone tra cittadini europei e statunitensi, e alla fine dovrà essere ratificato da un parlamento europeo che, per ore, non ne sa assolutamente niente, è il primo punto che fa suonare una campanella d'allarme.
Nell'unico documento ufficiale diffuso dall'Ue si leggono obiettivi quanto meno superficiali e generici, tipo
«aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche..." e via discorrendo. Ma perché tanta segretezza allora? Tutti si spiega con le bozze di accordo, pubblicate e mai smentite dalla Ue, da settimanali come il tedesco Zeit o lo Huffington Post che hanno messo in evidenza come la direzione generale commercio della Commissione europea (l'unico "ministero" preposto alla trattativa con gli Usa) stia tramando - non trovo parola migliore - per portare avanti una liberalizzazione feroce che farebbe la felicità degli economisti della scuola di Chicago.
Il
TTIP punta infatti ad eliminare tutti i dazi sugli scambi bilaterali di prodotti, liberalizzare tutti i servizi e gli appalti, con conseguente perdita del lavoro per delocalizzazione in mercati più convenienti (e con meno diritti sociali e ambientali) e il decadimento delle norme a favore dell'imprenditoria locale in tema di forniture pubbliche,. Inoltre, il TTIP punta a tutelare i grandi investitori con l'introduzione dell'Isds (Investor to State Dispute Settlement) che consente ai finanzieri di citare in giudizio i Governi e, di fatto, assoggetta gli Stati nazionali ad un diritto tagliato apposta per le multinazionali.
Tra le altre conseguenze denunciate da pressoché tutte le associazioni europee di consumatori e di tutela dell'ambiente, sono state evidenziate una maggior dipendenza dal petrolio (Cop21 ci fa una pippa!), la mercificazione del territorio e dei beni comuni, un aumento dei rischi per la salute perché verrebbero meno tutte le garanzie ed i controlli sui farmaci e sugli alimenti.
Senza contare che per la frammentata agricoltura europea che oggi punta sulla qualità del prodotto, la scomparsa delle protezioni doganali sarebbe il colpo finale e le culture Ogm sarebbero invocate come la sola soluzione possibile per allineare il settore a quello d'oltre oceano.
In poche parole, il Ttip altro non è che una rapina a mano armata che spazzerebbe via le piccole e medie aziende europee a favore delle grandi multinazionali. E con loro, quello che resta di una democrazia rappresentativa che già adesso, in Italia come in Europa, non rappresenta più nessuno.

Una storia, questa dei trattati Usa per il "libero scambio", che sbarca in Europa dopo aver fatto piazza pulita dell'economia dell'America latina.
Le conseguenze di un simile accordo economico lo possiamo già vedere nell'odierno Messico dove, il primo gennaio 1994, gli Stati Uniti imposero il Nafta (
North American Free Trade Agreement) e la nazione centroamericana perse, con la sua indipendenza economica, anche la sua sovranità, consegnando il suo territorio alle multinazionali minerari e la sua democrazia alle multinazionali del narcotraffico.

Quel giorno, nel Chiapas, qualcuno disse che era ora di finirla. Occupò cinque città in armi e salì sul balcone del municipio di San Cristobal per gridare "Ya basta" ed annunciare al mondo intero che, se la scelta era tra morire combattendo o morire di fame, loro sarebbero morti combattendo.

Fin che la barca va, l'inquinamento aumenta

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Peggio di Pechino. Per quanto riguarda le polveri ultrasottili, le particelle con un diametro inferiore a 2,5 µm (un quarto di centesimo di millimetro), l'aria che si respira a Venezia è più pericolosa di quella che ammorba i cieli eternamente grigi della capitale cinese. Ad affermarlo è un esperto di inquinamento atmosferico del calibro di Axel Friedrich, già capo divisione del settore Ambiente e trasporti della Germania e uno dei fondatori dell'Icct, il consiglio internazionale per i trasporti puliti. Per quattro giorni, da venerdì 15 a lunedì 18 aprile, il dottor Alex e il suo staff hanno monitorato con le loro apparecchiature scientifiche l'aria di Venezia e i risultati, presentati oggi alla sede della Municipalità di San Lorenzo, sono davvero preoccupanti. L'iniziativa è stata organizzata dall'associazione Ambiente Venezia in collaborazione con la Nabu tedesca.
Sotto osservazione, in particolare, l'inquinamento atmosferico che deriva dal traffico navale e dal via vai di Grandi Navi al porto di Venezia. "Ho effettuato valutazioni dell'aria in tanti porti e tante città - ha dichiarato Axel Friedrich - ma un inquinamento simile non l'ho mai rilevato. In Italia, si continua a permettere alle navi di bruciare carburante di pessima qualità e di non adoperare i filtri antiparticolato con conseguenze tragiche per la salute di migliaia e migliaia di cittadini, per non parlare degli effetti nefasti sul clima, sull'ambiente e anche sui monumenti. I Paesi che si affacciano nel mare del Nord e nel mar Baltico, invece, hanno ottenuto per le loro acque il riconoscimento dell'area Seca (SOx Emission Control Area. ndr) migliorando notevolmente la qualità dell'aria".

In Italia le cose marciano diversamente, le lobby crocieristiche giocano al risparmio, e di filtri e di carburanti a basse emissioni non vogliono sentir parlare. Anche l'accordo Venice Blue Flag con il quale le compagnie si impegnavano ad abbattere la percentuale di zolfo nei carburanti utilizzati in entrata e in uscita del porto, lascia il tempo che trova, considerato che nessuno ha mai effettuato un serio controllo sulle emissioni e che gli stessi dati ottenuti dallo staff di Friedrich dimostrano tutto il contrario. Vedi i picchi registrati ogni qualvolta volta che una nave transitava per il canale della Giudecca.
Le modalità con le quali l'Arpav controlla le emissioni, infatti è uno dei punti focali delle critiche dello scienziato tedesco. Ad oggi c'è una sola centralina in tutta la laguna e sistemata, per di più, a Sacca Fisola. Cioè sottovento rispetto ai principali venti che soffiano a Venezia che sono quelli di bora. "Un posto perfetto per dimostrare che l'inquinamento non esiste. Se proprio vogliono usare una sola centralina dovrebbero sistemarla dove c'è più flusso di persone e dove batte di più l'inquinamento. A San Marco, per esempio. Là noi abbiamo rilevato i picchi più preoccupanti".
Da sottolineare che, pur se misurati con un arbitraggio... "casalingo", i dati raccolti dalle centraline Arpav in questi primi mesi dell'anno hanno ugualmente sforato i limiti di legge. E che in Italia si continua a morire di inquinamento lo afferma anche l'Unione Europea, che ha sanzionato il nostro Paese per mancanza di interventi a tutela della salute dei suoi cittadini. Secondo l'agenzia Ambiente europea, sarebbero oltre 50 mila in Italia le morti premature dovute agli inquinanti atmosferici.
Una situazione criminale nella quale Governo, Regione e Comune, a veri livelli, si guardano bene dall'intervenire preferendo continuare con la politica dello struzzo. Tanto per citare un esempio, da quest'anno la normativa rende obbligati i controlli delle polveri ultra sottili (proprio queste misurate dal dottor Friedrich) ma l'Arpav non è ancora stata dotata degli strumenti per effettuare un corretto monitoraggio. E stiamo parlando di apparecchiature che costano poche migliaia di euro.
Non ci sono soldi o non c'è la volontà politica di affrontare una situazione che imporrebbe scelte radicali e ben diverse da quella di continuare a far fare passerella in laguna alle Grandi Navi?
Ma sappiamo già da che parte pende la bilancia quanto il governatore Luca Zaia e il sindaco Gigio Brugnaro, mettono sul piatto la salute dei cittadini e gli interessi delle grandi lobby.
Fin che la barca va, lasciala andare.

Non solo il mare. Il petrolio inquina anche la politica e la democrazia

petrolio
Di Cop21 abbia già scritto in tante occasioni. Così come in tante occasioni abbiamo sottolineato l’ipocrisia di un premier come il nostro Matteo Renzi che dinanzi alla platea parigina si spertica in lodi sui progressi fatti dal nostro Paese verso una politica energetica basata sulle rinnovabili, salvo poi tornare a Roma per inserire nello Sblocca Italia tutti gli emendamenti volti a favorire gli amici petrolieri ed atti a consentire alle compagnie di trar profitto, inquinando, sin dentro ai parchi naturali, come quello del Pollino. Eppure, che il petrolio e le energie fossili non abbiano un futuro, è stato ampiamente ribadito alla conferenza sui cambiamenti climatici. Che l’economia debba abbandonare lo sfruttamento di risorse inquinanti e, per di più, in via di esaurimento è un impegno che tutti i Governi mondiali, sia pure con vari distinguo, si sono assunti. Compreso quello italiano che ora ci racconta che non serve andare a votare al referendum sulle trivelle e che il nostro futuro energetico è ancora basato sul petrolio.
Il problema sta tutto nel fatto che l’oro nero non inquina solo l’ambiente ma la stessa democrazia.

E’ appena il caso di ricordare come proprio il petrolio sia stato, ed è tutt’ora, un formidabile veicolo di corruzione in tutta la terra. Non ultimi, i Paesi del sud del mondo dove le briciole di bilancio di una qualsiasi compagnia petrolifera sono sufficienti per comperarsi l’intero Governo, con apparato burocratico in gentile omaggio.
Global Witness, una bene informata associazione internazionale che monitora i legami tra povertà, corruzione, violazione dei diritti umani e sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi meno industrializzati, ha identificato nel petrolio e, in generale, nelle risorse minerarie il settore di maggior rischio di corruzione. Su 427 casi “ufficiali” monitorati nel 2014, il 20% di questi è imputabile al settore estrattivo.
Un effetto dovuto alla sproporzione tra la debolezza economica del tessuto sociale del Paese sfruttato e i profitti miliardari delle compagnie, certo. Ma il petrolio è anche causa di questa sproporzione perché alimenta regimi corrotti e totalitari, fomenta sanguinose guerre e trova nella diseguaglianza e nelle ingiustizie sociali un fertile concime sul quale prosperare.

Pensiamo solo alla Nigeria dove il settore petrolifero rappresenta il 14,4 % del pil. Il recente scandalo che ha coinvolto l’Eni e alcune sue associate come la Saipen ha portato al sequestro di oltre 200 milioni di dollari in conti svizzeri di presunta corruzione per le concessioni di sfruttamento dei giacimenti marini.
Nell’interessante dossier di Legambiente “Sporco petrolio”, la situazione viene egregiamente riassunta con questa parole. “La corruzione è un micidiale strumento per aggirare leggi e processi democratici, per spostare ingenti risorse economiche in capo a pochi soggetti in grado di organizzare e gestire reti di corruttele e malaffare, per drenare a costi irrisori risorse pubbliche alle comunità locali, lasciando sul posto solo una lunga scia di problemi ambientali”.

E questo non vale solo per la Nigeria e per gli altri bacini del sud dove si estrae l’oro nero, come l’Amazzonia, ma anche per Paesi industrializzati come la nostra povera Italia. Anche solo considerando gli scandali petrolifici degli ultimi due anni, tra manager, funzionari pubblici e “amici di amici” sono stati indagati e, in alcuni casi, già condannati, ben 189 persone per reati che spaziano dall’inquinamento alla corruzione, dalle frodi fiscali alle truffe.
Il caso della Tempa Rossa è solo l’ultimo di un lungo elenco che, facciamo una facile previsione, è tutt’altro che concluso.

Il petrolio, in altre parole, potrebbe ben essere annoverato nell’elenco delle tante Grandi Opere che ammorbano il nostro Paese, pur se con una valenza più internazionale. Ogni tanto, la magistratura mette le manette a qualche alto dirigente e tutti a gridare allo scandalo della “male marcia” infiltrata - chissà come? - in un sistema produttivo che si continua a definire immacolato. Poi tutto continua come prima sino al prossimo scandalo.
Il punto della questione invece, sta nel fatto che il sistema petrolio continua a funzionare ed a macinare profitto privato solo se assieme all’oro nero produce anche corruzione, devastazione ambientale, disuguaglianza sociale, criminalità organizzata e impoverimento della democrazia. Senza queste situazioni a contorno, il gioco non vale la candela.
Solo in termini di emissioni di C02 - e senza considerare sversamenti eccezionali o anche i “normali” danni all’ambiente che sono impliciti nell’attività estrattiva e che i petrolieri non pagano mai -, un barile di petrolio ha un costo di circa 100 dollari. Se consideriamo che, pur tra altalenanti fluttuazioni, il prezzo del petrolio si aggira sui 30 dollari a barile, è chiaro che questa differenza o la paga lo Stato, oppure l’investitore gioca in perdita.
Una corruzione diffusa a tutti i livelli ed un controllo totalitario sull’opinione pubblica sono elementi senza i quali il sistema petrolio non potrebbe funzionare. A questo punto viene solo da chiedersi coma mai qualcuno si stupisca ancora che l’economia fossile è andata in crisi nera.
Quel che le trivelle estraggono dai giacimenti in fondo al mare, in altre parole, non devasta solo l’ambiente ma anche la nostra democrazia.

Non è un Paese per ambientalisti. Lo scandalo Tempa Rossa travolge la ministra per lo Sviluppo economico

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«La chiamo per darle la buona notizia, si ricorda che tempo fa c’è stato casino e che avevano ritirato un emendamento? Pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato... pare ci sia l’accordo con Boschi e compagni. È tutto sbloccato». Questa è la trascrizione della telefonata effettuata il 5 novembre 2014, dal petroliere Gianluca Gemelli, compagno della ministra per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, al dirigente della Total Giuseppe Cobianchi.
La “buona notizia” in questione è che il progetto Tempa Rossa, un inquinante impianto di estrazione a Corleto Perticara, in provincia di Potenza ed a ridosso dal parco nazionale dell’Appennino lucano, inizialmente stralciato dallo Sblocca Italia, era stato reinserito grazie alle pressioni della compagna ministra. Cinque minuti prima, la stessa ministra aveva telefonato al Gemelli, rassicurandolo sul suo progetto. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte”. La Maria Elena in questione, è la ministra con delega all’attuazione del Programma di Governo, Boschi. Altro personaggio che puntualmente sale alle cronache per le strette parentele finite sotto inchiesta, come nel recente caso di Banca Etruria.
L’emendamento è stato puntualmente approvato e ancora una volta il nostro Paese ha svenduto un suo pezzo di territorio pubblico ai petrolieri privati. Un “regalo”, per le sole aziende di Gianluca Gemelli di circa 2 milioni e mezzo di euro di subappalti.
Da sottolineare che il progetto è stato approvato qualche giorno prima che il nostro capo di Governo, Matteo Renzi, volasse a Parigi, davanti all’assemblea di Cop21, per raccontare quando brava fosse l’Italia ad investire sulle rinnovabili.


Stavolta però la pubblicazione dell’intercettazione che non lascia spazio ad equivoci, ha inguaiato la ministra che proprio ieri ha rassegnato le dimissioni. Dimissioni chieste dall’opposizione ma prontamente accettate anche dalla maggioranza. Va sottolineato che il solo a non voltarle le spalle è stato Silvio Berlusconi che per le intercettazioni, evidentemente, ha una idiosincrasia tutta sua, e non ha perso l’occasione di bollarle ancora una volta come “inaccettabili” in un Paese democratico.
C’è da dire che le intercettazioni sono solo l’aspetto più teatrale di una inchiesta sulla quale la Procura di Potenza sta indagando da quasi tre anni e che ha messo sotto inchiesta una sessantina di persone, tra ex sindaci, dirigenti dell’Eni e di altre aziende appaltatrici, dirigenti regionali e dipendenti pubblici. Oltre al già citato Gianluca Gemelli, proprietario di ben due società petrolifere, accusato di concorso in corruzione e millantato credito per aver promesso vantaggi agli imprenditori in cambio del suo rapporto col ministro.
Sotto sequestro preventivo, sono state posti gli impianti incriminati, bloccando l’attività in Val d’Agri dove si estraevano circa 75mila barili di petrolio al giorno.
Secondo gli inquirenti, i dirigenti dell’Eni, accusati di traffico e smaltimento illecito di rifiuti, sforavano volutamente il tetto di inquinamento imposto dalla normativa e inviavano dati “non corrispondenti al vero, parziali o diversi da quelli effettivi” agli enti di controllo. I rifiuti pericolosi inoltre, venivano trasformati in ordinari e smaltiti come tali con la complicità delle aziende appaltatrici con un guadagno valutabile, sempre secondo la magistratura, tra i 44 e i 110 milioni all’anno.
"Per risparmiare denaro si sono ridotti ad avvelenare il territorio con meccanismi truffaldini” ha sintetizzato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che in conferenza stampa ha restituito il quadro di un fitti intreccio di rapporti malavitosi tra petrolieri e politica, con la complicità delle strutture regionali di controllo.

Il tutto a pochi giorni dal referendum sulle attività estrattive in mare. Giustizia ad orologeria? Il procuratore Roberti nega decisamente: “Le richieste di misura cautelare sono state presentate tra agosto e novembre del 2015. Prima del referendum e in tempi non sospetti”. La pubblicazione delle intercettazioni ha comunque fatto arrabbiare Matteo Renzi che si è sperticato ad assicurare che lo scandalo della Tempa Rossa e le dimissioni del suo ministro non hanno nulla a che vedere con il Sì al referendum del 17 aprile.
La realtà è un’altra. Ancora una volta, le inchieste della magistratura non hanno fatto altro che confermare - pur con il consueto ritardo - le tesi degli ambientalisti secondo le quali il Governo Renzi si fa forte di uno strettissimo legame con le lobby petrolifere. Lobby che perseguono interessi propri, non di rado con metodi truffaldini per non dire mafiosi, inquinando il Paese e mercificando beni comuni.
Le dimissioni della ministra Guidi dimostrano che dietro l’attività estrattiva si celano interessi privati miliardari e non il semplice mantenimento dei posti di lavoro, come sostengono i fautori del No.
Come è stato per l’acqua, il referendum sulle trivelle ha una valenza politica che travalica il quesito sull’opportunità di rinnovare o no le concessioni estrattive a mare.
Il voto del 17 aprile sarà una occasione per ribadire al Governo che il futuro energetico che vogliamo per il nostro Paese è quello che la stessa Italia si è impegnata a costruire a Cop21. E non è quello che continua ad inseguire quei combustibili fossili tanto cari ai loro “amici” petrolieri.

Italia in stile gruviera. Il Governo apre la porta alle trivellazioni e rinnega Cop21

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Dimenticate Parigi. Dimenticate la Cop 21 e il documento conclusivo dell’assemblea delle nazioni che decreta la fine dell’epoca dei combustibili fossili. Dimenticate tutte le promesse di ministri e capi di governo di tutto il mondo. Dimenticate soprattutto, le sparate di Matteo Renzi che giurava di come l’Italia fosse pronta ad investire sulle rinnovabili. Dimenticate tutto questo.
Facciamo finta che i cambiamenti climatici siano il parto di un fecondo scrittore di fantascienza, che i combustibili fossili non siano in via di esaurimento e che l’inquinamento atmosferico sia l’ultimo dei problemi dall’umanità. Immaginate anche, se ci riuscite, che le emissioni di scarico siano un toccasana per la salute. Immergetevi in questo scenario idilliaco e converrete che la sola idea di trivellare mezza Italia per cavarne qualche goccia di petrolio è ugualmente - per dirla come ebbe a dirla Fantozzi della Corazzata Potëmkin - una cagata pazzesca.

I 114 permessi di ricerca ( 90 di terra e 24 di mare) e le 212 concessioni di estrazione di idrocarburi (143 di terra e le rimanenti 69 di mare) rilasciati dal ministero per lo Sviluppo economico con un provvedimento che - guarda caso! - portano date da ferie natalizie come il 24 e il 31 dicembre, sono una follia sotto tutti i punti di vista. Quello economico compreso. Lo ha messo bene in evidenza il verde Angelo Bonelli che ha fatto due conti alla concessione che il Governo ha assegnato alla Proceltic Italia, aggiudicatasi il lotto adiacente alle Tremiti per la modica cifra di 5 euro e 16 centesimi al metro quadrato. Come dire che la devastazione di un’area unica al mondo per la biodiversità, come quella che arricchisce queste isole, porterà nelle casse dello Stato la miseria di mille 928 euro e 3 centesimi (arrotondati per eccesso!) all’anno. Se questa non è follia…


In totale, le concessioni rilasciate dal nostro poco attento all’ambiente Governo, riguardano un’area che equivale pressapoco alla Campania e alla Lombardia messe insieme. In un Paese ricco di storie,di arte e, per quel che ne resta, di bellezze ambientali come l’Italia, pare superfluo sottolineare che le trivellazioni saranno per forza di cose adiacenti - quando non proprio sopra - aree di pregio.
Le isole Tremiti, Pantelleria, la costa della Sardegna, sono solo alcuni esempi che gridano vendetta al cielo. Per tacere del mare antistante Venezia, anch’esso finito nell’elenco delle aree “legalmente devastabili”. Ma la nostra laguna, oramai lo abbiamo imparato, è già diventata da tempo “carne di porco”. Proprio sui nostri lidi, quotidianamente massacrati dalle Grandi Navi, è stata avviata col Mose la prova generale di quella politica delle Grandi Opere - imposta a furia di leggi liberticide, prima ancora che devastanti, come la berlusconiana Legge Obiettivo e la renziana Sblocca Italia - che hanno cambiato volto al nostro Paese.
Nel prosieguo di questa politica che non dà futuro e nel mantenimento di una economia predatoria di ambiente e di democrazia, va interpretata la voglia del Governo di trasformare l’Italia in un gruviera.

Eppure… eppure esiste una differenza sostanziale tra le tante Grandi Opere che hanno massacrato la Penisola e queste disgraziatissime concessioni di idrocarburi. Le trivelle non hanno nessuna giustificazione.
Intendiamoci: neppure il Mose ne aveva una, neppure la Tav ce l’ha. Eppure, in questi casi, i sostenitori della shock economy, qualche motivazione che non fosse quella vera “dobbiamo pur finanziare le mafie, o no?”, riuscivano comunque a tirarla fuori. Salvare Venezia dalle acque alte, velocizzare il trasporto… Bugie, certo. Lo scrivevamo all’epoca, e tutti gli accadimenti successivi - non di rado giudiziari - ce lo hanno confermato. Ma erano comunque motivazioni sulle quali risultava difficile far ragionare una opinione pubblica mainstream stregata dai miti in stile Canale 5 dello “sviluppo” illimitato.
Con le trivelle invece, non ci sono argomentazioni a favore. Ci sono solo argomentazioni contrarie. Pure se, come abbiamo scritto in apertura non avessimo la testa sotto la mannaia dei cambiamenti climatici.
L’Italia non è una terra ricca di idrocarburi. Estrarli non è un affare per nessuno. Non lo è mai stato e non lo sarebbe neppure oggi se, per le aziende concessionarie, non fossero spuntati i soliti “aiutini miliardari” da parte dello Stato. E non ci raccontino che lo si fa per favorire l’occupazione o la “ripresa” (altro mito dei nostri giorni). La devastazione di intere aree che oggi campano di turismo, pesca o agricoltura porterà solo miseria culturale, povertà e ulteriore disoccupazione.
L’area critica del dissenso, stavolta, non è limitata ai “soliti” ambientalisti, a quelli che urlano No a tutto. Lo dimostra la radicale contrarietà con la quale non solo tutti i sindaci e le organizzazioni di categoria dei territori interessati, ma anche Regioni per le quali “ecologia” è un termine desueto, come il Veneto o la Lombardia, hanno accolto le aperture del Governo.

Ecco perché questa delle trivelle è una battaglia che possiamo vincere. Nessuna faccia di palta, nessun opinionista venduto, stavolta, potrà andare in televisione per giustificare una scelta che non ha giustificazioni e che, per di più, si lancia in direzione opposta agli accordi della Cop21 sul cambiamento climatico. Accordi sui quali il Governo si è formalmente impegnato.
E se non lo faranno i nostri ministri, dovranno essere i cittadini a farli rispettare.
Parigi non va dimenticata.

Parigi, il vertice è finito. Ora cominciamo a fare sul serio

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Si spengono i riflettori sulla Cop21. Il summit di Parigi è concluso e l’accordo firmato. Abbiamo salvato il mondo? No, naturalmente. Ma neppure ce lo aspettavamo. Non c’è, e non poteva starci dentro il documento conclusivo, la reale volontà dei Paesi industrializzati di avviarsi verso quella nuova forma di economia reale che, sola, potrebbe contenere l’aumento della temperature sotto i 2 gradi, ma che avrebbe come inevitabile conseguenza l’accantonamento di un sistema capitalistico predatorio ed una radicale destrutturazione verso il basso di quella che è attualmente la piramide del potere.
Alla fin fine, l’unica strada davvero risolutiva del problema clima, era quella prospettata dal signor Raoni Metuktire, cacique del popolo amazzonico kayopo, nel suo intervento davanti ai leader della terra: “Europei e nordamericani dovrebbero imparare a mangiare solo quello che producono sotto le loro case”.
L’avesse detto Obama, non sarebbe più potuto tornare negli States.
Come valutare allora l’accordo di Parigi? Non certo con lo stesso tono col quale lo ha promosso Laurent Fabius, presidente della Cop21: “Giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”. Ma neppure come lo ha liquidato al Guardian James Hansen, uno degli scienziati che per primi hanno denunciato il pericolo del cambiamento climatico. “Porsi l’obiettivo di stare sotto i 2 gradi con un piano di verifiche quinquennali per cercare di migliorare un po’ alla volta è una cosa ridicola, uno scherzo”. In conclusione, ha tagliato corto lo scienziato, l’accordo siglato a Parigi “It’s just a bullshit”. Frase che il traduttore di google fa finta di non capire ma che azzardo a tradurre con “E’ solo una stronzata”. (Se sbaglio correggetemi…)
Eppure, per quelli che, come noi, dal vertice francese si aspettavano poco o niente, va detto che qualcosa di buono è venuto fuori. E per “buono” intendo strumenti che potremo utilizzare nelle nostre battaglie ambientaliste.


Entriamo velocemente nei termini dell’accordo. L’articolo 2 fissa il limite massimo dei 2 gradi con l’obiettivo ideale di mantenersi entro il grado e mezzo. Il che significa, secondo i dati dell’Ipcc, tagliare le emissioni tra il 40 e il 70 per cento rispetto al 2010 entro il 2050. Tra il 70 e il 95 per cento, se puntiamo ad un aumento contenuto entro il grado e mezzo. Bene. Il problema è che per non scontentare petrolieri, multinazionali e governi, il testo non specifica come e dove. Tutto viene demandato alle Indc, le Intended Nationally Determined Contribution, cioè alle misure che ogni Stato intende volontariamente adottare.

Dal testo iniziale dell’accordo è stato stralciato tutto quanto poteva penalizzare le grandi corporation finanziarie. Desaparecido anche il concetto di decarbonizzazione, che implicava il completo abbandono di carburanti fossili, per fare spazio ad una ipotesi di “bilancio energetico” che non sta a significare niente se non che si continuerà ad usare il petrolio (fin che ce n’è, e fin che questo sarà economicamente vantaggioso). Anche i famosi 100 miliardi di dollari annui da stanziare per i Paesi non industrializzati sono solo fumo. Non è stato stabilito come, quando, con quali criteri e con quali vincoli saranno stanziati. Inoltre, questione non da poco, non è stato neppure precisato se stiamo parlando di finanziamenti a fondo perduto o… prestiti!
Conclusione: il testo finale partorito dalla Cop21 è debole, imperfetto, facilmente aggirabile, non vincolante né per i Governi né per le multinazionali. Prospetta e auspica un contenimento utopistico di 1,5 gradi ma non detta quei severissimi vincoli e quei drastici cambiamenti indispensabili di rotta per raggiungerlo. Come possedere la mappa del tesoro ma non sapere su quale isola andare a scavare.

Eppure… eppure questo accordo ha anche una lettura positiva. Quella di relegare definitivamente l’industrializzazione, così come l’abbiamo concepita sino a oggi, nei libri di storia del Novecento. A Parigi è stata chiusa l’era del petrolio e dei grandi consumi. Il futuro passerà per le rinnovabili.
Perché rispettare l’obiettivo dei 2 gradi, significa senza se e senza ma, tenere gas, petrolio e carbone là dove Madre Natura ce lo ha messo: sotto terra.
Questo è l’impegno che gli Stati, Italia compresa, hanno preso a Parigi. Un impegno che presto proveranno a disattendere facendo leva su tutte quelle deficienze del testo cui abbiamo accennato. Un impegno che sicuramente cercheranno di farci dimenticare con la scusa del terrorismo (che non a caso introita dal mercato del petrolio) o altre invenzioni.
Fateci caso. A poche ore dalla firma - fatta salva qualche rara eccezione - la Cop21 è già sparita dalle home dei siti di informazione e pochissimi quotidiani gli hanno dedicato la prima pagina. Tutti a sbavare su truculenti fatti di cronaca, a commentare fuffe bancarie o a sbavare su quella stramenata da infarto cosmico che è la Leopolda.

Toccherà ai movimenti sociali e ambientali, alle loro lotte, ricordare che c’è una emergenza clima e pretendere che Cop21 venga rispettato. Dopo Parigi, possiamo scriverlo senza tema di smentita: trivellare l’Adriatico va contro l’accordo sul clima che l’Italia ha sottoscritto. Questa è una verità che nessun politico, nessun amministratore, nessun petroliere, neppure un Salvini (tanto per dire la cosa peggiore che mi viene in mente), potrà negare. Questa è una verità sulla quale chi dice No ad Ombrina deve battere, ribattere ed ancorarsi senza far sconti a nessuno. Lo stesso lo possiamo ribadire per la Tav, le industrie cancerogene come l’Ilva, la Pedemontana e tutte le Grandi e devastanti Opere che hanno partorito crisi sociale, economica, ambientale e, adesso è ufficiale, anche climatica.
Pure le Grandi Navi, viste sotto i criteri dell’accordo parigino, navigano verso la parte sbagliata della storia. Fuori dalla laguna? No, fuori dal mondo le vogliamo!

Cop21. I limiti della conservazione di un sistema

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L'accordo perde pagine. Dalle 55 compilate nella riunione preliminare alla Cop21, siamo arrivati in prossimità del traguardo (il testo definitivo dovrebbe essere approvato entro domani a mezzogiorno, salvo ulteriori imprevisti) con solo 27 pagine. Il che non è necessariamente una buona notizia. Un certo “smagrimento” dell’accordo era necessario ed inevitabile. In fondo, il summit parigino è stato organizzato proprio per mettere d’accordo i tanti Governi su un testo condiviso capace di vincolare gli esecutivi a mantenere l’economia entro determinati binari di sostenibilità, o meglio di “non troppa devastazione”, climatica.
Il rischio è che l’accordo resti solo una bella carta di intenti senza nessun potere sanzionatorio e priva di qualsiasi capacità di incamminare il mondo lungo quella strada che rimane l’unica davvero in grado di salvare il pianeta, così come noi o conosciamo: ribaltare l’attuale “economia predatoria” in una economia slegata dalla finanza, a misura d’uomo e di ambiente.
Non è un caso che nessuno dei ministri presenti a Parigi metta in discussione l'articolo 2 de testo che fissa la soglia di aumento della temperatura "ben al di sotto dei 2 gradi”, possibilmente entro al soglia del grado e mezzo.
Il problema sta in tutti gli altri articoli che dovrebbero spiegare “come” rimanere entro questo limite!
Un po’ come impegnarsi a debellare la fame, la guerra e le ingiustizie sociali senza spiegare come, e, soprattutto, senza sognarsi di mettere in discussione l’ordine costituito. Un traguardo utopistico. Esattamente come molti commentatori hanno giudicato il limite del grado e mezzo auspicato dall’articolo 2.
Motivi del contendere, e del conseguente ritardo nell’approvazione del documento, è soprattutto la parte finanziaria. Ovvero come e quanto compensare i danni ambientali irreversibili che sono la causa delle migrazioni climatiche. Oppure, se preferite, quanto i Paesi ricchi devono dare ai Paesi poveri per poter continuare a comportarsi come si comportano adesso.

C’è anche da dire che molti Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” si sono avvicinati alla Cop21 solo con la mera intenzione di ottenere più finanziamenti possibile e vedono di traverso se questo denaro viene vincolato ad uno “sviluppo” diverso da quello che, ahimè, ammirano guardando verso i Paesi europei o nordamericani.
E che siano proprio coloro che hanno causato la crisi climatica (oltre che quella economica che le cammina a fianco) a salire sul pulpito per dare lezioni su come si deve fare economia pulita, è una cosa non prima di sarcastiche contraddizioni.
Dopo i finanziamenti, il secondo punto critico è quello delle sanzioni. Senza “multe” non c’è normativa che tenga. Tanto nella circolazione stradale, quanto negli accordi transnazionali. Non è un caso che la Cina, che se ne è stata buona a zitta per tutto il vertice, sia saltata come una tarantolata e abbia alzato barricate appena è stata prospettata l’ipotesi di una revisione sanzionatoria quinquennale dei risultati ottenuti nell’abbattimento delle emissioni e sul rispetto dei vincoli dell’accordo. Il che la dice tutta sulla volontà del Governo comunista cinese di spendersi a difesa del clima.
Ultima menzione al merito per il governo dell’Arabia Saudita. Gli emiri nutrono verso il clima lo stesso delicato sentimento che nutrono nei confronti delle donne, degli oppositori politici e dei diritti in generale. I portavoce del Regno saudita se ne sono usciti per tutto il vertice con affermazioni pubbliche atte a screditare come “nemica dell’ambiente” l’ipotesi di un azzeramento, anche a lungo termine, delle emissioni imputabile all’uso dei combustibili fossili.
Finanziare gli integralismi servirà anche a far alzare il prezzo del petrolio, ma non a farlo ricomparire nei pozzi che si stanno esaurendo. Non mancano troppi decenni che non ne avranno neppure per riempirsi il serbatoio della Rolls Royce.

Cop21. Il mondo non è project

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Che si possa saltare sul palco della Cop 21 e dar aria ai denti per dire qualsiasi sciocchezza ti passa per la testa, al di là di qualsiasi riscontro con la verità dei fatti, ce lo dimostra il nostro premier, Matteo Renzi, che si spertica a lodare quanto fatto in Italia per le energie alternative (siamo ultimi in Europa sul fotovoltaico ma in compenso ci sono ricchi incentivi per chi realizza inceneritori) ed elenca le “buone pratiche” di Enel ed Eni in Africa e Sudamerica (dove ho visto ettari di foresta amazzonica spianati per le loro ricerche petrolifere). Ma la Cop21 di Parigi non poteva che aprirsi così, come si apre una fiera delle buone intenzioni. “Sfida”, “cambiamento”, “svolte ecologiche” le parole più usate e abusate dai leader mondiali che si sono avvicendati nel palco, dopo la foto di rito in stile club vacanze “Salviamo la Terra”.
A starli a sentire, pare davvero che i cambiamenti climatici siano in cima alle loro preoccupazioni. Proprio come il terrorismo. Solo che i cambiamenti climatici non li puoi bombardare, e le soluzioni capaci di fermare il riscaldamento globale - le soluzioni vere, intendo - passano attraverso la realizzazione di una democrazia dal basso e di un cambiamento radicale del nostro modello di civiltà, non più basato sul consumo ma sui diritti, di cui sono loro il primo ostacolo. I leader mondiali riescono a contraddire se stessi anche solo passando da un microfono all’altro; da una conferenza stampa dove annunciano svolte green e quella dove spiegano la necessità di combattere il terrorismo distribuendo bombe e democrazia sui vari califfati. Senza considerare che guerre e bombardamenti sono tutto tranne che… eco compatibili! Oltre che morti, fame e povertà producono pure Co2 e finanziano una industria bellica che non gode certo del bollino verde!
Il problema è, che nessuno di quei politici che oggi sono lì “per decidere come salvare la terra”, per dirla col francese François Hollande, ha una aspettativa di vita (politica) superiore ai due o tre, massimo, mandati. Le decisioni che la storia li chiamerebbe a prendere risulterebbero decisamente impopolari ed in aperto contrasto con quegli stessi poteri forti che li hanno messi sulla poltrona. Nessuno di loro ha voglia, o levatura politica e culturale, di giocarsi le prossime elezioni sostenendo, al di là delle dichiarazioni di intenti, le battaglie necessarie a contenere la temperatura mondiale entro i 2 gradi entro anno 2070.

Alla fine dei conti, la strategia economica delle grandi potenze, fatto salvo qualche concessione alle Green Economy (finché il settore “tira”), non è poi così distante da quella dell’Isis, l’ultima reincarnazione del braccio violento del capitalismo: vendere e acquistare petrolio, fin che ce n’è. E se le riserve sono in scadenza… motivo di più per farne alzare il prezzo. Economico, politico e militare.
E qui ci sta tutto il divario tra chi gioca in borsa e chi no, tra i ricchi ed i poveri della terra, tra chi ha e chi non ha. I primi sono i principali responsabili delle emissioni che stanno massacrando tutto il vivente di questa terra. I secondi ne pagano le conseguenze e non hanno nessuna intenzione di fermarsi, senza adeguata contropartita, sulla strada per quel modello di “sviluppo” del quale abbiamo già visto gli effetto e che, loro credono o sperano, li porterà prima o poi ad entrare nel club dei ricchi.
Il problema è stabilire il prezzo. L’inquinamento è una merce come le altre. Questo è l’unico accordo che verrà siglato a Parigi: quanto i Paesi ricchi daranno ai Paesi poveri per poter continuare ad inquinare come prima. Perché nessuno del membri dell’esclusivo Vip Club, mette realmente in discussione lo stile di vita proprio e dei propri elettori.
Mettiamoci in testa che quello che sta passando per Parigi, non è l’ultimo treno per fermare i cambiamenti climatici. Quello è già partito venti o trent’anni fa e non è più passato per nessuna stazione. Oggi, la mutazione del clima è una realtà con la quale bisogna convivere. Il punto della questione è quanto salato sarà il conto e chi dovrà rimetterne le spese. E facciamo attenzione che il conto potrebbe essere così salata da rivelarsi insostenibile per l’intera civiltà umana, oltre che per tante altre specie animali e vegetali della terra. Siamo alla svolta: apocalisse o rivoluzione. E’ su questo treno che dobbiamo salire. Come ha affermato il presidente boliviano, Evo Morales, una delle poche voci fuori dal coro “aspetta e spera” dei leader mondiali, è la shock economy, l’economia che trasforma i disastri in capitale, e non il clima, che dobbiamo combattere. “Il capitalismo - spiega il presidente indigeno - provocherà la scomparsa della vita sul pianeta”.
A Parigi si cercano soluzioni, ma l’unica soluzione è quella di riscrivere il significato del concetto di “economia” allacciandolo a vincoli di sostenibilità e di giustizia. Perché, come sostiene Naomi Klein, la crisi climatica è anche una crisi morale. “Ogni volta che i governi dei paesi ricchi evitano di affrontare il problema, dimostrano che il nord del mondo sta mettendo i suoi bisogni e la sua sicurezza economica davanti alla sofferenza di alcuni dei popoli più vulnerabili della Terra”. Non è un caso quindi che a Parigi nessun microfono sia stato offerto e nessun palco abbia ospitato i portavoce di quei popoli che già subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici e che già hanno pagare le spese di un nuovo stile di vita: i migranti climatici. Loro - gli unici che avrebbero avuto tutte le carte in regola per spiegare perché è necessario costruire una diversa economia - non hanno avuto voce nei palchi parigino.
Chi ha provato a manifestare in nome loro, è stato picchiato ed arrestato. Come se fossero loro, gli ambientalisti, gli amici dei “terroristi islamici” e non piuttosto questa economia capitalista che alza il prezzo dei combustibili fossili proprio perché sono in esaurimento, invece di puntare a nuove energie rinnovabili e pulite ma che non danno gli stessi interessi in borsa.

L’Ordine dei Giornalisti apre la mostra Grandi Navi. Presidio degli ambientalisti e show di Brugnaro

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Il titolo è tutta retorica: “Danno o risorsa per Venezia?” La risposta è tutta in quelle 27 spettacolari gigantografie che raccontano in maniera inequivocabile il devastante impatto che queste speculazioni edilizia galleggianti chiamate“Grandi Navi” hanno nel delicato ecosistema lagunare. Non c’è storia, non c’è paragone e non c’è neppure spazio per il punto di domanda, tra le due posizioni, pro e contro, davanti a queste immagini che raccontano il quotidiano stupro di meganavi grandi cinque volte il Titanic forzate a passare in un ecosistema idrico a misura di gondola.
E d’altronde, guardando dietro l’obiettivo della reflex, chi voleva documentare il danno o la bruttura di una ingombrante presenza che non ha nulla a che vedere né con la storie né con la morfologia della laguna, ha giocato facile. E non me ne vogliano i bravissimi autori delle foto se scrivo questo. Intendo solo considerare che, volendo sostenere la tesi “pro grandi navi”, cosa c’era da immortalare? La faccia beota di qualche turista da comitiva a prezzo fisso che saluta dal ponte del condominio, pensando di viaggiare sul praho di Sandokan e che invece si ritrova su un centro commerciale galleggiante? Che è come farsi le vacanze all’Auchan?


No, no, hanno ragione i pro grandi navi a sostenere che la mostra, inaugurata questo pomeriggio nella sede dell’Ordine dei Giornalisti - e che là rimarrà sino al 16 ottobre - è tutta di parte. Proprio come dalla parte degli ambientalisti sta la verità sostanziale dei fatti. Possiamo discutere sulle possibili e ragionevoli soluzioni - tra le quali non c’è quella terrificante di scavare e distruggere ancora la laguna per farci passare ‘ste Love Boat da grande magazzino! - ma non sul fatto che le Grandi Navi siano mostruosamente brutte, inquinanti oltre ogni dire e omicide per l’ecosistema che sostiene Venezia. E taccio sul rischio di trovarcene prima o poi, una spampanata sulla basilica, come già successo a Genova e in altre parti d’Italia.

Certo, non si può pretendere, né sarebbe giusto pretendere, che l’Ordine dei Giornalisti del Veneto che ha ospitato la mostra realizzata dei reporter veneziani tra i quali Marco Secchi del collettivo Awakening, prenda posizione su un tema come questo. Va bene allora anche il punto di domanda retorico sul titolo. E va bene anche il comunicato diffuso dall’Ordine secondo il quale la mostra ha come obiettivo quello di “offrire ai veneziani e al mondo un panorama il più ampio possibile su una problematica di estrema complessità e delicatezza”.
Ma la vera spiegazione del perché l’esposizione sia stata organizzata dall’Ordine e proprio dentro i locali dell’Ordine sta tutta nella premessa del detto comunicato: “Dopo le polemiche innescate dalla decisione del sindaco di Venezia di sospendere la prevista mostra del fotografo Gianni Berengo Gardin…” In altre parole, i giornalisti veneziani hanno voluto rispondere ad un sindaco come il Brugnaro Luigi, abituato a comandare da padrone in Comune come nella sua azienda, tanto da mortificare assessori (uno dei quali si è già dimesso), dirigenti e consiglieri, che l’informazione non sta alle dipendenze di nessuno. Il sindaco del fare - e che nei suoi primi cento giorni ha fatto due delibere e una ordinanza, peggio del Milan in campionato - non può pretendere e permettersi di trattare i giornalisti come suoi dipendenti o suoi portavoce. Può trasformare le sue conferenze stampa in uno spettacolo di Carlo e Giorgio, ma non può chiedere ai giornalisti di fargli da spalla.

Che il Brugnaro Luigi sindaco abbia recepito il messaggio poi, è tutto da vedere. Di sicuro, il problema dell’indipendenza dell’informazione non è tra le sue priorità. “Con la maggioranza che ho, faccio quello che voglio” ripete sempre. E anche ieri ha regalato agli spettatori - un nutrito gruppo di No Grandi navi venuti ad assistere all’apertura della mostra - il suo show quotidiano. Ha accettato una bandiera No Grandi Navi, ha passato in rassegna le gigantografie commentando come fosse davanti ad una pizza Quattro Stagioni che “c’è chi le Grandi navi piacciono e c’è chi non piacciono. A me piacciono. Guarda qua che belle!” Inutile chiedergli come intende muoversi per tutelare la laguna perché altrimenti ti tira un pistolotto da 40 minuti in dialetto spiegandoti che lui è contrario alla teoria del gender, sia nelle scuole che nell’ambiente. Si è guardato bene dall’affrontare la questione dello scavo del Vittorio Emanuele ma ha dichiarato che “le grandi navi sono la storia di Venezia. Oh? Lo sapete o no che un ingegnere ci impiega 50 anni per costruirne una?” E poi, tra lo sconcerto generale, ha abbandonato la sala indirizzando ai presenti un’ultima appassionata esortazione: “Ma venite a Mestre che è più bella e si sta meglio che Venezia!”
Mah? Mestre no. Ma sto seriamente pensando a Reykjavík che ha per sindaco uno come Jón Kristinsson Gnarr. Il dubbio è che non sia abbastanza distante.

Inutile, devastante, costosissimo: ecco il Mose. La prova generale per il sistema di tangenti legato alle Grandi Opere. #CementoArricchito #Venezia

MostroMose
Tutto cominciò con la grande alluvione del ’66. In una sola giornata, la Venezia dei Dogi, la Serenissima Repubblica, la Dominante dei mari, apparve agli occhi del mondo per quello che effettivamente era: la città più fragile di questa terra. Quella stessa laguna che per secoli l’aveva cullata e protetta, adesso, devastata e stravolta dalle grandi manomissioni d’inizio secolo – come gli interramenti di Porto Marghera e lo scavo del canale dei Petroli – si era trasformata in una nemica mortale ed implacabile. L’antico patto tra l’uomo e il mare, che il Doge celebrava ogni anno gettando tra le onde un anello d’oro, era infranto.



Il progetto di una “linea Maginot” – come la definì il ministro Antonio Di Pietro (che evidentemente ignorava quele fine fece l’autentica linea Maginot) – di grandi dighe mobili per tenere a freno le ondate di marea in entrata e “risolvere definitivamente il problema dell’acqua alta”, nasce proprio dall’idea che la laguna sia un elemento da dominare e non più da tutelare, da artificializzare e non da riequilibrare.

L’impatto mediatico dell’acqua granda che il 4 novembre 1966 sommerse Venezia sotto quasi due metri di marea (194 cm) ebbe comunque un effetto positivo, perlomeno all’inizio. La salvaguardia della città fu dichiarata “di preminente interesse nazionale” e nacque la prima Legge Speciale per Venezia, n. 171 del 1973, che apri spazi per una gestione partecipata della tutela della laguna e riuscì a fermare il prosieguo degli interramenti industriali, che nel progetto iniziale, avrebbero dovuto arrivare quasi sino a Chioggia.
Ma proprio in questo spazio, pensato per la salvaguardia dell’ambiente lagunare, si fece largo il Mose. E lo fece con un iter che sarà poi ricalcato da tutte le Grandi Opere che successivamente assassineranno l’Italia sotto una coltre di cemento mafioso. Prima la dichiarazione di emergenza, poi la gestione affidata ad un unico soggetto, l’affidamento dei lavori senza gare d’appalto a ditte legate alla malavita organizzata, quindi la spaventosa lievitazione dei costi coperta da ricche tangenti elargite a 360 gradi.
Ma per intraprendere questa strada, la legge Speciale doveva essere riformata. A portare il Mose in laguna tocca alla seconda legge speciale, la 798 del 1984, col Bettino Craxi presidente del Consiglio, che affida la salvaguardia ad un committente unico: il Consorzio Venezia Nuova.

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Il Mose divenne un grande laboratorio su come dirottare vagonate di denaro dal pubblico al privato (non di rado, mafioso), comprando politici e giornalisti, devastando l’ambiente che doveva tutelare e mercificando la democrazia. Così, nella laguna dei Dogi venne sperimentato quel modus operandi che poi fu seguito da tutte le Grandi Opere, dalla Tav alle mega autostrade. Perché se si riesce a realizzare un progetto distruttivo ed irreversibile come questo in una città fragile e sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
Nel 1989, Il Consorzio avviò la stesura del progetto preliminare orientandosi subito verso il sistema più costoso ed impattante (il Mose ha avuto una sola Via e negativa, inoltre sono state aperte varie procedure di infrazione nei confronti dell’Italia dal’Unione Europea), senza curarsi di rispondere alle critiche e alle osservazione che il mondo scientifico gli muoveva, forte di una disponibilità di denaro praticamente illimitata e slegata da ogni controllo democratico.  Così, il Consorzio, padre e padrone del Mose e del suo sistema di tangenti, cominciò ad assorbire tutti i fondi destinato alla salvaguardia di Venezia, ed a trasformarsi in un bancomat per, quasi, tutti i partiti sia di Governo che di opposizione.

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I lavori conclusivi delle barriere furono avviati nel 2003, grazie anche alla Legge Obiettivo fortemente voluta dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con l’apertura dei cantieri alle tre bocche di porto.
Sin dall’inizio, le critiche degli ambientalisti si concentrarono su tre punti.
Il Mose non servirà a risolvere il problema dell’acqua alta, casomai lo peggiorerà aumentando la sezione dei canali di sbocco (e questo lo verificheremo solo vivendo)
il Mose devasterà la laguna (e puntualmente tutta la laguna sud si è trasformata in un braccio di mare aperto)
il Mose serve solo a chi lo fa. Ovvero: tutta la baracca altro non è che una gran macchina da tangenti e non ha altra ragione di esistere che questa.




A dimostrazione del terzo punto, su cui ci soffermeremo in questo articolo, sono stati sottolineati due fattori. 1) La continua proroga dei tempi: l’opera come presentata nel ’90 doveva essere terminata nel ’95. 2) L’esplosone dei costi: dai preventivati 3 mila e 200 miliardi di lire (avete letto bene, lire!) nell’89, il Consorzio ha “sforato” un tantinello, spendendo sino ad oggi 5 miliardi e 267 milioni di euro (sì, euro!). Ancora adesso non si sa bene quando le dighe saranno completate e quanto costeranno definitivamente (per non parlare dei  successivi e altissimi costi di manutenzione  e gestione che sono tutta un’altra storia).
Durante una delle ultime “inaugurazioni” l’ex ministro Maurizio Lupi, dimissionario in seguito allo scandalo delle Grandi Opere, ha pomposamente dichiarato che il Mose “sarà tassativamente ultimato nel 2016” e costerà attorno ai 6 miliardi di euro. Se voi volete crederci…
Chi proprio non gli ha voluto credere, tanto per dirne uno, è il presidente dell’’Anticorruzione, Raffaele Cantone, che ha dichiarato alla Nuova Venezia che i lavori certo non saranno finiti neppure per il giugno del 2017! In quanto ai costi finali, il magistrato ha preferito non esprimersi.
A dare sostanza – sia pur col senno del poi – alle tesi degli ambientalisti secondo i quali il Mose altro non è che una enorme tangente, ci ha pensato la magistratura quando ha cominciato a scoperchiare la Tangentopoli Veneta. Il  28 febbraio 2013, la procura di Venezia ha  spiccato un mandato di arresto per frode fiscale nei confronti di Piergiorgio Baita e di altri amministratori della società Mantovani, la dita incaricata di realizzare le paratoie mobili. La frode si basava su un sistema di false fatturazioni e di finte compravendite tra finte aziende canadesi e croate. Quattro mesi dopo, altre 14 persone finiscono in manette per la scoperta di un giro di fondi neri austriaci. Tra loro c’è Giovanni Mazzacurati, già presidente e direttore generale del Consorzio.
Ma la botta grossa arriva il 4 giugno 2014. La guardia di finanza, nelle prime ore del mattino, arresta 35 persone accusate di vari reati tra i quali corruzione, concussione e finanziamento illecito. Sono tutti nomi di spicco nel panorama politico ed imprenditoriale. Ci sono amministratori regionali come Renato Chisso, assessore alle Infrastrutture, e Giancarlo Galan, già presidente della Regione (che evita le manette in quanto deputato), il tesoriere del Pd veneto Giampiero Marchese, l’europarlamentare del PdL Lia Sartori, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, e tre deputati del Pd: l’ex Presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia, Michele Mognato e Sergio Reolon. Vengono fermati anche il vicecomandante nazionale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, e due Magistrati alle Acque, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta.
Il nome che desta più scalpore è comunque quello di Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, accusato di avere accettato un finanziamento illecito di 250 mila euro da parte del Consorzio durante la campagna per le primarie del centrosinistra, utilizzato per battere l’ambientalista (e no Mose) Gianfranco Bettin.
Lo scandalo portò alle dimissioni del sindaco e alla caduta della Giunta comunale, pur se gli altri amministratori risultavano estranei alla vicenda. Uguale sorte non seguì la Regione amministrata dal centro destra.



Un mese dopo, finiscono nei guai anche Marco Milanese, ex deputato PdL e braccio destro dell’allora ministro Giulio Tremonti, accusato di aver incassato una tangente di 500 mila euro dal Consorzio per far sbloccare al Cipe i finanziamenti necessari per il Mose, e Altiero Matteoli, già ministro dell’Ambiente e delle Infrastrutture e dei Trasporti con l’accusa di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri.
Intanto che le inchieste proseguono, il Mose continua ad avanzare, come quei tumori per i quali non c’è chemioterapia che tenga. Gli arresti hanno fatto gridare allo scandalo, alla necessità di liberare le amministrazioni dalle mele marce, alla desolante richiesta di un “nuovo” in politica che poi altro non è che la continuità gattopardesca del vecchio. Pochi sono coloro che hanno messo in dubbio la validità strutturale di un’opera che ha nel finanziamento illecito la sua sola ragione di esistenza. Una Grande Opera voluta solo dal partito trasversale degli affari sporchi e fatta avanzare con prepotenza, nonostante tutti i pareri negativi della comunità scientifica. Le barriere mobili, tra l’altro, non tengono conto dei nuovi parametri imposti dai cambiamenti climatici.
Nel migliore dei casi, il Mose sarà inutile.
Quella che, come il Vajont prima della catastrofe, è stata definita ‘l’orgoglio dell’ingegneria italiana” è un’opera nata sul binario sbagliato, partita male e proseguita peggio. Una soluzione rigida ed irreversibile in una laguna fluida e in continuo mutamento.
Le tangenti, a questo punto, sono solo la preoccupazione minore.


Campi e calli piene di gente. La Venezia ambientalista vince la sfida delle Grandi Navi

Tutti dietro alla bandiera del Leon Marciano. Questa è la Venezia dei veneziani. La Venezia che non la trovi in vendita in nessun negozio di souvenir. La Venezia che si è mobilitata per dire no alle Grandi Navi, no alle soluzioni peggiori del male, come lo scavo del Contorta, no ad altri stupri della laguna finalizzati solo a far fare cassa alle multinazionali delle Grandi Opere e alle mafie che ci mungono giù.
Tutte cose che gli ambientalisti dicevano sin dai tempi in cui si cominciò a parlare di quella macchina da tangenti che sarebbe stato il Mose. Tutte cose che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Non stupisce quindi la grande partecipazione alla mobilitazione che questo pomeriggio ha colorato la città lagunare da campo Santa Margherita a campo Sant'Angelo.
Nei campi e nelle calli si sono radunate più di quattromila persone. La testa del Corteo era alle Zattere che la coda usciva da campo Santa Margherita. Tutti dietro alla grande bandiera del Leon Marciano che apriva la sfilata. Tantissime bandiere No Grandi Navi, tante bandiere No Mose, tante bandiere di comitati come Opzione Zero e, in fondo al corteo - siamo pur sempre in campagna elettorale! - qualche timida bandiera di partito.

Sul palco allestito a Santo Stefano, microfono anche ai candidati sindaci. Tutti presenti, tutti pronti a far barricate, perlomeno a parole, contro il passaggio di questi aborti di Titanic, e contro uno scavo del Contorta bocciato a 360 gradi da scienziati, ambientalisti, economisti ma sul quale Paolo Costa rimane avvinghiato con la rabbia di un cane che difende il suo osso.
Tutti i candidati sindaci, abbiamo scritto. Intendevamo: tutti i candidati sindaci con un minimo di credibilità. Il candidato miliardario Luigi Brugnaro si è fatto la sua manifestazione personale in marittima a favore delle Grandi Navi, in concomitanza con quella degli ambientalisti,
Li ho visti. Una trentina di persone, per lo più sul libro paga delle compagnie di crociera, con un paio di lussuosi striscioni fatti stampare da aziende specializzate (a parecchi là in mezzo non mancano i soldi) e montati sui rimorchiatori di proprietà del Porto. Una cialtronata a dir poco.

Venezia stava tutta dall'altra parte. Stava con i negozianti che applaudivano il corteo al suo passaggio (e che sanno bene che il turista mordi e fuggi che si imbarca sulle grandi navi non è quello che passa per la sua bottega), la gente alle finestre che sventolava, in mancanza d'altro, la bandiera della pace o quella di San Marco. E uno svalvolato anche quella della Juve.

Applausi a scena aperta anche dai visitatori internazionali della Biennale. Oggi infatti è il giorno dell'apertura dell'esposizione. Dai padiglioni in festa, ho visto gli artisti ed i loro ospiti che festeggiavano l'inaugurazione delle installazioni, uscire per chiedere cosa stesse succedendo e, subito, manifestare solidarietà. All'estero, più che in Italia, ha fatto scandalo il passaggio di queste specie di speculazioni edilizia galleggianti in un fragilissimo ecosistema come quello lagunare. Un artista poi, non può che stare dalla parte della bellezza.
E bella come quella Venezia che vuole difendere, è stata la manifestazione di questo pomeriggio. Neppure il violento scroscio di pioggia finale è riuscito a rovinarla.

Altro non voglio aggiungere se non invitarvi a guardare le gallerie di foto o di video che stanno girando sui social. Ne vale la pena.

Una solo considerazione finale. Questo pomeriggio la Venezia vera, la Venezia della cittadinanza attiva, la Venezia che non si è mai prostituita alle mafie ed alle tangenti ha ribadito chiaramente che le Grandi Navi debbono stare fuori dalla laguna e che il Contorta non si devasta. La partita a questo punto non è più "Contorta sì" o "Contorta no", ma "chi deve esercitare la sovranità su un territorio". I cittadini, tramite le amministrazioni locali regolarmente elette e tenendo in giusta considerazione i pareri scientifici finalizzati alla tutela dell'ecosistema, o le lobby delle Grandi Opere con il solo obiettivo di macinare ambiente, lavoro e diritti per far cassa da finanziamenti pubblici.
Tutto quello che accadrà d'ora in avanti sarà una battaglia per la democrazia.

Venezia, la laguna, lo scempio

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La mobilitazione del 9 maggio passa per San Leonardo. Un salone riempita di gente, quello di ieri pomeriggio; come sempre quando si discute in città su un tema come quello delle Grandi Navi. Tante associazioni, tanti comitati ma anche tanti cittadini perché è oramai chiaro a tutti che quando si parla di Grandi Navi non si parla solo di Grandi Navi ma di gigantismo, tangenti, mafia, grandi opere, devastazioni ambientali, economia insostenibile, profitti per pochi e danni per molti, gestione malavitosa del territorio... In altre parole, di una democrazia che ancora non c'è.


L'occasione dell'incontro, organizzato dal comitato No Grandi Navi - Laguna Bene Comune, è stata la presentazione del libro bianco "Venezia, la laguna, il porto e il gigantismo navale", Moretti & Vitali editore, scritto da Gianni Fabbri e Giuseppe Tattara. Più che un libro, una testimonianza ricca di dati, statistiche e studi scientifici sul terrificante impatto che queste specie di speculazioni edilizie galleggianti hanno sulla nostra laguna. O su quel che ne resta.
Proprio il grande divario tra saperi, studi scientifici e la retorica vuota, e qualche volta anche becera, dei portavoce stipendiati dalle multinazionali crocieristiche è stato sottolineato nell'intervento di Francesco Vallerani, docente di Ca' Foscari. Vallerani ha parlato con metafore molto convincenti di come sia indispensabile "decostruire una visione cornucopiana delle economia" e passare "all'estetica dell'etica" per combattere "lo sfregio, più che il consumo del suolo. Perché da certe devastazioni non si torna più indietro se non con una nuova glaciazione".
L'incontro è stato presentato dall'ambientalista Luciano Mazzolin che ha ricordato quanto è stato fatto, sia in termini di raccolta firme che di esposti alla magistratura e ricorsi al Tar, dai No Grandi Navi. Soprattutto, di quanto rimanga ancora da fare per tenere questi condomini galleggianti fuori della laguna, considerato che la nuova stagione crocieristica è già cominciata e puntualmente sono cominciati gli incidenti e l'inquinamento. Come quel cimaiolo rotto della Neo Classica, Costa Crociere, che è si è fatta tutto il canal della Giudecca sputando fumo nero come una carboniera di due secoli fa.

Una inutile e controproducente caduta di stile, va segnalata, invece nella scelta del relatore che ha introdotto il dibattito. Tale Domenico Luciani della Fondazione Benetton (avete letto bene! Benetton!) che, prima di pontificare sulla "vocazione acquatica" di Venezia - pensate un po' che novità! - con un chilometrico intervento non sappiamo dire se più banale o inutile, potrebbe anche farsi qualche domanda sulle violenze assassine che i suoi padroni stanno perpetrando contro i mapuche della Patagonia oppure sullo stupro di un palazzo storico come il Fondaco dei Turchi, nel cuore di Rialto, per farne un centro commerciale. E tutta la gente in sala a domandarsi "ma chi l'ha invitato 'sto trombone qua?"
In attesa di una risposta, la parola è passata all'economista di Ca' Foscari Jan van der Berg. Citando proprio gli studi di Paolo Costa, che ha fatto le pulci al "turismo povero" portato dalla Grandi Navi. "Un turismo che porta benefici a pochissimi contro rilevanti danni alla collettività". Un bilancio negativo che nessun economista serio potrebbe prendere in considerazione ma che è comunque figlio della stessa economia "cornucopiana", la definirebbe Vallerani, che genera le Grandi Opere. E pure la crisi.

Chiusura per Gianni Fabbri, coautore del volume. Nel suo appassionato intervento ha spiegato come il progetto Contorta preveda non solo lo scavo di un nuovo canale ma anche la sua arginizzazione per contenere la spinta idrodinamica delle navi. Unica soluzione accettabile, afferma, è tenere le Grandi Navi fuori dalla laguna. "Questi sono dati scientifici che nessuno mette in discussione ma che una politica schiava dell'economia preferisce ignorare".

La politica è proprio il punto cardine della questione. Una politica che deve slegarsi da una economia in crisi per non finire essa stessa in crisi. Una politica che deve tornare nella mani della cittadinanza attiva. In questo senso, chiudiamo con l'appello di Marta Canino del laboratorio Morion per la manifestazione del 9 maggio. "Il comitato No Grandi Navi ha saputo darsi in questi tre anni autorevolezza, conoscenze ed indipendenza. Tutto questo lo ha posto al servizio della città. Gli scandali come quello del Mose e del Consorzio che sin dall'inizio abbiamo denunciato, ora sono venuti a galla ma il ricatto cui Venezia è sottoposta è sempre lo stesso. Eppure, tutto il dibattito politico sembra adagiarsi su chi sarà il futuro sindaco. La manifestazione del 9 è l'occasione per riprendere voce ed aprire spazi al di là degli schieramenti dei partiti per dire quale è la democrazia e la Venezia che vogliamo costruire".

Venezia è arcobaleno

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La Venezia partigiana, la Venezia arcobaleno, la Venezia che non ci sta a far passivamente da palcoscenico a rigurgiti neofascisti, si è raccolta tutta in campo Santa Margherita. E, come da programma, ha dato vita ad un pomeriggio di festa. E, sempre come da programma, ha smentito con i fatti quei terroristici titoloni dei quotidiani locali che paventavano scontri e calli blindate. Quella che si è svolta in campo Santa Margherita è stata solo una grande festa resistente, multiculturale e antirazzista. Una festa piena di canzoni, di interventi di comitati popolari e di associazioni, di rinfreschi, di giochi per grandi e per bimbi.
Questa è la Venezia popolare che, con una iniziativa messa in piedi in nemmeno una settimana, ha risposto alla manifestazione nazionale indetta dalla destra xenofoba di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini (che comunque ha disertato la sua annunciata presenza in laguna).
Con buona pace di tutti colleghi giornalisti che dalle pagine dei quotidiani locali hanno sparato a cinque colonne contro i “no global” che - lontani da qualsiasi logica di confronto democratico con i “democratici” razzisti - avrebbero alzato barricate pur di non lasciare il passo ai militanti di destra. E qui ci sta la prima riflessione. L’amore per il titolo ad effetto è un male della categoria. Un male incurabile, probabilmente. Ed a poco è valsa una recente lettera del presidente dell’Ordine, Gianluca Amadori, che ha invitato gli iscritti ad attenersi ai fatti e a lasciare a casa le iperboli.


Ma la passione per il titolone non può essere la sola spiegazione di quanto è stato scritto in questi giorni. Da parte di tanti organi di stampa è in atto un tentativo di delegittimare quanti fanno politica al di là degli schieramenti di partito. Tanto dai giornali di destra, quanto da quelli di centrosinistra, per tacere delle tv, si cerca di bollare con aggettivi quantomeno imprecisi e tendenzialmente caricati di violenza (come “antagonisti”, per fare un esempio) tutti quei soggetti che non si rassegnano ad inscatolare la loro voglia di partecipazione nelle urne elettorali e non vogliono ridurre la politica alle santissime primarie del centrosinistra.
Eccoli qua allora gli “antagonisti” di Santa Margherita: i ragazzi di Emergency che hanno raccontato dei loro ospedali in Afghanistan, i comitati ambientalisti che hanno denunciato il quotidiano stupro di Venezia per opera delle Grandi Navi, le donne palestinesi che hanno denunciato le continue violazioni dei diritti umani perpetrate dai soldati israeliani, i bambini che giocavano con la palla e che coloravamo per terra con gessetti biodegradabili.
Dall’altra parte del canale, in capo San Geremia, invece, andava in scena la “democrazia”. “Gente di partiti che hanno speculato sulla pelle dei migranti, che hanno rubato a man bassa dal nord al sud d’Italia nella maniera più vergognosa e che ora vengono qui a vomitare odio razziale per cercare di darci a bere che i ladri sono i migranti” si indigna dal palco Marta del Sale.
Dall’altra parte dell’arcobaleno, alla grande manifestazione nazionale della Meloni che la vedi ogni sera in tv su due canali contemporaneamente, non c’era neppure un migliaio di partecipanti. Per onestà, c’è da dire che ci sarebbero state due persone in più se non avessi imbarcato su un vaporetto per Torcello quei due sventurati che alle Fondamente Nuove mi hanno chiesto una indicazione per campo San Geremia. (Si son goduti comunque un bel week end sulle isole).
Sotto il palco della Meloni, tutte le sfaccettature del razzismo. Un “melting pot” di indipendentisti padani, scissionisti friulani e nazionalisti fascisti. Saluti al duce e cappelli vikinghi. “Roma capitale” e “Roma ladrona” confluite insieme per urlare slogan razzisti, così come insieme confluisce quella roba che ogni giorno scarichiamo nelle fogne. Facce tristi e scure. Musi incattiviti ed ingrugniti.
L’allegria stava tutta dall’altra parte del canale. Noi eravamo più molto più sorridenti. E anche più belli. E pure più sexy!
E, alla fin fine, ci siamo divertiti anche di più.

Piccolo bestiario del razzismo nostrano

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Tragico viaggio nella xenofobia dopo la piazzata contro i profughi al Lido
Ovvero, quando leggere i commenti sui social ti fa cascare le palle che non le tiri più su

Son sette giorni che spalo letame. Non quello buono, quello dove "crescono i fior". Mi è toccato spalare quello cattivo, quello che gira nei social quando si toccano temi come "profughi" e "accoglienza". Un merdaio di bugie, veleni e carognate che ti schifa anche solo farci il "copie e incolla", perché quando leggi certe infamate capisci che non riuscirai mai a guardare nel fondo nero dell'abisso dell'umana miseria senza che questo cerchi di specchiarsi dentro di te. E ti senti pure tu sporco dentro perché, alla fin fine, sai di appartenere allo stesso consesso umano.
L'ho fatto non per masochismo ma per contribuire ad un lavoro lanciato dalle ragazze e dai ragazzi di Tra Le Righe Project - seguitele su Facebook! -. Un neo nato gruppo universitario impegnato sui temi legati alla comunicazione e ai media. Concentrandosi, in particolare, sulla disinformazione, la strumentalizzazione mediatica e le sue conseguenze.
Dopo l’arrivo dei 37 profughi al Lido e alle contestazioni che ne sono seguite, Tra Le Righe ha monitorato i post razzisti e xenofobi che sono girati non solo tra le bacheche di tanti gruppi Fb, ma anche negli spazi dedicati ai commenti dei lettori nelle pagine on line dei quotidiani locali. L’obiettivo che il gruppo si è dato è quello di segnalare gli abusi al Collegio di Disciplina dell'Ordine dei Giornalisti del Veneto per quanto riguarda gli spazi giornalistici, e alla magistratura ordinaria per quanto concerne le istigazioni alla violenza xenofoba.
Perché il razzismo non è una opinione ma un reato.
Il materiale raccolto da Tra Le Righe, lo potete visionare prossimamente su queste pagine (se ne avrete il coraggio). Per quanto mi riguarda, solo per averle aiutate a spalare, ho sentito la necessità di disintossicarmi con un po' di ironia, che poi è la qualità che ci distingue dalle bestie. Mi sono accorto che tutti i post razzisti possono venir classificati in un numero limitato di categorie. Ne ho contate sette. Eccole qua. Ci si può giocare come con i segni zodiacali. Tu di che razzismo sei?



Il razzista disinformato
Studiare, leggere, informarsi… che fatica inutile! Il razzista disinformato ha troppo cose per la testa - troppe cose più serie - come il lavoro, la famiglia, il Milan che quest'anno fa proprio cagare, per trovare il tempo di leggere tutte quelle righe scritte sotto il titolone del quotidiano che spulcia quando fa colazione al Bar Sport. La totale disinformazione non solo lo stimola, ma anche lo favorisce nel filosofare su qualsivoglia questione che spazi dal cambio di allenatore del Portosummaga ai bosoni vettori intermedi, passando per la dubbia esistenza di dio sino all'accoglienza dei profughi. Su ogni tema lui ha la sua brava ricetta: facile, immediata, semplice da capire e da spiegare. Solo... completamente sbagliata. Una "perla" l'ho letta in calce ad un articolo della Nuova Venezia. In fondo alla pagina del sito web del quotidiano, vi trovate la finestra "Commenti dei lettori". Cliccate a vostro rischio e pericolo. Vi si aprirà un vero museo degli orrori come questo: "Dico io, se non volevano fare i clandestini perché han voluto salire sul barcone e non hanno preso un regolare volo di linea?" E sotto c'è pure chi gli dà ragione! Mi è venuta la tentazione di rispondere: "Per il brivido della traversata" ma ho lasciato perdere perché il razzista disinformato non conosce il significato della parola "sarcasmo" ed era capace di regalarmi qualche commento sugli sport estremi di cui è sicuramente appassionato.
Proprio del razzista disinformato è aver litigato con la grammatica da piccolo e di non averci mai fatto pace. Per risolvere i dubbi linguistici che incontra nei suoi post fa gran sfoggio di fantasia. "C'e n'e", "cè n'é", "cè ne è", "c'e nè"... Neanche il correttore automatico di Word è capace di mettere sull’On. Ma l'importante è capirsi, giusto?

Il razzista che proprio gli tocca di esserlo, poveretto!
Questo tipo di razzista è serenamente convinto che non sarebbe razzista se gli altri non fossero bestie assassine ed esseri biologicamente inferiori. Si vanta di essere l'unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno e di non cedere nulla al buonismo di regime che impera nell'attuale società. Che poi è una cosa che vede solo lui.
Il razzista suo malgrado ha la capacità di immaginare che certe sue affermazioni, del tipo "Lasciamoli in mare che è anche per il loro bene", potrebbero risultare antipatiche ai più, ma ciò non lo distoglie dalla sua santa missione di dire sempre la verità. Tutti i suoi post cominciano con una esortazione a leggerlo senza pregiudizi, superando i luoghi comuni per cui dovremmo sentirci obbligati "ad aiutare tutti. Tutti quelli che se lo meritano, casomai. Ma questi cosa hanno fatto per meritarselo?" Il suo ragionamento tocca sempre il tasto economico "quanto ci costa, in tempi di crisi, pagargli l'albergo a cinque stelle e regalare loro 79 euro al giorno?" (le cifre le spare sempre a caso, come si ricorda, per sentito dire). Il suo post finisce immancabilmente con l'identica domanda: "Sono razzista se affermo che bisognerebbe prima aiutare gli italiani poveri? Eh?" Sì che sei razzista. E pure stronzo.

Il razzista che non sa neanche di esserlo
Qui bisogna partire dalla triste e drammatica considerazione che nemmeno un Santo del Paradiso riuscirebbe a convincere il razzista che non sa di esserlo che in realtà è razzista. E pure tanto. Cito il Santo del Paradiso perché solitamente a questa categoria appartengono molti cattolici, di quelli che comprano il rosario di papa Francesco all'edicola. La sua principale considerazione sull'accoglienza è pressapoco questa: "Se proprio dobbiamo farli entrare tutti, non è meglio dare la precedenza ai cattolici che si adattano di più? Io non sono razzista ma i musulmani hanno una religione troppo violenta". A questa categoria senza speranza di redenzione appartengono tutti i "io non sono razzista ma..." che poi vanno di una sparata che ti fa girare lo stomaco. Il razzista che non sa di esserlo non è contrario all'accoglienza per principio. Solo che ci vuole sempre mettere un "ma". Una delle più divertenti (o tristi) che mi è toccato leggere è di una signora che plaude, "perché non se ne può fare a meno", l'accoglienza alla Morosini ma poi aggiunge "facciamoli lavorare però! E' sacrosanto insegnargli che il pane si guadagna col sudore della fronte!" Sant'iddio... questa è sinceramente convinta che nei barconi ci salgano tutti gli scansafatiche figli di lord che non hanno mai lavorato in vita loro e che siano sempre vissuti mantenuti dai genitori tra rose e fiori! Tocca spiegarle che, dopo la caccia alla volpe, lo sport che va più di moda tra i vip miliardari non è ancora la traversata del Mediterraneo in gommone.

Il razzista politico
E' una delle categorie più fetenti. Più il razzismo sale di livello sociale e più si copre di cinismo e ipocrisia. Il razzista politico apre bocca solo in virtù del suo tornaconto personale. Non ragiona di pancia ma con criteri legati al consenso elettorale. "Se dico questo - pensa - otterrò più voti e visibilità? Le mie dichiarazioni troveranno più spazio nei giornali? Mi chiameranno in tv?" Il resto è una conseguenza, con i giornalisti che ci cascano sempre e, invece di togliere il microfono a queste fogne, più le loro "sparate" sono becere e xenofobe, più le fanno rimbalzare.
C’è chi, tipo il Salvini, con la xenofobia e le provocazioni semplicemente ci campa. C’è chi fa il falegname, chi fa l’idraulico, lui va in tv a dire che bisogna affogare i profughi. Lui entra nella pagina Fb degli studenti universitari di arabo per esortarli con “Studiate l’italiano, invece che l’arabo!” Se la tira dietro, la sfilza di vaffanculo lunga come la bibbia. Come quelle spalle nei film di Stanlio e Olio messe là solo per ricevere la torta in faccia. E’ il suo mestiere. Lui ci mantiene la famiglia col razzismo.
Ma è un errore credere che il razzista politico sia solo a destra. Per meglio dire, è vero che tutta la destra italiota precipita sul razzistoide, ma non tutti i razzistoidi precipitano a destra. Per nostra sfortuna, ce n'è un bel mucchio anche nel centro sinistra, per tacere dei Grillini che continuano ad adopera il termine "clandestini" al posto di “profughi" come neanche Forza Nuova. Se è comunque vero che non campano mestieranti del razzismo come Salvini nel centro sinistra, è anche vero che le dichiarazioni di troppi suoi personaggi si salvano dal forcaiolese solo per cascare nell’idiozia (lo fanno apposta per non perdere consenso tra i "moderati"). Un bell'esempio ce lo offre, ahimè, la candidata alle prossime regionali Alessandra Moretti. "Va bene l'accoglimento dei profughi, ma solo nel rispetto delle nostre leggi". Qualcuno ha mai detto il contrario? "Chiederò che queste persone vengano identificate anche con le impronte digitali". Ma tu guarda... io pensavo che la polizia di frontiera regalasse a tutti un bel passaporto con su scritto "John Smith"! Con queste uscite, non si può certo affermare che la candidata del Pd sia razzista. E ci mancherebbe. Ma qualcuno dovrebbe spiegarle che la testa non serve solo per portarla dal parrucchiere due volte alla settimana.

Il razzista Nimby
"Non nel mio cortile" è una patologia alquanto diffusa in tutte le buone famiglie, non ultima quella dei comitati ambientalisti. “No alla discarica a Portella di Sopra” significa spesso: “Fatela a Portella di Sotto sennò mi rompete le balle con la raccolta differenziata”. La scienza purtroppo non ha ancora trovato una cura. Essenzialmente, il razzista Nimby se ne strafrega fottutamente di qualsiasi cosa accada a più di cento metri dal suo tratto casa-lavoro. "Se vogliono ospitarli, perché proprio al Lido che già ci abbiamo i nostri problemi?" Se tu hai i tuoi problemi al Lido, pensa un po' a quelli che ci avevano loro in patria. Oppure: "Nessuno ci ha detto niente, nessuno ci ha avvisato". Il fatto che la notizia giri da settimane in tutti i quotidiani non vale per il razzista Nimby che vuole essere sempre interpellato di persona dal presidente della Repubblica. La soluzione che propone alla fine del discorso è sempre questa: "Perché quelli del centro sociale i clandestini non se li tengono a casa loro?" ma vale solo se la dimora del razzista Nimby dista a più di cento metri dal centro sociale in questione. Il fatto che giri un mondo anche oltre il cortile di casa sua, al razzista Nimby interessa solo perché ogni sera se lo trova davanti in televisione. "Ma guarda te tutti quei disgraziati su quei barconi... perché qualcuno non fa qualcosa?" Prima che li portino qua, si intende.

Il razzista complottardo
Unico tra la fauna razzista, il razzista complottardo adora informarsi. Legge e rilegge quotidiani e riviste, bazzica decine di forum, clicca su pagine e pagine di blog e siti. Uno più balordo dell'altro. Poi se ne esce con verità del tipo: "Questi clandestini sono tutti dell'Isis. Lo ha detto anche la Bbc che però poi hanno cancellato il servizio perché non vogliono che la gente lo sappia. Vengono con i barconi per poi farsi esplodere nelle nostre scuole". Sull'islam ha le sue brave teorie che stanno tutte a destra di Magdi Cristiano Allam. Solitamente vota Grillo ed è convinto che le guerre in Medio Oriente le facciano scoppiare apposta, così che la "ggente" non si accorge delle scie chimiche che le sparano apposta per cambiare il clima e farci il lavaggio del cervello. Col razzista complottardo c'è ben poco da discutere. Se obietti ad una sua sacrosanta considerazione sei in malafede e pagato profumatamente dal Nuovo Ordine Mondiale. Lo dimostra lo stesso fatto che obietti ad una sua sacrosanta considerazione.
Ma adesso consentitemi una supplica tutta personale: se c'è qualcuno del Nuovo Ordine Mondiale che mi legge e che paga, anche non profumatamente... io son qui, eh?

Il razzista infame
Qui non c'è ironia che tenga. Solo schifo. Come si può giustificare una "opinione" del tipo "Bruciateli vivi tutti"? Non riesco neppure a scherzarci su. Il razzista infame urla rabbia usando dozzine di punti esclamativi, il maiuscolo sempre inserito, frasi volutamente irrazionali riempite di odio e ferocia. Scrive per far male, stimolare reazioni violente e se la gode se trova qualcuno che gli dà corda. Possiamo pensare a persone sole e malate mentalmente. Ma questo non scagiona i giornali che danno spazio a queste sparate, pure confinandole negli spazi dei commenti. Il direttore, per legge, è comunque responsabile di tutto quanto viene scritto nella sua testata. I commenti infami debbono venire immediatamente bannati, anche se fanno “audience”, anche se la colonnina di pubblicità a ridosso guadagna un sacco di click. La deontologia non è un optional per un giornalista. E neppure il rispetto della legge. Come abbiamo scritto in apertura: il razzismo non è una opinione ma un reato che non ha diritto di cittadinanza.

Naomi Klein: la rivoluzione che ci salverà parte parte da noi

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Diamoci da fare. La conclusioni che l'autrice di No Logo tira al termine dell'incontro svoltosi nella serata di oggi all'auditorium di Santa Margherita, potrebbero essere condensate in queste tre parole. Diamoci tutti quanti da fare perché il mutamento del clima è oramai una verità accettata da tutti gli scienziati. Un cambiamento ci sarà. E sarà un cambiamento inevitabile perché il modello economico imposto dal capitalismo non è più sostenibile dalle risorse di cui dispone la terra. Eppure, nonostante sia ancora il sistema neoliberista a dettare i paradigmi sui quali corre l'informazione dominante, la consapevolezza che questa crisi non sia come ce la raccontano le banche si sta facendo strada tra la gente. Lo dimostra il successo di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia. E in Italia? "In Italia - scherza Naomi Klein - avete l'Expo sponsorizzato dalla Coca Cola".



L'incontro organizzato dall'associazione In Comune in collaborazione con Ca' Foscari e la Rizzoli Libri è stato un successo annunciato, considerato che questa veneziana è stata una delle tre sole tappe che la scrittrice canadese ha tenuto nel nostro Paese per presentare il suo ultimo libro "Una rivoluzione ci salverà", sottotitolo "Perché il capitalismo non è più sostenibile". Tutti 237 posti a sedere occupati, tanta gente, giovani soprattutto, in piedi o seduta per terra. Tanti altri fuori a masticare delusione perché, per ragioni di sicurezza, i responsabili della sala sono stati costretti a chiudere le porte.

Ad introdurre il dibattito, dopo l'inevitabile rito dei saluti del magnifico rettore, Michele Bugliesi, è stato il politologo Beppe Caccia, che ha ricordato come proprio la nostra città sia particolarmente toccata dai cambiamenti climatici e come tutti i veneziani, sulla loro pelle, hanno vissuto la storiaccia brutta del Mose. La grande opere salvifica che alla fin fine ha dirottato i fondi per la salvaguardia nel baratro della corruzione e della devastazione ambientale.

La Klein ha cominciato il suo intervento proprio da questa suggestione, ricordando come proprio a Venezia, una quindicina di anni or sono, venuta a presentare il suo libro "No Logo", abbia sentito per la prima volta la parola "precarietà" dagli attivisti dei centri sociali. "Un termine che oggi potrebbe essere esteso a tutto il mondo - ha sottolineato -. Il fatto è che non esistono risposte non radicali al problemi che ci pone l'ambiente. La scienza ci dice che entro i prossimi anni la temperatura crescerà di un valore tra i quattro e i cinque gradi. Questo cambiamento può forse essere evitato ma solo con una altro cambiamento radicale che investa la società, la cultura la produzione. Non illudiamoci che il neo liberalismo posso affrontare questo problema perché la sua agenda va in direzione completamente diversa. Un programma finalizzato al taglio delle emissioni è improponibile semplicemente perché il loro progetto è di aumentare le emissioni".

Il compito di stimolare Naomi Klein, è toccato all'ambientalista Gianfranco Bettin. L'incontro poi si è chiuso gli interventi del pubblico coordinati dal docente Duccio Basosi. Ma è proprio Bettin a buttare benzina sul fuoco sottolineando come, nel libro della Klein, vengano mosse pesanti critiche anche un certo ambientalismo non radicale ed alle sinistre di governo che, pur con sensibilità ben diverse rispetto alle destre, continuano a non mettere l'ambiente al primo posto delle loro agende, perseverando, alle fin fine, nel sostenere una politica neo liberista che, allo stato attuale delle cose, non può più essere riformata. Un esempio è stata l'Unione Sovietica con il suo capitalismo di Stato che ha devastato tutto il devastabile ed oltre. Oppure la Cina di Mao con la sua dottrina di "guerra alla natura" in nome della quale, tra le altre cose, ha cercato di sterminare tutti i passeri del continente. Un altro esempio sono le democrazie di sinistra dell'America latina: il Brasile, l'Ecuador, il Venezuela di Chavez. Paesi che, pur con atteggiamento diverso rispetto alle dittature, hanno comunque continuato l'attività estrattiva del greggio a spese dei popoli indigeni che dalla foresta ricavavano sostentamento.

"I cambiamenti climatici - ha risposto la scrittrice canadese - pongono in discussione tutte la nostra civiltà, dalla nascita della società industriale, quando si vendevano le macchine a vapore sostenendo che con questa avremmo sconfitto la natura, ad oggi dove il capitalismo è addirittura capace di proporsi come unica via di uscita ai danni che egli stesso ha causato. I cambiamenti climatici, in fondo, altro non sono che una risposta a scoppio ritardato a questo atteggiamento di scontro che l'uomo ha avuto nei confronti della natura. Come se ne esce? Con una sorta di, come l'ho chiamato, nuovo Piano Marshall. Non aspettiamoci che siano i Governi a farlo per noi. Neppure i Governi di sinistra. E' il momento di scendere in piazza e non solo per bloccare le grandi opere devastanti ma anche per proporre con forza progetti alternativi, cosa che non sempre siamo stati capaci di fare. Progetti che siano allo stesso tempo credibili, entusiasmanti e coinvolgenti. Perché il capitalismo è bravo a smuovere le acque della paura. Ma l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è che sia il capitalismo a governare i cambiamenti che, inevitabilmente, stanno arrivando".
Diamoci da fare, dunque.

All'Ilva arriva la "soluzione Alitalia": privatizzare i profitti e statalizzare le perdite

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Si è preso pure il plauso della Cgil, il presidente del consiglio Matteo Renzi quando ha annunciato, in una intervista a Repubblica, di voler "nazionalizzare" l'Ilva di Taranto. "Da lungo tempo diciamo che la siderurgia è un settore strategico per il nostro Paese - ha dichiarato la segretaria sindacale Susanna Camusso-. Non si può perderla, e questa è un'ottima ragione per prevedere un intervento pubblico".
Una "corrispondenza d'amorosi sensi" quantomeno singolare, considerato che di questi tempi Governo e Cgil si guardano come cane e gatto. Ma sul tema del mantenimento nel Golfo di una industria che, più che inquinante, è corretto definire assassina, si sono trovati completamente d'accordo.
Su come arrivare a questo risultato invece, le strade si dividono. "Non facciamone un'altra Alitalia" avverte la Camusso. Una soluzione che però andrebbe incontro ai possibili acquirenti perché, in definitiva, la formula è sempre quella "privatizzare i profitti, statalizzare le perdite". A sentire odore di fregatura è anche il leader della Fiom, Maurizio Landini che sottolinea come serva "un'operazione vera di politica industriale. Non si può pensare di scaricare ancora i debiti di una società su tutta la collettività per regalare agli stranieri di turno un' impresa strategica".



Ma è proprio al modello Alitalia che Renzi sta pensando per rendere appetibile ai grandi gruppi industriali stranieri, su tutti il colosso dell'acciaio Arcelor Mittal, lo stabilimento tarantino che dà lavoro, diretto o indiretto, a circa 20 mila operai,
In poche parole, l'idea sulla quale sta lavorando Renzi è di modificare ad hoc la legge Marzano, che adesso consente di imporre una amministrazione straordinaria solo alle aziende insolventi, e "commissariare" l'Ilva che ora appartiene quasi interamente alla famiglia Riva. A questo, punto, in virtù dei poteri straordinari del commissario, l'azienda sarebbe smembrata in due: una "bad company" che si farebbe carico di debiti e strascichi giudiziari, e nuova società ripulita per bene grazia agli investimenti della Cassa Depositi e Prestiti da mettere immediatamente sul mercato in nome di quei principi di privatizzazione che Renzi non tradisce neppure quando parla prima di "nazionalizzare".
Un'altra Alitalia, insomma. In Francia e in Germania, l'industria pubblica esiste e prospera. In Italia, una Ilva pubblica non è neppure pensabile se non per lo stretto necessario a risanarne, a spese nostre, perdite e danni, in vista di farne omaggio a qualche potentato economico. "Eppure - conclude Landini - anche la nostra Costituzione prevede l'intervento pubblico nell'economia. La verità è che non se ne esce fuori senza una vera strategia di politica industriale". Cosa che questo Governo, come i precedenti, certo non ha.

Contrario alla soluzione "Alitalia", anche Angelo Bonelli, portavoce del comitato Taranto Respira. "Significherebbe lasciare la città a convivere con i veleni senza che nessuno paghi per i danni subiti dalla popolazione. Una 'bad company' violerebbe la direttiva comunitaria sul principio chi inquina paga e non sarebbe etico nei confronti della popolazione tarantina che aspetta di vedere il suo territorio bonificato dai veleni e di avere il giusto risarcimento per i gravi danni subiti".

Parallelamente, la vicenda Ilva continua a trascinarsi nelle aule giudiziarie. Il sistema tumorale creatosi attorno all'acciaieria avvelenava l'ambiente come la politica. Oltre a quelle del governatore Niki Vendola e di tre componenti della famiglia Riva, sono in corso una 50ina di rinvii a giudizio per accuse che spaziano dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. I sei "decreti Ilva" varati dagli ultimi Governi non hanno ottenuto altro che sommare disastri a disastri.
Intanto, la gente a Taranto continua a morire avvelenata.

Eternit. Tremila morti e nessun colpevole

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Tremila morti e nessun colpevole. La sentenza della Cassazione sul caso Eternit è una vigliaccata bella e buona. Né più né meno di quella d’appello su Stefano Cucchi. Tutti omicidi coperti dallo Stato. Ieri mattina, con sentenza definitiva, la Corte ha assolto l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, precedentemente condannato a 18 anni per disastro ambientale. Come conseguenza sono state annullate tutte le richieste di risarcimento dei familiari delle vittime che ammontavano a 90 milioni di euro. Tutto annullato perché il reato è caduto in prescrizione. E non perché il magnate svizzero non sia colpevole dei reati imputatigli. Lo ha confermato lo stesso Francesco Iacovelli, il procuratore della Corte Suprema che ha firmato la sentenza. “Stephan Schmidheiny è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte - ha sottolineato - ma tra diritto e giustizia il giudice deve sempre scegliere il diritto, anche quando vanno su strade opposte”. Una ulteriore conferma, proprio come nel caso Cucchi, che giustizia e tribunali non sono parenti neppure alla lontana.
E intanto, gli operai continuano a morire.



L’industria Eternit per la lavorazione dell’amianto, era arrivata in Italia nel 1906 con quattro stabilimenti, a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e, il più importante, a Casale Monferrato. Chi andò a lavorare in quei capannoni di morte, imparò ben presto a chiamare la merda che gli toccava respirare la “malapolvere”. La scienza ci mise qualche decennio in più per arrivare alla stessa conclusione. Già negli anni ’30 però, alcuni studi medici pioneristici dimostrarono che la lavorazione dell’amianto causava un fortissimo incremento di patologie tumorali.
La prima nazione a prevedere condotti di sfogo nei capannoni per facilitare l’areazione fu l’Inghilterra. Successivamente, negli anni ’40, la Germania per prima riconobbe che l’inalazione di particelle di asbesto causavano il cancro al polmone. Ma mentre studi scientifici sempre più accurati dimostravano una indiscutibile correlazione tra l’amianto e i tumori, la grande industria faceva pressione nelle redazioni dei giornali, comprava politici e sindacalisti, e diffondeva rassicuranti comunicati nei quali si negava tutto. Anche e soprattutto l’evidenza.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Negli anni ’50 però nessuno però poteva più sostenere che l’amianto non fosse pericoloso per la salute anche se, in Italia, bisognerà attendere il ’92 perché ne fosse vietato l’uso. Ci sono voluti quarant’anni di omicidi bianchi. Quarant’anni di bugie. Quelle degli industriale certo, ma anche quelle altrettanto sporche di quelle “coscienze in prestito” che altro non sono i loro avvocati. Quelle di tanti “scienziati” che si sono fatti pagare per confutare tesi abbondantemente dimostrate, e pure quelle di qualche sindacalista preoccupato di non far chiudere la fabbrica che, alla fin fine, “dà pane a tante famiglie”. Tutti quanti a sostenere in coro che l’amianto non causava danni alla salute. Tutti a mentire spudoratamente.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Alla fine degli anni ’50, per l’Eternit cominciò una inesorabile crisi che portò alla chiusura definitiva dell’ultimo stabilimento di Casale nell’86.
La causa penale però, era già cominciata 10 anni prima su iniziativa di circa 6mila parenti di operai morti d’amianto che accusavano Schmidheiny e il suo socio, un nobile belga ultranovantenne dal nome altisonante di Louis De Cartier De Marchienne che ha pensato bene di rendere l’anima al diavolo nel 2013, giusto per vedersi condannare dalla Corte d’Appello a 18 anni.

Poi, è tutta storia di ieri. La sentenza della Cassazione ha ribaltato il verdetto, assolvendo l’imputato rimasto per prescrizione del reato.
Come sia possibile che tremila morti ammazzati possano essere considerati un “reato soggetto a prescrizione” è una anomalia tutta italiana. Proprio così. Il fatto è che il disastro ambientale, in Italia e solo in Italia, non è considerato un reato grave, ma viene annoverato tra quelli di natura contravvenzionale. Un disegno di legge che integra i reati contro l’ambiente nel codice penale è stato recentemente votato dalla Camera ma si è perso da qualche parte negli scaffali della commissioni Ambiente e Giustizia del Senato. E intanto i reati cadono in prescrizione e chi avvelena e distrugge paga, se gli va male, una multa neppure salata. E spesso, come nel caso dell’Eternit, neppure quella.
Come è stata accolta la sentenza sull’Eternit? Come è prevedibile, con infinita rabbia dai parenti delle vittime di ieri e dei malati di oggi, perché a Casale l’amianto non ha ancora finito di uccidere. Le lacrime di dolore si sono mescolate alle lacrime di rabbia per l’ingiustizia sofferta.
Come un inno alla giustizia dai legali di Schmidheiny che, dalla sua villa di Zurigo, che non ha perso l’occasione di ribadire che “l’amianto è inoffensivo”.
E intanto, gli operai continuano a morire.

“El mostro”. Un progetto per raccontare la storia di Gabriele Bortolozzo

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Non solo un film d’animazione. “El mostro” è molto di più. Un progetto dal basso innanzitutto. Un progetto che ha appena mosso i primi passi attivando un crowdfounding sulla piattaforma Eppela per raggiungere i primi 5 mila euro necessari a cominciare i lavori. L’obiettivo è quello di raccontare “a chi ne ha perso la memoria”, come si legge nel sottotitolo, la storia di Gabriele Bortolozzo. E raccontarla con un linguaggio nuovo come quello dell’animazione che ha il magico potere di “creare un immaginario e scavalcare le generazioni” come ha sottolineato Gianfranco Bettin, intervenuto ieri pomeriggio al municipio di Marghera all’incontro di presentazione dell’iniziativa. “Gabriele è stato il primo che dall’interno della fabbrica ha trovato il coraggio di denunciare la nocività della lavorazione e a superare il ricatto di chi offriva lavoro in cambio della salute. La sua è una vicenda esemplare che va tenuta viva e raccontata a tutti, e soprattutto ai giovani” ha sottolineato l’ambientalista. Con lui, Felice Casson, oggi senatore del Pd ma all’epoca il pubblico ministero che trascinò i vertici della Montedison al banco degli imputati. Casson ha rievocato il momento in cui Bortolozzo bussò alla sua porta di magistrato. “La storia di Gabriele, scomparso proprio vent’anni fa, mi ha accompagnato professionalmente e umanamente per tutta la vita. E’ merito suo se ho scoperto che oltre la mia vecchia aula al palazzo di Giustizia c’era un mondo reale”.
A presentare il progetto, sono intervenuti Flavio del Corso, presidente della municipalità di Marghera, Elisa Pajer, dello Studio Liz che lo produce, Cristiano Dorigo che ne ha scritto il soggetto assieme a Federico Fava, e Lucio Schiavon che lo ha disegnato. L’incontro si è svolto proprio nella sala che a Gabriele Bortolozzo è dedicata.




Non solo un film d’animazione, abbiamo scritto in apertura. “El Mostro è anche un percorso che abbiamo intrapreso con tanto entusiasmo e tanta convinzione - ha spiegato Elisa Pajer -. Un percorso che ci ha aiutato ad incontrare tanta gente. Giovani soprattutto, ma non solo. Siamo entrati nelle scuole, abbiamo tenuto incontri nelle librerie e nelle biblioteche con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sui temi del lavoro e della salute, Abbiamo raccontato a tutti la storia di Gabriele che è poi la storia di Porto Marghera come anche quella di tante realtà, penso all’Ilva di Taranto, che stano vivendo lo stesso dramma. Gabriele ha avuto il coraggio di andare oltre e questo fa della sua vicenda una storia epica”.
Una storia che è stata già raccontata in tanti modi, cito solo il libro a fumetti di Claudio Calia “Porto Marghera” edito da Becco Giallo, ma mai attraverso un cartone animato. “Per il tipo che era Gabriele - ha concluso Bettin - sono sicuro che ne sarebbe stato contento”.

Di seguito alcuni link sui quali si può seguire il progetto e partecipare alla raccolta fondi. Ricordiamo la cena di sostegno che si svolgerà giovedì 11 dicembre al Bagolaro di Forte Marghera.

Pagina Facebook
https://www.facebook.com/events/1485840401681450/?fref=ts

http://www.eppela.com/ita/projects/992/gabriele-bortolozzo-el-mostro

http://producinuovevisioni.studioliz.org/2014/11/14/sostieni-el-mostro/

http://studioliz.org/2014/07/14/sostieni-gabriele-bortolozzo/

Difendiamo le nostre terre. A Mira, giornata nazionale contro la Orte Mestre

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Quattrocento chilometri di cemento. Quattrocento chilometri di devastazione ambientale inutile e costosissima. Questo è l’autostrada Orte Mestre. L’ennesima Grande Opera sbloccata dal Governo Renzi, dopo le bocciature del Via e della Corte dei Conti, grazie ad un apposito decreto che gli ambientalisti hanno già battezzato Sbanca Italia. L’ultima folle Grande Opera, figlia di una economia fallimentare ed insostenibile che ha portato l’intero pianeta sul baratro del Climate Change.
E proprio a un giorno di stanza dalla grande marcia per il clima che si svolgerà domani a New York, gli ambientalisti di mezza Italia sono scesi in piazza per denunciare l’assurdità di una politica che, con l’obiettivo dichiarato di uscire dalla crisi, persegue esattamente la stessa economica insostenibile che ha generato la crisi.
Manifestazioni e presidi contro la Orte Mestre si sono svolti in tutte le Regioni interessate dall’ennesimo sfregio ambientale: dal Lazio all’Emilia Romagna, dall’Umbria alla Toscana.
Nel Veneto, la rete nazionale Stop Orte Mestre si è mobilitata con una biciclettata da Mira a Giare dove nella mattinata si è svolto un colorato presidio a ridosso dell’incrocio con la Romea.



“Abbiamo scelto di manifestare proprio su questa incrocio dove ogni anno succedono tragici incidenti - ha spiegato Mattia Donadel, portavoce del Comitato opzione Zero - per rimarcare quanto sia assurdo spendere 10 miliardi di euro per costruire un’altra strada quando basterebbe davvero poco per mettere in sicurezza questa che abbiamo già”. Durante la manifestazione è stato distribuito un simpatico “kit di sicurezza” per il pedone costretto ad affrontare le insidie dell’attraversamento della Romea composto da pettorine catarifrangenti, vuvuzela, fumogeni di segnalazione e una striscia pedonale personale da stendere all’occorrenza.
Da segnalare la partecipazione alla manifestazione, conclusasi a Dolo con musica e festa, anche del sindaco di Mira, Alvise Maniero. Il Comune di Mira infatti, è stato il primo a votare una mozione in cui chiede al Governo l’abbandono del progetto Orte Mestre. Un esempio importante, che in seguito ha fatto scuola anche da Dolo, Camponogara, Fossò e Pianiga. “Amministrazioni di colore diverso ma unite nel ritenere folle buttare miliardi per una strada che c’è già e cementare la campagna rimasta - ha commentato il Primo Cittadino a 5 Stelle -. E devo dire che queste prese di posizioni coraggiose sono tutto merito vostro. L’idea iniziale dei miei colleghi sindaci era quella di provare a limitare i danni, venendo a patti con i costruttori. Sono state le vostre ragioni e le vostre mobilitazioni a far capire a tutti che non ci sono patti che tengano con chi vuole devastare il nostro territorio”.
“Gli architetti del nostro futuro non possono essere personaggi pluripregiudicati come Vito Bonsignore - ha concluso Tommaso Cacciari del Laboratorio Morion -. Gli stessi attori si apprestano a recitare nel palcoscenico della Orte Mestre, sono gli stessi che ieri hanno voluto il Mose e che oggi vorrebbero realizzare lo scavo del Contorta per difendere con i soldi pubblici gli interessi privatissimi delle compagnie di crociera”.
Tommaso Cacciari ha quindi invitato tutti alla festa della laguna che si svolgerà domani pomeriggio proprio su quel canale largo 4 metri e profondo 2 ma che il presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Costa, pretenderebbe di “ricalibrare“, proprio questo il termine che ha adoperato!, sino a farlo diventare largo 25 e profondo 200 metri per farci passare quelle specie di speculazioni edilizie galleggianti che chiamano Grandi Navi.
La butto là: e se invece del Contorta “ricalibrassimo” Paolo Costa?

Venezia chiama Terra

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“Quando ci pentiremo, sarà troppo tardi”. A lanciare l’allarme sui rischi derivanti da una politica che continua a sottovalutare i rischi legati ai Cambiamenti Climatici non è il “solito” ambientalista catastrofista ma lo stesso Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon.
Il V Rapporto Ipcc infatti mostra inequivocabilmente come il riscaldamento globale costituisca una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell'umanità sulla terra. Ma se la scienza oramai è concorde nel considerare il Climate Change un fatto acquisito e le voci dei pochi negazionisti sono state messe a tacere dai fatti, la politica è ancora lontana dal capire che il passaggio ad una nuova economia basata sulle rinnovabili non è più procrastinabile.
“Le azioni dei leader mondiali - ha dichiarato il segretario della Nazioni Unite che ha convocato per martedì 23 settembre i rappresentanti dei Governi di tutto il mondo - mostrano un approccio dalla mentalità ristretta sul tema dei cambiamenti climatici e sono distratti, assai spesso, da questioni di rilevanza meramente elettorale”.
Cambiare adesso quindi, perché tra un po’ sarà troppo tardi anche per pentirsi.
A sostegno di un auspicabile cambio di rotta verso un sistema energetico atto a contrastare il Global Warming, i movimenti ambientalisti di tutta la terra ha indetto una giornata di mobilitazione per domenica 21 settembre.



L’appuntamento principale sarà a New York dove è atteso un milione di persone per dare corpo alla più grande mobilitazione ambientalista mai organizzata: la People’s Climate March.
Da Sidney a Brasilia, da Stoccolma a Città del Capo, in tutto il mondo sono previste azioni di sostegno e di sensibilizzazione.
Anche Venezia questa mattina si è mobilitata con un flash mob e lo srotolamento di grandi striscioni sul ponte di Rialto. Le immagini, iconografiche e spettacolari come tutto quello che riguarda Venezia, saranno proiettate a Time Square durante la People’s Climate March.
L’iniziativa è stata organizzata da centri sociali, movimenti per la decrescita e le associazioni ambientaliste come Legambiente, AmbienteVenezia, Opzione Zero e NoGrandiNavi.
Non è un caso che gli organizzatori abbiano scelto come sede della conferenza stampa a sostegno della marcia newyorkese, proprio la sede dell’Ufficio Maree del Comune di Venezia, a due passi dal ponte di Rialto. Secondo il V Rapporto Ipcc, infatti, la nostra laguna così come il Delta del Po, è una delle aree costiere più a rischio di essere sommerse dal mare. Il simbolo vivente di un disastro planetario annunciato.
Ed il giorno in cui il mare coprirà le nostre calli, lo si legge chiaro nel rapporto Ipcc, non basterà il Mose a salvarci. Questa grande opera che ha devastato la laguna, inquinando la politica e drogando l’economia, è solo un’altro simbolo: quello del fallimento delle politiche di adattamento locale.

Non è neppure un caso che all’iniziativa rialtina abbiano partecipato i comitati che domani manifesteranno in bicicletta a Mira contro la Orte Mestre e quelli che domenica pomeriggio remeranno in barca sino al canal Contorta per difenderlo dal progetto di scavo.
La grande e inutile autostrada, così come l’ennesima devastazione lagunare a vantaggio delle Grandi Navi, altro non sono che due eclatanti esempi di quelle politiche sviluppiste che hanno innescato il Global Warming e di una economia predatrice che si nutre dell’ambiente in cui viviamo.

Il Consiglio Comunale rassegna le dimissioni ma prima vota la mozione in cui chiede lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova

Mafcon
Cala il sipario sulla Giunta Orsoni. Cala il sipario senza l’inchino del primo attore che preferisce rimanersene a casa e spedire lettera ai consiglieri. Lettera che, senza voler essere prosaici, potremmo tradurre con: “andate tutti a quel paese”.
Lunedì 23 giugno, ultimo consiglio a Ca’ Farsetti. Giusto il tempo di approvare un paio di delibere importanti, come il trasferimento del mercato ortofrutticolo e naturalmente il bilancio, e poi comincia l’inevitabile rito delle dimissioni dei consiglieri. Il tutto davanti ad un merdaio di fasci&forconi bercianti. Non più di quattro gatti, per la verità. Niente di paragonabile alla seduta precedente quando uscirono dalle fogne persino i forzanuovisti a sventolare cartelli con scritto “Amici dei violenti e ora anche delinquenti”. Ma lo spettacolo di urla e spintonate in platea non è mancato neppure questa volta. La cosa incredibile è che i più “gettonati” per gli “andate a lavorare” sono stati coloro che del Mose e del sistema Mose sono stati i più grandi contestatori: Beppe Caccia, Gianfranco Bettin, Sebastiano Bonzio! Per non parlare della Camilla Seibezzi, sempre in testa alla hit parade degli strillatori da osteria, come se le sue fiabe gay fossero peggiori delle fiabe che han sempre cercato di contarci sul Mose.
Come ha osservato lo stesso Caccia, lo scandalo Mose ha colpito la Regione, la Corte dei Conti, ministri ed ex ministri del Governo, la Guardia di Finanza, il Magistrato alle Acque, per tacere del Consorzio Venezia Nuova. Il Comune è stato investito di striscio e solo nella persona del sindaco per un finanziamento di poche centinaio di migliaia di euro che Orsoni ha usato proprio per vincere le primarie contro Bettin. Fatto, per carità, gravissimo ed imperdonabile da un punto di vista politico ma che di fronte alla cricca mafiosa che sta dietro al Mose ci sta come uno scasso col cacciavite ad un distributore di bibite contro il cartello del narcotraffico sudamericano.



Eppure chi finisce a cartoni all’aria è proprio il consiglio comunale. Come mai? Una spiegazione c’è. Il sistema che ha creato il Mose può anche condannare qualche pedina ma deve comunque salvare se stesso. E’ un sistema misto politico - affaristico - mafioso che macina diritti, ambiente e democrazia per ricavare capitale e potere per pochi. Il consiglio comunale di Venezia che, come tutti i consigli comunali è l’organo più vicino ai cittadini, è sempre stato un bastone tra le ruote di questo sistema accentratore che rifugge ogni controllo e rendicontazione. Tanto è vero che i soli Massimo Cacciari e Gianfranco Bettin votavano contro la Grande Opera nel Comitatone. Ecco perché Orsoni è rimasto vittima del sensazionalismo giudiziario e il suo (evitabilissimo, a nostro avviso) arresto - l’arresto del sindaco di Venezia! - ha fatto più scalpore delle accusa ben più pesanti a carico di personaggi come Renato Chisso e Giancarlo Galan, a piede libero solo perché onorevole.
Ed ecco perché quei quattro buzzurroni che invocavano forche e pene di morte a destra e a manda in consiglio se la pigliavano con le uniche persone che, potete metterci tutti la mano sul fuoco, dal Consorzio non si sono mai fatte corrompere. Ed ecco perché questi stessi forcaioli a bassa scolarizzazione che nei fumetti vengono regolarmente presi a calci in culo da Tex Willer, applaudivano sino a spellarsi le mani agli interventi dei consiglieri di destra che il Mose - il sistema Mose - lo hanno sempre difeso e voluto.
Cosa questa, chiarissima anche negli interventi dei consiglieri che si sono espressi sulla mozione portata in aula da Caccia, Seibezzi e Bonzio con la quale si chiede al Governo di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e il Magistrato delle Acque per attribuirne i poteri al Comune. Dichiarandosi contrari alla richiesta, i consiglieri di destra ribadivano che, proprio per evitare questi scandali e non intralciare la realizzazione dell’opera, i poteri di questi enti andavano al contrario potenziati.
La cosa ha una sua logica, c’è da osservare. Se berlusconianamente attribuissimo a questi enti anche un controllo sulla magistratura inquirente... beh, potremmo essere certi che certi scandali non vedrebbero più la luce del sole! Il discorso invece è l’esatto contrario. Consorzi dotati di poteri straordinari servono solo a creare scandali straordinari. Enti che operano in deroga alle leggi, finiscono per derogare anche alla legalità. Servizi che gestiscono fondi pubblici senza rendicontazione, finiscono per dirottare questi fondi al privato e a creare un mercato di tangenti e di opere inutili finalizzate alla tangente stessa. La soluzione non sono gli arresti ma la democrazia dal basso, la partecipazione delle cittadinanza attiva alle scelte sul territorio, i controlli incrociati, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente attraverso studi scientifici seri ed indipendenti. Tutte cose che col Mose non abbiamo mai visto.
Per questo riteniamo importante che coma ultimo atto il consiglio abbia approvato la mozione per lo scioglimento del Consorzio. Anche se il Governo ben difficilmente accoglierà la richiesta, sarà comunque un buon punto di partenza per il consiglio che verrà. Peccato solo non averla votata qualche anno fa, una mozione così. Ma qualche anno fa non avremmo mai sperato di sentire tanti consiglieri del Pd sparare ad alzo zero sul Mose come in questi ultimi consigli comunali. Va ben. Scriviamo “Meglio tardi che mai” e chiudiamola qua.

Una lettera indecente. Il presidente del Consorzio scrive a Renzi: “Concludiamo l’opera senza verifiche”

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Beppe Caccia, dalla sua pagina di Facebook (che vi invito caldamente a seguire) l’ha definita “una lettera indecente”. A noialtri, che siamo molto meno signorili del consigliere della lista In Comune, vengono in mente epiteti assai più coloriti. Ma la lettera con la quale il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mauro Fabris, chiede al Governo di non interferire sulla realizzazione dell’opera è, oltre a tutto quello che sottolinea Caccia e che riportiamo sotto, anche e soprattutto un ammissione di colpevolezza.
In sostanza Fabris fa questo ragionamento: le inchieste della magistratura sono una cosa, il Mose un’altra. I politici, dice Fabris, sono corruttibili (soprattutto gli amici suoi, potremmo obiettare noi), lo si sa. Ma se vogliamo che i lavori delle paratoie mobili continuino, il Governo si guardi bene dal commissariare il Consorzio o, peggio ancora, far le pulci agli appalti, addentrarsi nella giungla delle consulenze ed effettuare verifiche scientifiche sull’opera. Come dire: il carrozzone politico affaristico che ci ha regalato il Mose deve essere tutelato a tutti i costi, altrimenti il Mose non si fa. Perseguitiamo pure gli uomini, ma difendiamo il sistema.
Lo stesso ex Magistrato alla Acque, Patrizio Cuccioletta, ha ammesso a i magistrati che, grazie alla capillare corruzione da parte del Consorzio di cui lui è solo una povera vittima, non c'è mai stato alcun serio controllo scientifico sul progetto delle paratie mobili. Questo perché, se ci fosse stato, il progetto non sarebbe stato avviato. Per questo e non per altro, la corruzione era e continua ad essere una “politica” necessaria.



A far scrivere la “lettera indecente” al boss del Consorzio, quindi, è stata la paura che le indagini della magistratura spingano l’opinione pubblica a chiedere una verifica tecnica, autorevole e soprattutto indipendente e non corrotta - come mai è stato fatto - sulla validità del progetto. E magari qualcuno potrebbe anche domandarsi da dove sono venute tutte quelle deroghe alle valutazioni di impatto ambientale, pure previste dalle normative, che hanno fatto volare il mostruoso progettone sulle ali di milionate di euro.
Il punto è che, come per tante altre Grandi Opere, il nemico principale del Mose sono la trasparenza sugli appalti, il rispetto dei vincoli ambientali, l’approccio scientifico sulla validità della realizzazione, la possibilità di scelta di chi vive sul territorio. Che poi sono quattro aspetti di quella cosa che, a parer nostro, altro non è che democrazia partecipata dal basso. Il sistema della concessionaria unica che funge allo stesso tempo da controllore e controllata, è stato studiato apposta per bypassare questi quattro “impicci” sull’onda di vagonate di finanziamenti pubblici.
Per questo Fabris si è appellato a Renzi. Se arriva la democrazia, noi andiamo a casa.
Ultimo aspetto cui accenna anche Caccia, chiedendo una sospensione immediata dei lavori, sono i “pesantissimi dubbi dal punto di vista tecnico-scientifico, dalla questione delle cerniere a quella della risonanza” che gravano sul sistema delle paratie mobili.
Davvero vogliamo affidare la sicurezza di Venezia e quella dei suoi abitanti a un progetto pensato e realizzato solo in funzione di un sistema integrato e capillare di corruzione?
I disastri, ricordiamocelo, non sono mai naturali.


Di seguito, le osservazioni di Beppe Caccia


INDECENTE LA LETTERA DI FABRIS A RENZI:
SCANDALOSO IL TENTATIVO DI SALVARE IL SISTEMA
E DI SOTTRARRE IL MO.S.E. A VERIFICHE RIGOROSE

La lettera del presidente del Consorzio Venezia Nuova Mauro Fabris al presidente del Consiglio Matteo Renzi è una delle cose più indecenti che si siano viste nelle ultime due settimane.

Innanzitutto per la posizione personale del mittente, cui andrebbe suggerito un più sobrio silenzio. Invece di pretendere garanzie dal Governo, Fabris dovrebbe dare un bel po' di spiegazioni sui rapporti intrattenuti negli ultimi vent'anni con la cricca che guidava il Consorzio. Dovrebbe immediatamente, ad esempio, rendere pubblico il contratto di "consulenza strategica" - di cui ha parlato l'ing. Piergiorgio Baita - che Fabris avrebbe ottenuto per sé dallo stesso Consorzio e spiegarci se il contratto era valido e retribuito anche per gli anni, decisivi per l'approvazione del progetto Mo.S.E., in cui si trovava a ricoprire il delicato incarico di sottosegretario ai Lavori Pubblici e svariati ruoli parlamentari e commissariali.

In secondo luogo, per l'arroganza con cui pretenderebbe di salvare, insieme a se stesso, tutto il "sistema", quello della concessione unica dello Stato per le opere di salvaguardia che ha regalato il monopolio su queste al pool di imprese private del Consorzio, in condizioni di totale, criminogena opacità. Chi - in sede di ministero per le Infrastrutture - avrebbe già assicurato a Fabris che il Consorzio non verrà mai commissariato e tantomeno sciolto? Lo stesso ministro Lupi, sulla cui scrivania stanno transitando decisioni cruciali per il futuro della Laguna? E il presidente Renzi non ha nulla da dire al proposito?

Terzo, ma non meno importante, per la volontà di sottrarre i cantieri delle dighe mobili a qualsiasi verifica rigorosa, autorevole e indipendente, sulla sicurezza dell'opera in via di realizzazione, sulla sua efficacia rispetto agli obiettivi dichiarati, sulla congruità dei suoi costi, quelli sostenuti e quelli da sostenere. Il presidente del Magistrato alle Acque Cuccioletta ha ammesso che, grazie alla capillare corruzione da parte del Consorzio, non c'è mai stato alcun serio controllo sul progetto Mo.S.E.: non può pertanto essere conclusa e messa in funzione, come se nulla fosse, un'opera su cui gravano pesantissimi dubbi dal punto di vista tecnico-scientifico, dalla questione delle "cerniere" a quella della "risonanza". Serve invece un'immediata sospensione dei lavori per procedere a tutte le necessarie verifiche.

Beppe Caccia
consigliere Lista "in comune"

Mose e Grandi Navi. Stessa devastazione, stesso malaffare, stessi personaggi. Ma sabato scendiamo in piazza per cambiare!

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Parafrasando un vecchio modo di dire, Mose e Grandi Navi sono la stessa faccia della stessa medaglia. Quella medaglia che dal lato buono brilla di efficienti concessionarie uniche, iter amministrativi velocizzati e autoreferenziali, finanziamenti a vagonate, soggetti controllati che sono anche i propri controllori. Dal lato nascosto spuntano i tentacoli della piovra che affondano in un sistema misto politico ed economico, corrotto e corruttore.
Così è stato il Mose. Un sistema che, come spiega senza pudore la stessa pubblicità che compare nei vaporetti, “non solo dighe mobili ma un sistema completo per la salvaguardia di Venezia”. Se si cambia “salvaguardia” con “corruzione”... lo slogan calza alla perfezione.
Oggi lo dicono anche i magistrati. Ieri ci siamo presi decine di denunce per aver detto le stesse cose. Per aver denunciato quella palude di intrallazzi che ora è venuta a galla pure nel salotto di rappresentanza della Procura.
“Otto mesi di condanna definitiva per aver occupato l’ufficio di quel magistrato delle acque, Maria Giovanna Piva, che ora è agli arresti accusata di quello stesso malaffare che denunciavamo noi” ha ricordato Tommaso Cacciari in un incontro con la stampa svoltosi in tarda mattinata a Ca’ Farsetti.



“Ma la questione non può essere sbrigativamente liquidata con l’arresto di qualche corrotto cui addossare tutte le colpe - ha commentato il portavoce del Laboratorio Morion -. E’ il sistema della concessionaria unica che va cambiato. Da anni diciamo che nel Veneto la mafia si chiama Consorzio Venezia Nuova, da anni diciamo che questi signori ora finito agli arresti hanno scippato la città di fiumi di denaro che dovevano servire alla tutela dell’ambiente, della città ed a realizzare case per i residenti costretti all’esilio in terraferma. Soldi che sono finiti non solo a pagare stipendi milionari a gente come Chisso, Galan e ai loro accoliti, ma anche a devastare la laguna”.
Il ventilato scavo dei canali come il Contorta e il Vittorio Emanuele per dare acqua alle Grandi Navi, lo ha spiegato il consigliere Beppe Caccia portando l’adesione della lista In Comune alla manifestazione di sabato, combaciano perfettamente con questo sistema corrotto in quanto, essendo opere di “salvaguardia” rientrano nelle competenze uniche e indiscutibili del Consorzio. Altri 300, 350 milioni di euro che andrebbero ad aggiungersi al bottino già intascato e spartito. “La mostruosità giuridica della concessione unica - ha commentato il consigliere - ha generato una piovra, che ha allungato i suoi tentacoli sulle amministrazioni statali a tutti i livelli,dal Magistrato alle Acque alla Regione del Veneto dalla Corte dei Conti allo stesso Comune. Un generalizzato sistema di corruzione, condiviso dalle principali imprese di costruzioni del Consorzio, con l'unico obiettivo di imporre ad ogni costo la realizzazione di grandi opere. Ieri il Mose, domani lo scavo dei canali per le Grandi Navi. Sempre le stesse imprese, sempre la stessa procedura. Ma, al di là delle individuali responsabilità che la Magistratura sta accertando, sono i tentacoli e la testa di questa piovra che devono essere tagliati. Cancelliamo il regime della concessione unica e il grumo di interessi che si è consolidato intorno al Consorzio e alle imprese a lui collegate”.
Che le indagini vengano estese dalle tangenti agli illeciti procedurali, è quanto ha chiesto Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia, ai magistrati. “Nella lista dei 32 inquisiti manca qualche nome che ci saremmo aspettati. Magari questi signori faranno parte dei famosi 100 indagati su cui la magistratura ha mantenuto riserbo. Vedremo. Certo che molti dei nomi che abbiamo già letto sono anche dietro le presunte ‘soluzioni’ al problema della Grandi Navi. Non vorremmo dover assistere ad un film che abbiamo già visto e che a Venezia è costato fin troppo caro”.
Ambiente Venezia ha annunciato di volersi costituire parte civile al processo per le tangenti del Mose. Sempre per Ambiente Venezia, Cristiano Gasparetto ha ricordato come il Mose abbia un padrino (Silvio Berlusconi) e un padre (Romano Prodi). Due personaggi che solo qualche distratto commentatore politico potrebbe leggere come antagonisti in quanto rappresentano entrambi quei poteri forti che hanno avviato la mercificazione ambientale dell’intero Paese sotto il cemento delle Grandi Opere a tutto vantaggio di speculatori e mafiosi.
E così, in una città ancora sotto shock per la retata in stile “Gli anni ruggenti di Al Capone”, il comitato No Grandi Navi ha lanciato l’ultimo appello alla mobilitazione. Appuntamento sabato alle 13 a piazzale Roma. Sarà una manifestazione pacifica e colorata. Al di là delle preoccupazione del sindaco Giorgio Orsoni che proprio il giorno prima di essere arrestato ha dichiarato che “non saranno tollerate illegalità”. Al di là di quanto si augurano le compagnie di crociera che anche oggi hanno comperato intere pagine di giornali locali per scrivere “Ci risiamo. No alla violenza” sopra a una foto in cui gli attivisti si riparano dalle manganellate dietro a paperelle di gomma.
Concludiamo con una simpatica osservazione di Armando Danella: “Passando per il mercato sentivo tutta la gente sprecare indignazione e urlare che al tempo dei Dogi ai ladri tagliavano le mani (cosa peraltro non vera.ndr). Beh, ho cercato di dire a tutti, perché invece di stare solo a lamentarvi non venite sabato in piazza a dirlo assieme a noi?”

Occupato il campanile di San Marco. Gli attivisti alzano lo striscione No Grandi Navi

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In piazza San Marco i Mori battono mezzogiorno. E’ maggio inoltrato eppure tira ancora vento di scirocco. Le cose non vanno mai come te le aspetti. Il lato più coperto dai forti mulinelli di vento è quello che volge verso la “boca de piazza”, dove si sale al museo Correr. Peccato che le impalcature dei perenni lavori in corso e le recinzioni complichino ulteriormente l’alzata dello striscione, non bastasse il vento. Una impresa non da poco considerando le dimensioni davvero “esagerate” dello striscione: 40 metri per 8. Quasi la metà del campanile! Data una occhiata alle foto per farvene una idea.
Eppure gli attivisti del comitato per la difesa della laguna e contro le Grandi Navi sono riusciti ugualmente da tirarselo su! Un blitz da manuale sotto gli occhi increduli della massa di turisti che da queste parti non manca mai. Turisti che amano Venezia - certo più di tanti “nostrani” che ne apprezzano solo il lato commerciale e di sfruttamento - e che hanno fatto presto a solidarizzare con gli attivisti che spiegavano i motivi della loro protesta in inglese e in francese, oltre che in italiano.
Proprio come quel signore targato Iu Es Ei dalla testa ai piedi che mi ha avvicinato per chiedermi qualche spiegazione in più e mi ha spiegato che “quelle grosse navi che passano qui davanti sono davvero mostruose, oltre che brutte e totalmente avulse dalla città. Da noi una città come Venezia sarebbe difesa dall’esercito e salvaguardata come il parco di Yellowstone”. Ecco... magari l’esercito anche no, ma sulla salvaguardia siamo d’accordo.



E così tra bandiere sventolanti in piazza, l’enorme striscione che ondeggiava al vento e gli attivisti sopra il campanile impegnati a reggerlo ed a lanciare volantini su San Marco, l’impresa si è protratta per una mezz’ora sino a che un colpo maligno di vento ha strappato il telo. Niente paura. Lo striscione è stato adagiato lungo la piazza e li è rimasto sino a quando gli attivisti hanno concluso la loro iniziativa che, ricordiamolo, è solo l’antipasto - lo spritz, diciamo noi che siamo nati in questa strana e magnifica città - di quanto avverrà sabato 7 e domenica 8 giugno, quando la città si mobiliterà per bloccare le Grandi Navi.
Ma per oggi intanto, Venezia ha issato sul suo campanile la sua bandiera più bella!

Tutto da rifare. Il Tar riapre il bacino di San Marco alle Grandi Navi

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Uno a uno. Palla al centro e partita ancora tutta da giocare. Il Tar del Veneto ha accolto il ricorso presentato da Venezia Terminal Crociere (Vtp) e ha sospeso l’ordinanza della Capitaneria di porto che vietava, a partire dal prossimo anno, l’ingresso per le bocche del Lido alle navi superiori alle 96 mila tonnellate di stazza.
In poche parole, il tribunale amministrativo ha riaperto il palcoscenico del bacino di San Marco alla Grandi Navi sul quale il Governo, grazia anche alla grande mobilitazione popolare dei veneziani, aveva chiuso il sipario. Come se non bastasse il Tar, ha sospeso anche la riduzione del 12,5% del traffico crocieristico davanti alla Piazza.
C’è da dire che ben difficilmente la sospensiva - valida, ricordiamolo, solo in attesa dell’udienza di merito che è prevista per metà giugno - avrà ricadute immediate. Intanto perché il limite delle 96 mila tonnellate sarebbe decorso dal 2015, poi perché la riduzione del traffico è già stata cautelativamente programmata nell’offerta turistica e le compagnie di navigazione non riusciranno ad inserire di punto in bianco altre crociere, perlomeno nel calendario di primavera. Non a caso, i giornali di queste ultime settimane sono zeppe di articoli in cui i padroni delle società che gestiscono le Grandi Navi piangono il morto e la miseria incombente.
Resta comunque la preoccupazione di una sentenza che sposa in pieno la causa delle compagnie di navigazione sostenendo che le limitazioni al traffico "devono essere subordinate alla disponibilità di praticabili vie di navigazione alternative a quelle vietate". Come dire: cari signori, prima di vietare qualcosa, preparate le alternativa. Poco importa che la laguna non ce la faccia più a sostenere l’insostenibile.
Ancora una volta, insomma, l’economia vince sull’ambiente. Esattamente quel principio che ha causato la cosiddetta “crisi economica” e che i No Grandi Navi hanno provato a ribaltare buttandosi in acqua.



La sentenza del Tar ha ottenuto l’ovvio plauso dell’autorità portuale che ne sta facendo un cavallo di troia per spingere sul suo vero obbiettivo: lo scavo del canal Contorta. “La decisione del Tar - si legge in un suo comunicato - non può, né deve, assolutamente distrarci, o peggio fermarci, dal voler trovare e realizzare entro il 2016 la via d’acqua alternativa per raggiungere la Marittima e ovviare al passaggio davanti San Marco. Il Governo, anche su suggerimento del Senato, si è dato 120 giorni di tempo per valutare il Contorta Sant'Angelo o la sua alternativa.  Se la decisione verrà presa entro questi termini, e non abbiamo motivo di dubitarne, la sentenza odierna verrà nei fatti positivamente superata dalla soluzione che metterà insieme la salvaguardia di San Marco e quella dell'eccellenza crocieristica veneziana”. Per Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale, questa è la sola strada per salvare capra e cavoli, ovvero evitare di devastare la “zona nobile” di Venezia, il bacino di San Marco, e salvaguardare (più che l’occupazione) gli interessi economici delle grandi compagnie. Peccato che a pagare sia la capra che i cavoli sarebbe la nostra povera laguna che verrebbe devastata dall’ennesima Grande Opera. E sempre ammesso che si possa ancora parlare di “laguna” a proposito di una zona che tra Mose, barene di cemento ed escavazioni varie oramai è diventata un braccio di mare aperto.
Alla soddisfazione di Costa, si somma quella della Confindustria, contentissima che l’economia, o meglio una “certa economia”, sia ancora la prima preoccupazione di giudici osservanti e Governi obbedienti. "La decisione del Tar di accogliere la richiesta di sospensiva alle limitazioni -ha dichiarato Matteo Zoppas, il presidente - è un primo segnale positivo del fatto che i fattori economici e occupazionali siano diventati parte integrante di ogni valutazione”.
Meno soddisfatto della sentenza, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che ha diffuso il seguente comunicato. “Sapevamo che l’ordinanza della Capitaneria di Porto fosse illegittima, tanto è vero che anche il Comune di Venezia ha proposto un ricorso avverso lo stesso atto, e ci aspettavamo quindi un pronunciamento di questo genere. Siamo fiduciosi che la volontà del Governo sarà rispettata, e con questa il suo impegno affinché le navi non compatibili siano allontanate dal Bacino di San Marco. Auspico che questo impegno e questa volontà - che sono anche quelle della Città e del mondo intero che ci guarda - siano ribaditi ponendo rimedio, ove necessario, ai vizi rilevati dal giudice amministrativo, al fine di raggiungere l’obiettivo ampiamente condiviso anche a livello internazionale. È ferma intenzione del Comune di Venezia tutelare la Città e la sua Laguna con determinazione. Non siamo disponibili a delegare a nessuno la difesa degli interessi primari dei cittadini. Così come riteniamo che gli organi dello Stato non possano delegare ai propri concessionari l’attuazione di politiche condivise a livello di governo nazionale, e debbano adempiere puntualmente alla volontà espressa all’unanimità dal Senato della Repubblica". Niente paura, vi faccio subito la traduzione: “Che la famosa ordinanza fosse fatta da cani (e vien da chiedersi se apposta o no) lo sapevo pure che che non per niente sono avvocato. Quale sia la volontà del Governo a proposito di questa faccenda non sono riuscito a intuirlo neppure alla lontana però sappiamo tutti che Venezia è sotto gli occhi del mondo e di figure barbine sulla sua salvaguardia ne abbiamo già fatte pure troppe. Onde per cui, prima di combinare altri pasticci per favorire le grandi  compagnie, sarebbe opportuno che chi comanda ascoltasse pure me e il Comune di Venezia che è l’organo più vicino ai cittadini. Che poi, anche al di là della mia personale opinione sulla questione,  sono i soli davvero interessati al futuro di Venezia e che, se non lo avete ancora capito, non vogliono vedersi devastare quel che resta della loro città che quei grattacieli galleggianti”.
Non ha bisogno di traduzioni ma anzi si piglia il primo premio per il comunicato più chiaro e conciso dell’anno, il “cinguettio” su twitter del comitato No Grandi Navi: “Tutti pronti alla mobilitazione?”
E va bene. Vado in soffitta a tirar giù le pinne!

Questi giorni a Lampedusa. L’isola dei diritti

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Sono tre giorni che non smette di piovere e anche l’ultimo calzino asciutto se ne è andato. Sabato però abbiamo concluso la discussione ed ora la Carta di Lampedusa ha una sua stesura definitiva. Un grande applauso, per certi versi anche liberatorio, ha salutato nel tardo pomeriggio l’approvazione dell’ultimo paragrafo.
In serata il collettivo Askausa - che significa “senza scarpe” - ha invitato tutti gli attivisti all’inaugurazione del loro nuovo spazio dedicato alle vittime del mare. Una lunga sala in cui i ragazzi di Lampedusa hanno raccolto tutto ciò che il mare ha restituito dopo i naufragi. Nel soffitto dell’entrata sono appese le scarpe. Grandi, piccole, da uomo e da donna da bambino, tante... Un tavolo raccoglie dei sacchetti di plastica con dentro della terra. Un modo come un altro per esorcizzare la nostalgia della casa natia. Portarsi appresso un po’ della terra sulla quale sei cresciuto. Poi quel che resta di bibbie, corani, calendari e libri di poesie divorati dall’acqua salata. Sui muri, le mensole erano riempite di piatti, scodelle, pentole... e ancora tanti oggetti personali come lamette da barba, spazzole, giocattoli, collanine e bracciali... Mi è tornato in mente un ricordo che credevo assopito: il museo dello sterminio che ho visto al campo di concentramento di Auswitch. Nel lager come nei barconi. Vite spezzate dalla violenza di un sistema delirante.



Domenica mattina, sempre sotto una pioggia battente, l’ultima assemblea. Quella programmatica. Gli attivisti prendono il microfono per spiegare come intendono mobilitarsi per far sì che la Carta di Lampedusa non rimanga solo una carta. Ciascuno a partire dai linguaggi e dalle sensibilità che gli sono propri. Voci che si mescolano a quelle dei migranti che raccontano le loro aspettative ed a quelle degli abitanti di Lampedusa che sono intervenuti numerosi per raccontare come tocca vivere sotto la cappa di una continua emergenza militare.
Chiudiamo la sera tardi appena in tempo par fare una visita al Cara, prima che tramonti il sole. Non ci sono “ospiti” forzati in questo momento. E’ solo un grande e freddo edificio di cemento armato vuoto. Eppure le forze dell’ordine e l’esercito lo presidiano come se fosse l’ultimo bastione strategico di chissà quale guerra. Gli giriamo attorno e i militari ci seguono passo dopo passo, segnalando i nostri spostamenti con le trasmittenti. Vado a vedere il famoso buco sulla recinzione sud e che fungeva da “porta secondaria”, ipocritamente tollerata dalle autorità che preferivano far finta di non vedere per non scatenare rivolte. E’ ancora là a testimoniare quanto sia assurdo, oltre che inumano, il voler pretendere di risolvere una questione sociale con criteri militari.
Non è un bel vedere il Cara di Lampedusa. Nessun Cie, nessun Cara lo è. Più volte negli incontri di stesura della Carta è stato ribadito, dagli attivisti della campagna LasciateCientrare come da tutti gli altri, che queste prigioni di cemento armato non possono essere umanizzate ma solo abbattute. Chiudere i Cie ancora attivi ed impedire che vangano riaperti quelli chiusi sarà una delle prima battaglie da fare. Perché l’avventura della Carta di Lampedusa, statene certi, è solo cominciata.

Questi giorni a Lampedusa. L’isola dell’accoglienza

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In tutta l’isola non c’è una sala sufficientemente ampia per farci entrare tutti. Grazie alla sindaca, Giusi Nicolini, abbiamo ottenuto una sala dell’aeroporto. Da qui stiamo scrivendo la Carta di Lampedusa e sempre da qui trasmettiamo lo streaming su Melting Pot grazie ad una attrezzatura di emergenza messa a punto all’ultimo momento, dopo il forfait a causa del maltempo della nostra parabola satellitare.
All’aeroporto di Lampedusa, ci hanno dato la più grande che avevano a disposizione ma ancora non basta. Solo ieri, giornata introduttiva dedicata alla presentazione delle tantissime associazioni presenti e al saluto della sindaca, si sono registrate oltre 250 persone. Altre se ne stanno aggiungendo ora, altre ancora arriveranno sugli aerei del pomeriggio per l’incontro conclusivo sulla Carta e partecipare l’assemblea programmatica che si svolgerà domani mattina.
La prima nota da sottolineare quindi, è la grande mobilitazione che si è creata attorno all’appello di Melting Pot, cui va dato il merito di aver saputo interpretare e dare voce al diffuso disagio provocato dal fallimento delle attuali politiche migratorie.



Il secondo punto che vogliamo evidenziare è la straordinaria accoglienza riservataci degli abitanti di Lampedusa inizialmente, diciamocelo pure, quantomeno scettici di fronte all’ennesima “invasione” della loro bella isola. Niente battaglioni di giornalisti al seguito di politici non richiesti, ma decine e decine di “strani” personaggi, attivisti giovani e meno giovani, provenienti da tutta Europa per lo più con un sacco a pelo sulle spalle.
E’ bastato qualche volantinaggio la diffusione della lettera ai residenti e, più di tutto, le chiacchierate che in questi ultimi giorni abbiamo fatto ai tavolini dei bar e delle pasticcerie, per far capire a tutti chi eravamo e cosa volevamo.
“Eravamo pronti a contestarvi perché non ne possiamo più di gente che viene qui a far passerella, promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi - confessa un rappresentante degli imprenditori dl Lampedusa - Ora invece siamo pronti a collaborare alla stesura della Carta e anche a metterci la firma. Siamo i primi a poter dire, proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratoria sono sconfitte in partenza, scaricano tutto il problema su pochi posti di confine come la nostra Lampedusa ed inoltra sono costosissime. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo fare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, non solo nell’accoglienza ma anche per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?”
Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’intervento della sindaca Giusi Nicolini che ha aperto l’assemblea ringraziando i presenti. “Questa piccola isola così piccola e così sola ha saputo affrontare emergenze indescrivibili. Noi, più di tutti, possiamo affermare quando sia ipocrita e falso dire che l’Europa, così grande, non possa accogliere degnamente queste persone costrette a scappare da Paesi in guerra. Lampedusa l’ha fatto e lo farà. L’Europa lo può e lo deve fare”.
Adesso, mentre scrivo, al tavolino delle registrazioni continuano ad arrivare persone. Dentro procede la discussione e gli attivisti di Melting hanno approntato un servizio di traduzione simultaneo in francese e uno in tedesco, mentre sul muro viene proiettato il testo in inglese.
Entro sera bisogna arrivare alla stesura finale della Carta e alla sua ratifica.

Questi giorni a Lampedusa. L’isola delle caserme

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Tra Lampedusa e la Sicilia corrono cento miglia di mare. E tocca pagarle tutte. La nostra parabola satellitare con i suoi quattro audaci paladini di belle speranze che se la sono scarrozzata per tutta la Penisola, se ne è rimasta, triste e sconsolata, sulla banchina di Porto Empedocle. Giove Pluvio e suo fratello Poseidone le han detto di no. D’altra parte, in questa stagione, i collegamenti navali sono peggio di un terno al lotto. Col vento di libeccio poi, che non soffia mai per meno di un mese, pensare di raggiungere Linosa per mare è una pia illusione ”perché - mi ha spiegato un pescatore giù al porto - lei, signore, deve considerare che Lampedusa è un’isola”. Lo so, gli ho risposto con un po’ di sufficienza. “No che non lo sa, signore. Per capire che Lampedusa è un’isola deve avere una moglie che sta per partorire oppure un figlio malato che ha bisogno di... come si chiamano, quegli esami medici là che ti fanno solo a Palermo?”


Oramai nessuno nasce e nessuno muore più a Lampedusa (migranti a parte). Il piccolo poliambulatorio non è neppure dotato di un servizio ostetrico. Per partorire le gestanti raggiungono gli ospedali palermitani. E debbono imbarcarsi perlomeno un mese prima. Gli aerei di collegamento sono dei piccoli bimotori ad elica. Non sono mezzi consigliabili a chi ha paura. Con tutti quegli scossoni che ti regalano emozioni e attaccamento alla vita, se la gravidanza è molto avanti, c’è il rischio di scodellare il pupo tra le mani della hostess.
In bassa stagione poi, i voli sono limitati anche a prescindere dalle condizioni del tempo e dagli scioperi dei controllori dei voli. Sui pochi posti a disposizione, inoltre, i residenti hanno giustamente il diritto di precedenza. Questo è il motivo per cui molti attivisti che hanno tentato di raggiungere l’isola hanno dovuto desistere dai loro propositi e rassegnarsi a partecipare agli incontri seguendo lo streaming su Melting Pot.
Io sono stato tra i primi ad arrivare. Mi ha accolto un mare in burrasca e una cittadina fredda, molto lontana da quegli arcobaleni di colore con cui dipingiamo la Sicilia.
Il centro sta tutto in un’unica strada, via Roma. Lunga, larga, diritta, ben curata, costellata di ristoranti stile Bella Napoli e di negozi “Totò o’mericano” che vendono piastrelle “Una vipera ha morso mia suocera...” Per la maggior parte sono chiusi. “Chi ha i soldi va a svernare a Palermo dove ha la seconda casa e può mandare i figli a scuola - mi ha spiegato la gentile signora che ci ha affittato le camere -. Qui non c’è niente per i bambini. La scuola dell’obbligo non ha aule per tutti e mio figlio è costretto ad andare a lezione al pomeriggio. E dopo l’obbligo, abbiamo solo un liceo scientifico. Fosse almeno un istituto alberghiero”.
Gironzolando per le strade di Lampedusa, salta subito all’occhio che l’intera isola è stata trasformata in una caserma. Le strade perpendicolari a via Roma sono continuamente attraversate da camionette e blindati dei carabinieri. Dappertutto trovi cartelli con scritto “Zona militare. Vietato l’accesso” . Seduti ai tavolini dei bar, rigorosamente riservati agli uomini, ci sono più soldati in libera uscita e poliziotti in borghese che lampedusani. E poi guardi di finanza, polizia di frontiera, capitanerie di porto... mancano solo gli alpini per completare l’elenco dei corpi dello Stato. Sono sceso al porto per fotografare il “cimitero” dei relitti dei barconi cui, qualche giorno fa, qualcuno ha appiccicato il fuoco. Due militari armati mi hanno ordinato subito di allontanarmi. Ho spiegato che ero un giornalista con regolare iscrizione all’Albo. “Proprio per questo” mi hanno risposto.
Ancora più raccapricciante è la bandiera con il “sole padano” che sventola sopra il porto del naufragio, appena sotto la grande statua della madonna protettrice dei marinai dall’aureola che si illumina di notte. Proprio qui, al sud del sud, la Lega Nord è riuscita ad eleggere una rappresentanza in consiglio comunale. Votarli sotto queste cielo meridionale, viene da pensare, deve essere come per un leprotto iscriversi all’Arci Caccia.
Pasteggiano con la paura delle gente. Girano per le strade dell’isola su un’auto di “rappresentanza” con bandierona al vento, lo stemma sul cofano e la scritta “No all’abrogazione della Bossi Fini”. Domani incontreremo la sindaca Giusi Nicolini e ci auguriamo che sappia dipingerci un’altra Lampedusa.
Intanto, ora dopo ora, gli attivisti dei tantissimi movimenti che hanno aderito all’appello di Melting Pot per scrivere assieme la Carta di Lampedusa scendono dagli aerei. Vengono da tutta Italia, dalla Francia, dall’Olanda, da tanti altri Paesi europei e nordafricani. Basta un’occhiata per capire che non sono i soliti turisti. Accanto al tavolino da cui scrivo queste note si siedono un paio di tedeschi e un profugo. Sono di “Lampedusa in Amburg” e sono venuti a proporre un gemellaggio con il quartiere S. Pauli.
Grazie a tutti loro, anche la grigia Via Roma sta cominciando a riempirsi di colori.

Ps - col vento che c'era... la bandiera ha sventolato per poco!

Grandi Navi fuori dalla laguna. Ma adesso si apre la battaglia per la difesa del canal Contorta

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Abbiamo vinto la prima battaglia contro i mostri del mare. Adesso bisogna vincere la guerra per la laguna. “La riduzione del traffico a partire da gennaio è senz’altro un primo risultato della mobilitazione dei cittadini veneziani, dall’indignazione dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale, e anche dalla determinazione dimostrata dall’amministrazione comunale – ha commentato il consigliere della Lista In Comune Beppe Caccia -. Adesso bisogna fermare la follia dello scavo di nuovi canali in laguna”.
Gli ambientalisti veneziani hanno accolto con parziale soddisfazione e forti perplessità la soluzione partorita dal Governo per risolvere la questioni delle grandi navi. La soddisfazione è tutta per l’auspicato blocco del transito dei grattacieli galleggianti, così come era previsto dal decreto Clini. Dal primo novembre 2014 il transito delle Grandi Navi con stazza lorda superiore alle 96 mila tonnellate dovranno rimanere fuori non solo dal bacino di San Marco ma dall’intera laguna. Dal primo gennaio prossimo inoltre, il numero delle delle navi da crociera di stazza superiore alle 40 mila tonnellate dovrà essere ridotto fino al 20 per cento rispetto al 2012. Sempre dal primo gennaio 2014 sarà vietato il passaggio nel Canale dei traghetti, con conseguente riduzione del 25 per cento dei transiti davanti a San Marco e del 50 per cento delle emissioni inquinanti.
Soddisfazione espressa anche dal sindaco Giorgio Orsoni che ha incassato anche lo spostamento del terminal crocieristico a Marghera: “Per la prima volta il Governo è intervenuto concretamente sulla questione delle Grandi Navi da crociera. Oggi si è invertita finalmente la tendenza al gigantismo in Laguna. Basta mega crociere a due passi da San Marco, si imporranno infatti fin da subito limiti ben precisi sulle navi che potranno entrare a Venezia”.



E’ lo stesso sindaco di Venezia però che esprime forti perplessità per il ventilato scavo del canale Contorta che emerge dal tavolo di Palazzo Chigi. Nella nota diramata dall’ufficio stampa del consiglio dei ministri infatti si legge la necessità “di prevedere una nuova via di accesso alla Stazione marittima, individuata nel canale Contorta Sant’Angelo, come diramazione del Canale Malamocco-Marghera. Nella valutazione di impatto ambientale di questa opzione saranno naturalmente considerate eventuali soluzioni alternative, compresa quella del Canale Vittorio Emanuele”.
Come dire che il nostro Governo è strutturalmente incapace di pensare una soluzione ad un disastro ambientale causato da una Grande Opera (che altro le Grandi navi non sono) che non preveda la realizzazione di un’altra Grande Opera. Una “soluzione “ che sposa in maniera acritica la proposta alternativa al mantenimento dello status quo avanzata al tavolo della lobby crocieristica. “E’ gravissimo che il Governo abbia deciso di dare il via libera alla valutazione d’impatto ambientale per lo scavo del nuovo canale Contorta Sant’Angelo – ha commentato Beppe Caccia-. Non c’è alcuna ragione plausibile per non confrontare e valutare con pari dignità tutte le proposte alternative che erano state avanzate, dalla realizzazione di un nuovo terminal transitorio a Marghera alla definitiva collocazione del porto passeggeri fuori dalla Laguna. Lo scavo di nuovi canali con la drammatica ulteriore manomissione degli equilibri lagunari è semplicemente inaccettabile. Ci batteremo in ogni sede contro questa follia”.
Abbiamo buttato le Grandi Navi fuori dalla laguna. Il canale della Contorta non può essere un’escamotage per farcele rientrare

Un giro di spritz tra le case occupate

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Cominciamo dalla fine (cosa che non si fa mai). Cominciamo addirittura da un post su Facebook. “E così, all'improvviso ti trovi davanti 50 persone parlano di casa, non solo, ma sono loro che parlano di precarietà post laurea, di voglia di sentirsi cittadini, linfa vitale di una città...succede così che ti chiedano: ma come faccio a diventare occupante? Sono felice” Cominciamo dal post di Marta proprio perché è un sunto perfetto dell’iniziativa organizzata ieri pomeriggio dagli studenti universitari di Venezia e che aveva come titolo “Aperitivo itinerante tra le case occupate”.
E proprio di un classico, venezianissimo, “giro di spritz” si trattava. Solo che invece di bacari e osterie si faceva tappa tra le case che gli studenti di Ca’ Foscari e dello Iuav hanno occupato per poter continuare gli studi senza svenarsi per pagare affitti impossibili alle agenzie private. Il perché è stata intrapresa la strada dell’occupazione, è spiegato nel comunicato che presenta l’iniziativa: “Gli affitti sono troppo alti, i trasporti insufficienti e troppo cari, mense, biblioteche, spazi per la socialità inadeguati. Governi di destra, di sinistra, di destra-sinistra rifilano alle generazioni più giovani scuole fatiscenti, atenei in rovina e dormitori-caserme. Studiare e abitare sono nostri diritti che vengono smantellati giorno dopo giorno! Per questo abbiamo individuato case di proprietà di Ca' Foscari o dell'Ater, lasciate vuote e al degrado, ne abbiamo riaperto porte finestre, ricostruito sanitari, ridipinto muri”.



Ca’ Tortuga, nel popolare quartiere di Santa Marta, è stata la prima casa ad essere occupata quattro anni fa, ai tempi dell’Onda Anomala. In questi anni ha dato ospitalità e la possibilità di laurearsi a 25 studenti. L’occupazione inoltre ha contribuito a rimettere in discussione i criteri con i quali vengono assegnati borse di studio e appartamenti nelle case dello studente. “Per essere considerato fuori sede devi essere residente oltre i 40 chilometri - spiega Marta - Una assurdità pensata col compasso e che non tiene contro della peculiarità di una città senza auto come Venezia”.
Peculiarità che lascia poco spazio tanto agli studenti quanto alle giovani coppie in cerca di una casa. Sul mercato, non trovi un posto letto a meno di 200 euro. La media si aggira sui 4 o 500 euro. Non è una città per giovani, questa. Tante case, soprattutto nei quartieri universitari, non sono altro che magazzini ristrutturati alla bell’è meglio. Ristrutturazione che non possono tener conto dell’acqua alta. Così, quando butta a scirocco, ti capita di trovarti trenta centimetri di laguna sotto il letto.
Se si esce dal mercato privato, le alternative sono davvero poche. L’Esu versa in fallimento cronico tra tagli e incapacità gestionale. Inoltre con 400 posti contro una popolazione stimata sui 25 mila studenti, può fare ben poco. In quanto a Ca’ Foscari, seguendo una pura logica gestionale (fallimentare, tra l’altro) ha appaltato il servizio ad un “ufficio housing” che risolve tutto dirottando verso il privato. Rimane solo la Pastorale, un ente religioso che gestisce 1500 posti letto. Ma anche a voler soprassedere sul costo di un letto che non ha nulla da invidiare alle agenzie di San Marco, rimane il fatto che gli orari sono da clausura, la socialità imposta e la messa obbligatoria. Capirete che anche per chi vuole salvarsi l’anima queste condizioni non son facili da mandar giù!
Così si marcia a Venezia. Tre università, zero politiche abitative. “Per questo - conclude Filippo, occupante di Ca’ Tortuga - abbiamo deciso non solo di occupare ma a anche di proseguire e di incentivare le iniziative di occupazione. Abbiamo individuato altri appartamenti vuoti e degradati di proprietà dell’università e ci entreremo presto, ristrutturandoli e riadattandoli alle nostre esigenze. L’importante è occupare in maniera consapevole, senza forzature con il vicinato ma, anzi, ‘adottandolo’ come ci piace dire. Abbiamo vinto processi proprio perché i vicini hanno testimoniato a nostro favore. Certamente tutti preferiscono avere dei giovani come noi nell’appartamento di sopra, piuttosto che infiltrazioni e pantegane. Voglio dire, non è un caso se la signora del, piano di sopra ogni tanto ci viene a trovare con una torta in mano!”

L'ombra della mafia sul Mose e sul Consorzio Venezia Nuova

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Era noto come “l’uomo delle cerniere del Mose”, quel Mauro Scaramuzza, amministratore delegato della Fip di Padova, arrestato ieri dai carabinieri assieme a Gioacchino Francesco La Rocca, figlio del capomafia “Ciccio” La Rocca, nell’ambito dell’inchiesta per la cosiddetta “variante Caltagirone”. Un “uomo cerniera” in tutti i sensi, considerato che se la ricostruzione della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Catania sarà confermata, Scaramuzza faceva da cardine tra gli interessi delle cosche mafiose siciliane e quelli delle grandi imprese di costruzioni “pulite” del Nord. Che tanto pulite poi non sembrano essere, a conferma del livello di compenetrazione ormai raggiunto, su tutto il territorio nazionale, tra capitali illegali da riciclare e capitali legali da valorizzare.
Come nel caso degli appalti in Fincantieri, non esistono isole felici, o aree del Paese immuni dall’infiltrazione mafiosa.



Mauro Scaramuzza non è certo una figura di secondo livello col suo ruolo di amministratore delegato della Fip spa di Selvazzano Dentro (Padova), una società controllata dalla Mantovani spa della famiglia Chiarotto. Il suo nome ricorre in molti dei più importanti e discussi affari degli ultimi anni nel campo delle opere pubbliche: dalla ricostruzione dell’Aquila ai lavori in Lombardia per Expo2015, dai rapporti con la Cmc di Ravenna, ditta titolare delle opere preliminari alla Tav in Val Susa, fino alla sottoscrizione di “protocolli antimafia” in appalti chiacchierati.
 Ma soprattutto Mauro Scaramuzza è un “uomo cerniera” dal ruolo chiave nel sistema di potere organizzatosi intorno al progetto del Mose e al Consorzio Venezia Nuova. Sua, come abbiamo detto, è la responsabilità della realizzazione delle cerniere che devono connettere le paratoie delle dighe mobili ai cassoni appoggiati sui fondali delle bocche di porto. Cerniere sulle cui garanzie di affidabilità e condizioni di sicurezza il consigliere comunale Beppe Caccia ha presentato oltre un anno e mezzo fa un’interrogazione che non ha mai ottenuto risposta dal Magistrato alle Acque di Venezia.
“L’arresto dell’ingegner Scaramuzza proietta l’inquietante ombra di Cosa Nostra anche sulla concessione unica per le opere di salvaguardia di Venezia e della sua Laguna - ha commentato Caccia -. Dimostra che c’è un sistema malato legato al monopolio del Consorzio e agli affari da esso gestiti nell’ultimo trentennio. Prova ne sia che i nuovi vertici della Mantovani spa sono ben lontani dal compiere quella ‘operazione di pulizia’ che avevano promesso al momento del loro insediamento. Quest’ultimo arresto conferma la necessità che il governo e il parlamento avviino una seria verifica sia sulle caratteristiche tecniche del progetto Mose. La questione dell’affidabilità delle cerniere rimane tutt’ora aperta, così come dell’efficacia dei dispositivi di fronte agli effetti dei cambiamenti climatici. E’ indispensabile anche fare chiarezza su come sono state spese le ingentissime risorse pubbliche gestite dal Consorzio e dalle imprese ad esso collegate. L’inchiesta della procura ha dimostrato una volta di più, come sia urgente mettere mano alle riforma della Legge speciale per Venezia, superando una concessione unica che si sta rilevando sempre più criminogena”.
“Un ultimo suggerimento a chi di dovere - conclude Caccia -: non pensate sia il caso di cancellare la pomposa cerimonia prevista all’Isola Novissima per sabato pomeriggio? Mancherà di sicuro l’uomo-cerniera e non mi pare ci sia proprio niente da festeggiare”.

Grandi Navi: la crisi di Governo affonda anche le soluzioni

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E’ come quando alla roulette tutti i giocatori puntano o sul rosso o sul nero, ed invece esce lo zero e, tra la sorpresa generale. il banco sbanca. La crisi di governo ha avuto come prima conseguenza locale proprio quella di far saltare il vertice previsto per domani primo ottobre che aveva il compito di valutare le possibili soluzioni alla questione delle Grandi Navi. Manifestazioni, dibattiti, proposte, scontri verbali anche violenti... tutto alla malora, assieme al Governo delle larghe intese. Per essere più precisi, l’iter burocratico non si farà fermare neppure dalla crisi. Le audizioni previste, dal Governatore Luca Zaia a Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale, dai rappresentanti dell’associazione armatori al sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, andranno avanti come da tabella ma, in assenza di un Governo capace di ascoltare prima e decidere dopo, tutto sarà solo una grande perdita di tempo. La faccenda ha fatto girare non poco i cosiddetti al sindaco Orsoni: “E' con incredulità che voglio sottolineare l’atteggiamento irresponsabile dei ministri dimissionari che non tiene minimamente conto delle difficoltà che sta vivendo il nostro Paese e il momento delicato che stanno attraversando gli enti locali. Siamo di fronte a una classe politica che non è degna di questo Paese. Chiedo che siano ugualmente adottati i provvedimenti che interessano i Comuni per evitare gravissime conseguenze sui loro bilanci derivanti direttamente dalla mancata adozione”. Navi a parte, la partita riguarda anche il bilancio del Comune che, dopo aver fatto i proverbiali salti mortali per quadrare il cerchio, adesso non sa più come chiudere.


La crisi ha preso in contropiede anche i Pro Grandi Navi. Più che un comitato o una associazione si tratta di un gruppo di lavoratori del settore, impegnati a difendere lo status quo dietro motivazione del tipo: “Non è vero che le grandi navi inquinano”, “Le crociere portano benessere a tutta la città” e “Senza le grandi navi a Venezia non verrebbero più turisti”.
Durante la manifestazione, in orario di lavoro e regolarmente retribuita, organizzatagli da Cruise Venice, venerdì 27 davanti al municipio, i loro portavoce hanno incontrato il sindaco Orsoni che ha ribadito che l’amministrazione non ha competenza sulle acque e che comunque intende sostenere le possibili alternative atte a salvaguardare il lavoro ma anche la laguna. Una posizione inaccettabile per chi ha come obiettivo solo il mantenimento dell’attuale situazione. E così Orsoni è stato apostrofato "un sindaco dei no-global che ci prende in giro". Tanti cartelli, tanti slogan per dire che sarebbero rimasti a tenere il presidio sino a che non sarebbero state accolte le loro rivendicazioni, per poi smobilitare tutti insieme e puntualmente alle ore 13,30, alla fine dell’orario di servizio.
Ma crisi o non crisi, un attimo di riflessione e di abbassamento dei toni, non può che giovare a chi in merito alla questione delle Grandi navi cerca una soluzione praticabile e, per quanto possibile condivisa, volta a tutelare prima di tutto l’ecosistema lagunare. A questo proposito, riportiamo il comunicato firmato dall’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin.
“Chi, a Venezia e sotto gli occhi del mondo intero, subordini la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema lagunare, agli interessi dei giganti della crocieristica, anche se animato dalle migliori intenzioni finirà per creare gravi danni alla città e alla stessa attività che vorrebbe difendere.
Proporre soluzioni che rinviino di anni i primi provvedimenti concreti, significa infatti esasperare un clima che, giustamente, vede l’opinione pubblica più vasta sempre più preoccupata per quanto succede, di fronte alla scena dei transatlantici a San Marco, ai guasti certificati che provocano e ai rischi potenziali che si corrono.
Altresì, proporre soluzioni che implichino pesanti manomissioni della laguna, del suo equilibrio idrogeologico, significa continuare ad alterare un quadro già gravemente compromesso, in particolare proprio nella laguna centrale.
Non c’è ricatto politico o economico, non c’è manifestazione di categoria, di interesse particolare, non ci sono pubblicità a pagamento né infami campagne intimidatorie e personalizzate, compresi gli investigatori privati assoldati allo scopo, che possano far passare simili proposte né in città né in Italia, né di fronte all’Europa e al mondo.
Per questo, oltre che sbagliate sono proposte perdenti che screditeranno, in prospettiva, un’impresa che ha invece bisogno di essere ricondotta a un profilo sostenibile.
Porto Marghera può invece rappresentare un passo importante in questa evoluzione, dando una prima risposta anche se ancora parziale e consentendo di avere il tempo necessario sia per misurarne fino in fondo le implicazioni specifiche (a partire dalla compatibilità con la vocazione industriale e portuale commerciale dell’area, che va ribadita) sia per valutare ogni altra possibile alternativa senza, tuttavia, lasciare intanto insopportabilmente tutto come sta.
Se ognuno farà razionalmente e limpidamente la propria parte, faremo tutti un passo avanti, gradualmente ma in tempi certi, senza perdere tempo, senza perdere la storica opportunità di tornare a legare insieme virtuosamente i destini dell’ecosistema e di un’attività da secoli presente che necessita oggi di un positivo ripensamento”.

Quando è il padrone ad ordinare la serrata. Pro Grandi Navi in piazza col Tutto Pagato

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E hanno pure il coraggio di chiamarla “manifestazione spontanea”! Quella che si svolgerà domani mattina davanti a Ca’ Farsetti a favore delle Grandi Navi è talmente spontanea che chi non ci va rischia di venir licenziato. Vocabolario alla mano, l’unito termine che ci viene in mente per definire la situazione è “ricatto”.
“I dipendenti di imprese e società, impegnate nel settore e vincolate a rapporti con Venezia Terminal Passeggeri Spa - ha scritto il consigliere Beppe Caccia in una interrogazione formalizzata ieri al sindaco di Venezia - stanno ricevendo in queste ore da parte dei datori di lavoro email e sms indirizzate alle proprie caselle di posta e alle proprie utenze telefoniche personali che ‘invitano’ a partecipare alla manifestazione, diffondendo notizie del tutto false e infondate (se le navi saranno spostate a Marghera ‘le Compagnie rinunceranno e non ci sarà più lavoro’), ricattando implicitamente ed esplicitamente i lavoratori (‘vogliamo vedervi tutti presenti con parenti e amici, è in gioco il nostro e di conseguenza il lavoro’) e pretendendo conferme per iscritto a tale imposizione a partecipare (‘mail con richiesta di conferma’)”. Una manifestazione “spontanea” indetta dalle aziende e nel silenzio totale dei sindacati. Eppure, ai bei tempi che furono, erano questi ultimi a dichiarare le mobilitazioni per tutelare il lavoro. O ricordiamo male che è passato troppo tempo?



Ma il lavoro, domani davanti a Ca’ Farsetti, non c’entra niente. Come nota Caccia, “La propaganda delle multinazionali delle crociere è falsa. Se il terminal venisse spostato, casomai, ci sarebbe un aumento delle possibilità occupazionale e non una diminuzione”.
Eppure è così, nel nome del lavoro, che i padroni del vapore hanno deciso di rispondere alla grande manifestazione popolare di sabato 21: obbligando i propri dipendenti a “manifestare spontaneamente” e portando pure le famiglie, altrimenti...
Già. Altrimenti cosa? Ce lo spiega un lavoratore, sul cui nome manteniamo un ovvio riserbo, che ci ha spedito questa mail: “Gentile, ho ricevuto questa mail da ** Non so se loro hanno il diritto di obbligarci a manifestare ma non ritengo che questo tipo di approccio sia di loro competenza (non sono di certo un sindacato o qualcosa del genere). Purtroppo loro hanno il coltello dalla parte del manico e non vorrei che tutti quelli presenti alla manifestazione rischiassero il lavoro. Non so se lei possa fare qualcosa ma siete gli unici ai quali possiamo rivolgerci e di cui ci fidiamo”.
Nella mail inviata da “loro” cui accenna il nostro anonimo, spedita in allegato, si legge (in maiuscolo): “Mail con richiesta di conferma. Attenzione importantissimo. Venerdì 27 settembre è stata finalmente organizzata (da chi?ndr) una manifestazione pro navi in marittima. La presenza di tutti è (sottolineato.ndr) assolutamente necessaria”. Quindi si elenca le ragioni. In caso di spostamento a Marghera: “Molte compagnie rinunceranno a Venezia e (in maiuscolo.ndr) non ci sarà più lavoro)”. Conclusione: “E’ ora che chi lavora e quindi beneficiato dal lavoro (bontà loro.ndr) offerto dalle navi si faccia sentire. Quindi vogliamo vedervi tutti presenti con amici e familiari. Attendiamo vostro riscontro”.
Eccola qua la manifestazione “spontanea”. A casa mia si chiama crumiraggio.
Quando lo sciopero lo proclama il padrone, andare a scioperare è come andare lavorare. Solo che va lasciata a casa la dignità. Ci sono dei vantaggi però. Più urli e più hai possibilità di fare carriera in azienda. Se porti la famiglia, ti aspetta pure l’encomio del caporeparto. E poi la giornata ti viene pagata interamente. Di questi tempi...
Sì. Avete letto bene. Manifestazione “pagata!” e con tanto di punto esclamativo. Lo si legge negli sms, vedi immagine, che sono stati girati a Caccia (non tutti i dipendenti delle Crociere sono convinti che lavorare vuol dire vendere l’anima) e che il consigliere ha allegato alla sua interrogazione. “Ciao il 27 manifestazione in comune ore 11 calcolata come giornata lavorativa! Pagata! Spargere la voce, e darmi gentilmente conferma”.
Onde per cui, domani mattina, quando dalla linea 1 vedrete quel capannello di persone davanti al municipio con cartelloni del tipo “Grandi Navi = benessere per tutti”, “Le sigarette provocano più decessi delle Crociere”, “Senza di noi non ci sarebbe più turismo”, sappiate che stanno semplicemente lavorando. C’è crisi e tocca fare un po’ di tutto per campare.

Venezia il giorno dopo. Tutti contro le Grandi navi

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Il giorno dopo, tutti a dire che avevamo ragione noi. La manifestazione a difesa di Venezia con tanto di pentole e tuffo in canale dei piccoli Davide contro i giganti Golia, ha suscitato la simpatia del popolo del web che l’ha fatta girare nei social network e nei notiziari di mezzo mondo. Perché Venezia all’estero fa audience perlomeno quanto il raddrizzamento della Costa Concordia in Italia. Ma anche a casa nostra, la nuotata contro corrente di tante sirene e sirenetti che ha impedito il passaggio ai brutti mostri del mare si è guadagnata stima ed elogi anche da ambienti notoriamente non inclini all’impegno ecologista. Quello dello spettacolo, ad esempio, con Mara Venier, Patty Pravo, Celentano, Linus e altri ancora.


La provocazione delle multinazionali crocieristiche che hanno voluto dare una dimostrazione di forza schierando in un solo giorno una “flotta di guerra” di ben dodici Grandi Navi, ha avuto sabato la risposta che si meritava. Una sfrontatezza insostenibile nel piano politico, la loro, come le Grandi Navi sono insostenibili in quello ambientale.
E così la prova di forza alla fine si è rivoltata contro di loro, e si è trasformata in una straordinaria giornata di lotta grazie a un centinaio di attivist* dei centri sociali che in mattinata hanno “fatto visita” al terminal delle crociere all’interno dell’aeroporto internazionale di Tessera, a oltre un migliaio di veneziani inferociti che hanno affollato la riva delle Zattere e a una cinquantina di indomit* ragazz*, con il loro tuffo in acque non calmissime né limpidissime.
E grazie a tutti loro, oggi nessuno si azzarda più ad affermare che le Grandi Navi siano “normalità” e non un autentico problema per Venezia. Unica eccezione è il bilioso comunicato del
Venezia Terminal passeggeri che si ostina a contestare i dati degli arrivi e delle partenze. Comunicato cui ha risposto l’assessore all’Ambiente. “E’ inutile che i portavoce di Vtp contestino i numeri sui transiti di navi a Venezia in questo fine settimana - ha risposto Gianfranco Bettin -. Sono numeri tratti dalle fonti ufficiali. Tra sabato e domenica a Venezia sono attese dodici navi di stazza superiore alla 40mila tonnellate e 6 di stazza inferiore. Totale: 36 transiti come avevamo scritto. Vtp continua a considerare normale tutto questo, senza voler capire che, in una città come Venezia, è proprio questa 'normalità' a essere abnorme agli occhi del mondo”.  
Anche il sindaco Giorgio Orsoni è intervenuto sulla questione rilasciando questa dichiarazione all’Ansa: "Adesso è l'ora delle decisioni, ma delle decisioni immediate”. E riferendosi alla manifestazione: “Ci si renda conto che questo è lo stato d’animo dei veneziani, che io condivido.” E ancora: “Questa è la punta dell'iceberg di un malumore diffuso nella città di Venezia del quale chi è deputato a decidere le soluzioni deve ormai considerare”.
Soluzioni sì, ma quali? Il ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, che prima di sabato, parlava ancora di “numero chiuso”, ha sposato la tesi dell’opzione zero. "E' mia intenzione proporre nella prossima riunione di ottobre un percorso che porti all'opzione zero del passaggio delle Grandi Navi su Venezia - ha dichiarato all’Ansa - partendo da uno spostamento di quote crescenti su Marghera in attesa di soluzioni strutturali definitive".
Quali saranno queste “soluzioni strutturali definitive” è ancora tutto da scoprire. Il comitato Grandi Navi ha già fatto sapere che non accetterà soluzioni peggiori del male come lo scavo di altri canali o la realizzazione di mega porti all’interno di una laguna fin troppo cementificata.
Contro le Grandi Navi si è scoperto all’improvviso anche il governatore veneto, Luca Zaia. «È un'immonda schifezza nel senso che è un problema che va risolto. Siamo assolutamente favorevoli all'uscita delle navi dal canale della Giudecca e dal bacino di San Marco ma è fondamentale che si decida e si decida velocemente. Ci sono diverse ipotesi, noi sosteniamo che il punto di arrivo dev'essere quello di mantenere l'occupazione, che interessa quasi 5 mila lavoratori, ma anche e soprattutto di non inquinare. Per esempio, le navi quando arrivano in banchina devono spegnere i motori». Bisognerebbe spiegare a Zaia che le Grandi Navi non possono spegnere i motori neppure quando sono all’ancora perché se l’impianto di areazione non funziona in fondo alle stive o nelle cabine interne la gente morirebbe soffocata. Inoltre, riaccenderli prima della partenza inquinerebbe in pochi minuti più che mantenerli al minimo per tutta la durata della sosta. Ma, soprattutto, il governatore leghista del Veneto chiacchiera bene davanti alle telecamere, ma razzola molto male nelle occasioni e negli atti ufficiali: Zaia sostiene infatti lo scavo del canale Contorta e il mantenimento delle navi in Marittima.
Come era prevedibile, a favore dell’allontanamento delle Grandi navi dalla laguna si è schierato l’intero arcipelago ambientalista. Riportiamo solo una nota del Fondo Ambiente che recita “E’ necessario mettere fine a questo cinico abuso della città. Un consumo che dà meno di quanto riceve e distrugge il nostro futuro” e ha lanciato un appello ai ministri dell’Ambiente e dei Beni Culturali e pure al Capo Dipartimento della Protezione civile. Prevenire i disastri, riteniamo, è meglio che farci la diretta televisiva dopo.
E nella mattinata di domenica, il presidente del consiglio Letta ha annunciato per il prossimo 1° ottobre un vertice del governo “per definire le modalità dello stop alle grandi navi davanti a Venezia”. “Sarebbe ora – ha commentato il consigliere comunale veneziano Beppe Caccia - visto che il decreto Clini Passera, con il divieto al transito in bacino di San Marco e canale della Giudecca, è datato 1° marzo 2012, cioè oltre un anno e mezzo fa. Ma l’annuncio del governo è già un primo significativo risultato ottenuto dalla giornata di lotta di sabato.”

Con pentole, mestoli e coperchi: tutti alle Zattere per difendere la nostra laguna

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Quando passerà la prima nave, verso le 16, saremo tutti là, sulla riva delle Zattere, per salutarla con pentole, mestoli e coperchi. Un rumoroso comitato d’accoglienza per far capite a tutti che Venezia non rimane passiva davanti all’invasione di una “flotta di guerra” che porta solo inquinamento e devastazione ambientale. Una città come la nostra, dall’equilibrio fragilissimo, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, non può accettare di trasformarsi in una autostrada per consentire il transito di 12 grattacieli galleggianti. Dodici Grandi Navi che non spegneranno i loro motori neppure quando ormeggeranno nelle banchine della Marittima. Dodici grandi navi ciascuna delle quali inquina come 14 mila automobili. Basta moltiplicare questo numero per 12, e dividere poi per il numero dei residenti per accorgersi che è sabato, per le strette calli di Venezia, sarà come se circolassero tre automobili per ogni residente, bambini compresi. Una proporzione inconcepibile per una città che è per antonomasia la “città senza auto”.


Sabato sarà come se 12 elefanti entrassero in una cristalleria. Per le compagnie crocieristiche sarà una dimostrazione di forza, di arroganza e di sfrontatezza coadiuvata dal silenzio della Capitaneria di Porto, dalla complicità dell’autorità portuale e dall’inerzia del governo e dei ministeri competenti. Anche il Comune, se si esclude la ferma presa di posizione dell’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, sembra adagiarsi sulle proposte - alcune delle quali, come abbiamo già scritto, peggiori del male - in discussione nelle sedi romane e ha lanciato il programma della Settimana Europea per la Mobilità sostenibile senza spendere una riga sul transito delle grandi navi in laguna.
A tenere la trincea della difesa della laguna, il solo assessorato all’Ambiente che, in collaborazione con l’Arpav, ha installato centraline per monitorare, prima, dopo e durante il passaggio delle Grandi Navi, il rumore e la qualità dell’aria tramite
i parametri correlati alla combustione (polveri sottili, idrocarburi policiclici aromatici, anidride solforosa, ossidi di azoto e monossido di carbonio, e altro).
In attesa dei risultati della analisi, c’è poco da stare allegri. Come ha sentenziato il professor Axel Friedrich, già direttore dell'Ente nazionale tedesco di protezione ambientale: “L'inquinamento di fondo a Venezia è peggio di quello di Pechino”.
Friedrich, come abbiamo letto in un articolo su Global Project, è venuto in laguna proprio per girare un documentario per la televisione pubblica tedesca, evidentemente più sensibile a certe tematiche che la nostra Rai, proprio per monitorare la criticità del passaggio della Grandi Navi in un ambiente delicato come la nostra laguna.
Non è una novità che il futuro della nostra città desti più preoccupazione all’estero che in patria. Così come non è una novità che a difenderla si levino le voci di personaggi pubblici - non ultimo Celentano che oggi ha addirittura acquistato una pagina sul Corriere per denunciare “l'Eterno Funerale delle bellezze del mondo" - piuttosto che di ministri e politici.
Spetta a noi tutti, domani alle Zattere, a partire dalle 14,30, dimostrare che anche i veneziani sanno alzare la voce per difendere la loro città. Quella Venezia che è sì patrimonio dell’Unesco e dell’umanità intera, ma anche e soprattutto un
nostro patrimonio, la nostra casa, il nostro primo bene comune.

Come se non bastasse la flotta! Attenti alle navi ma anche alle “soluzioni”

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Un proverbio veneziano recita “pezo el tacon che el sbrego”. Come dire che qualche volta il rimedio può essere peggiore del male. Lo sanno bene gli attivisti del comitato cittadino contro le Grandi Navi che sabato prossimo, 21 settembre, a partire dalle 14,30 si troveranno alle Zattere non solo per ribadire che Venezia è incompatibile con il passaggio di questi mostruosi grattacieli galleggianti ma anche che la soluzione del problema non può essere né lo scavo di canali alternativi né lo spostamento del terminal crocieristico in un’altra zona della laguna. Anche il numero chiuso, proposto dal ministro per l'Ambiente, Andrea Orlando, non farebbe altro che lasciare le cose come stanno, salvo evitare insostenibili affollamenti come quello previsto, per l’appunto, sabato, quando ben 12 maxi navi da crociera transiteranno a pochi metri da piazza San Marco.


La questione invece non sta nel numero. Dodici grandi navi sono insostenibili per il delicato ecosistema lagunare, esattamente quando una sola grande nave. Non si tratta di quantificare il danno ambientale ma di evitare il danno ambientale. “L’unica opzione accettabile - afferma in una nota il comitato - è l’opzione zero: fuori tutte le grandi navi da crociera dalle bocche di porto”
Quelle grandi navi che a Venezia portano solo inquinamento e devastazione. Nessuno sostiene ancora che un tale incontrollato flusso turistico - sabato sbarcheranno ben 30 mila persone, una ogni due veneziani - porti ricchezza alla città, considerando che sono tutti turisti da “pacchetto offerta” tutto compreso a bordo. A Venezia altro non rimane che pagare le spese senza guadagno alcuno.
Sono cose queste, che le stesse compagnie crocieristiche non possono non sapere. E proprio per questo sabato, rilanceranno la posta in gioco facendo arrivare questa specie di flotta di guerra in uno stesso giorno. Al tavolo delle trattative potranno così, bontà loro, abbassare le pretese fingendo di accettare “per amore della città” un numero chiuso che si accorda con i loro reali interessi.
Così come sarebbero disposti ad accettare lo spostamento del terminal in un’altra zona della laguna o lo scavo di un ulteriore canale dall’altra parte della Giudecca. “Pezo el tacon che el sbrego”, per l’appunto. A troppe persone, la crisi di un intero sistema non ha insegnato niente. Si persegue con la logica delle Grandi Opere, inquinanti e costose, che divorano ambiente e creano nuovi disagi, pur di non approdare a soluzioni più economiche e concrete, rispettose dell’ecosistema, ma che danneggerebbero i santi introiti delle grandi finanziarie.
Ve lo figurate lo scavo di un mega canale di 2 chilometri a fianco della Giudecca? Qualche milionata di spesa per trovarci con un’isola in mezzo alle correnti di una laguna che oramai è diventata un braccio di mare aperto. E in caso di incidente, cosa cambia se la nave si incaglia 100 metri più in là di piazza San Marco? Vogliamo davvero vedere altro “spettacolo televisivo” come il raddrizzamento della Costa Concordia in mezzo alla laguna? Farà anche audience ma preferiamo di no!
Per quanto riguarda il rilascio di polveri e ossidi di azoto, poi, che il terminal sia di qua o di là nella laguna, non cambia niente. Casomai, più è lontano dalle bocche di porto, maggiore è la strada da percorrere per la nave e più inquina.
Ed è anche per valutare la portata dell’inquinamento regalatoci da questi mostri del mare assai più pericolosi di un kraken, che sabato sarà una giornata memorabile.
L’assessorato all’Ambiente ha già chiesto la collaborazione di Arpav per monitorare accuratamente l’eccezionale situazione che si creerà con il via vai autostradale delle 12 grandi navi. “Cercheremo di misurare in particolare il rumore, le polveri sottili e gli ossidi di azoto e di osservare gli spostamenti di masse d’acqua e le variazioni di marea che provocheranno queste navi - ha dichiarato l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin -. Si tratterà, in un certo senso, di un esperimento enorme sulla pelle viva dei veneziani, al quale, certamente, ci saremmo sottratti volentieri”.
“A questo proposito, nel ribadire che ogni verifica possibile sarà da noi compiuta quel giorno, chiediamo invece fin da ora a ogni autorità competente e in particolare alla Capitaneria di Porto e all’Autorità portuale se ritengono di poter accettare che tale situazioni si verifichi - ha concluso un preoccupato Bettin -. Se, in altre parole, certificano fin da oggi che quel giorno l’eccezionale addensamento di transatlantici a Venezia e il cumulo dei loro effetti ambientali non produrrà nessuna situazione di pericolo e di danno o se, invece, non ritengano di dover applicare fin da subito, fin da quel giorno, quel numero chiuso di cui si sta già discutendo”.

Il giorno dell’assalto

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Sabato prossimo, 21 settembre, non sarà un giorno come gli altri per Venezia. In Marittima sono attese 771.987 tonnellate di ferro galleggianti. Sarà il giorno dell’assalto, dell’inquinamento da polveri sottili e ossidi di azoto, della distruzione dei fondali, delle onde anomale (con che coraggio i vigili multeranno i barchini perché tirano a manetta in Bacino?) Sarà il giorno del “via vai” autostradale di un treno di tre chilometri di Tir alti come grattacieli a un tiro di fionda dalla Basilica. Quella Basilica per la quale la Soprintendenza vieta - e giustamente - di tenere concerti in piazza per non danneggiarne i delicati mosaici. Sarà sopratutto il giorno del “il Governo sta discutendo le alternative? Il Comune vorrebbe il numero chiuso? E noi facciamo vedere a lui e a tutti quanti che continuiamo a fare quel cazzo che vogliamo”. L’arrivo delle 12 Grandi Navi va letto sopratutto come una vergognosa provocazione delle multinazionali delle crociere.


Non è neppure un caso che tutto ciò avvenga proprio mentre la Tv - quando ci dà un attimo di tregua dalle tormentose vicende di Silvio - ci assilla con i filmati del recupero della Costa Concordia. Il tutto presentato con la massima spettacolarità, senza ricordare che con catafalchi del genere in giro per i mari gli incidenti sono sempre in agguato. Una vera e propria pubblicità gratuita per le crociere su queste specie di villaggi turistici galleggianti.
Ma l’assalto delle 12 Grandi Navi va letto anche come un rilancio della posta in gioco proprio nel momento in cui si discute di alternative e di laguna a “numero chiuso”. E’ in questa ottica che le multinazionali delle crociere stanno mettendo le mani avanti. Domani potranno dire: “Dodici son troppe? Bontà nostra, siamo disposti a scendere a sei”. Un po’ come si contratta nei mercati orientali, partendo dal doppio per arrivare a metà.
Ed è proprio per questo che sabato prossimo, alle 14,30 alle Zattere dobbiamo esserci tutti. Per far capire alle multinazionali che hanno passato il segno e per ricordare agli amministratori della città ad al Governo che l’unico “numero chiuso” che ci piace è lo zero. E che l’unica alternativa che accettiamo è che questi mostri marini, col loro carico di inquinamento e di brutture, girino al largo dalla nostra laguna.

Ztl Wake Up. Treviso in assemblea all’ex Telecom

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Il 9 giugno di quest’anno, con l’elezione di un sindaco “normale” (Giovanni Manildo avrà i suoi bravi difetti ma quanto meno non dice di voler vestire i migranti da leprotti per la gioia dei cacciatori) Treviso si è risvegliata da un incubo. Risvegliata ma non ancora rialzata in piedi. Per vent’anni la città è stata un vero e proprio laboratorio del dottor Frankenstein dove lo scienziato pazzo col suo aiutante “Gobbo“ Igor cucivano insieme cadaverici mostri maleodoranti di razzismo, xenofobia, fascismo, intolleranza, paure e vigliaccherie per poi dare vita al tutto con i fulmini che non mancano mai dell’ignoranza più abietta. Vent’anni duri da mandar giù. Vent’anni in cui i giornali di mezzo mondo riportavano periodicamente le “sparate” dei sindaci sceriffi e chi leggeva non poteva fare a meno di domandarsi che razza di persone fossero i cittadini-elettori di tali personaggi.


Ma per l’altra Treviso, quella che si vergognava pure per chi non aveva vergogna, sono stati anche vent’anni di resistenze, di iniziative e di battaglie spesso perdute ma che hanno visto sempre gli attivisti dello Ztl rialzarsi immediatamente in piedi per aprire nuovi fronti e alzare nuove barricate. La storia infinita del loro spazio sociale occupato, sgomberato, rioccupato, risgomberato e ancora rioccupato, non so più quante volte, lo sta a dimostrare.
In nomen omen, qualcuno potrebbe ironizzare, visto che Ztl sta proprio per Zona Temporaneamente Liberato. Ma come un boomerang, lo Ztl torna sempre indietro.
Sette giorni fa, come abbiamo scritto su Global, le ragazze ed i ragazzi di Treviso sono tornati per la terza volta all’ex Telecom, restituendo alla città, con l’ultimo grano di un rosario di occupazioni, un’area sociale. Uno spazio, questo dell’ex Telecom, abbandonato ad un colpevole degrado e sui cui veri interessi che ci sono sotto vi rimandiamo all’interessante reportage - un pulito esempio di giornalismo d’inchiesta - che gli attivisti trevigiani hanno pubblicato sempre su questo nostro sito. Subito, lo hanno utilizzato per organizzare iniziative culturali e politiche, mercatini contro la crisi, e il Gram Festival. Al sindaco Manildo che ha chiesto loro di avanzare qualche proposta per uno spazio, loro hanno risposto di venire qui che gliela fanno toccare con mano la loro proposta.
Questo pomeriggio nel capannone centrale dello spazio recuperato a due passi dalla stazione ferroviaria, si è svolta una affollata assemblea per discutere sul futuro dello spazio. Perlomeno duecento i partecipanti all’incontro. Tutti seduti su quelle panchine che i giovani di Ztl chiedevano anche di firmare. Perché a Treviso anche una panchina può essere pericolosa per l’ordine costituito. Come diceva lo Sceriffo, ci si potrebbe sedere sopra addirittura un migrante senza le orecchie da leprotto.
Strana città questa. Una città che dopo essersi svegliata da un incubo deve combattere anche per alzarsi in piedi. Perché una cosa è sicura. Fino a che a Treviso non ci sarà uno spazio sociale autogestito non potrà dire di essersi scrollata di dosso l’ingombrante eredità di troppi sindaci sceriffi.

Grandi opere e malaffare a Venezia: arrestato Giovanni Mazzacurati, il padre del Mose

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Trent’anni alla guida del Consorzio Venezia Nuova con libero accesso alle “stanze che contano” di ministri, presidenti e assessori regionali. Trent’anni da imprenditore di successo a collezionare medaglie e cavalierati. Trent’anni da protagonista della “politica del fare” tutta incentrata sull’economia delle Grandi Opere, per ritrovarsi una bella mattina d’estate agli arresti.
Una uscita di scena quantomeno poco elegante questa di Giovanni Mazzacurati, ingegnere padovano ottantenne, conosciuto per essere il “padre” del Mose. Due settimane prima del suo arresto da parte delle Fiamme Gialle, avvenuto nella prima mattinata di oggi, si era dimesso dalla presidenza dl consorzio adducendo qualche problemino di salute. Con lui sono stati colpiti da provvedimenti cautelari altre 14 persone tra cui il consigliere del Consorzio Pio Savioli, il dipendente Federico Sutto e vari rappresentanti legali e amministratori delle società di costruzione che facevano riferimento a Venezia Nuova. Tutti imputati per una serie di reati tra cui turbativa d’asta e falsa fatturazione.
L’operazione denominata “Profeta”, che ha portato a decapitare un’altra testa dell’idra che gestisce le grandi opere della nostra Regione, non avrebbe, secondo quanto dichiarato dal procuratore Luigi Delpino, nulla a che vedere con l’arresto nel febbraio scorso per false fatturazioni di Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani SpA. Azienda che è il principale azionista del Consorzio Venezia Nuova.



Secondo gli inquirenti, Giovanni Mazzacurati dirottava ad imprese “amiche” grazie ad appalti predeterminati, le vagonate di denaro pubblico destinate al Mose, frazionando i lavori in modo da accontentare anche le aziende minori grazie ai contributi provenienti dalle pubbliche amministrazioni. Tutti soldi dei cittadini che arricchivano pochi speculatori senza scrupoli.
Va da sé che, con questo sistema gonfiato che faceva riferimento in prima persona a Mazzacurati, i lavori venivano a costare allo Stato fino a tre o quattro volte tanto.
Così come per Baita, anche per l’ex presidente del Consorzio, l’ipotesi di reato è quella della costituzione di ingenti fondi neri. La Finanza ha accertato, per ora, un giro di fatture gonfiate di 6 milioni di euro solo per quanto riguarda i sassi utilizzati per le dighe a mare il cui costo veniva fatto lievitare dall’azienda chioggiotta che aveva l’appalto tramite una compravendita fittizia con una società di comodo con sede legale in Austria.
Il sospetto comunque è che quanto appurato dalla magistratura sia soltanto la punta del classico iceberg di un sistema di tangenti e di appalti fittizi che ha devastato la laguna, per non dire il Veneto, con il solo scopo di dirottare denaro pubblico nelle mani di faccendieri privati.
Fatto sta che tra le varie imputazioni al vaglio dei finanzieri c’è anche la creazione di "fondi neri in quantità industriale", come è stata efficacemente descritto in conferenza stampa. Lo stesso Giovanni Mazzacurati è stato dipinto senza pietà come un “padre padrone” senza scrupoli che gestiva denaro pubblico con criteri non certo finalizzati al bene comune e che decideva quali aziende favorire, quali no e cosa chiedere in cambio di un appalto.
Le domande cui rimane da rispondere agli inquirenti a questo punto sono: dove sono finiti i proventi derivanti dalle false fatturazioni e soprattutto come e per cosa sono stati utilizzati questi soldi.
La domanda invece alla quale l’operazione “Profeta” ha già risposto è quella che gli ambientalisti si erano posti sin dall’83, anno in cui venne istituito il Consorzio Venezia Nuova, bypassando le amministrazioni locali e commissariando di fatto una problematica delicata come la salvaguardia della Laguna di Venezia ad un pool di aziende private per forza di cose più inclini al guadagno personale che all’ambientalismo. E cioè: considerando che il Mose non serve certo a salvare Venezia dall’acqua alta, perché lo vogliono assolutamente realizzare?
“L’arresto di Mazzacurati - ha commentato Beppe Caccia, consigliere della Lista ‘in comune’ - ha dimostrato ancora una volta che le grandi opere infrastrutturali, realizzate attraverso procedure straordinarie e sottratte ad ogni controllo dei cittadini, sono il cuore del malaffare e della costruzione di veri e propri sistemi di potere finalizzati all'accaparramento di enormi risorse pubbliche da parte di pochi”.
Il Mose, ha spiegato Caccia, deciso e sostenuto trasversalmente da governi nazionali di ogni colore, nonostante e contro il parere dei cittadini e del Comune di Venezia, ne è un esempio lampante.
“Il denaro pubblico - spiega il consigliere - è stato gestito, grazie al perverso meccanismo della concessione unica da parte dello Stato, senza alcuna trasparenza e fuori da ogni verifica, delle opere per la salvaguardia di Venezia, da un consorzio di imprese private, i cui metodi sono oggi sotto gli occhi di tutti”.
Nell’augurarsi che le indagini gettino piena luce su come sono stati impiegati e a chi sono stati dirottati i fondi neri accumulati all'estero dal Consorzio Venezia Nuova e dai suoi soci, Beppe Caccia invita il parlamento a calendarizzare al più presto l'esame dei disegni di legge di riforma della Legislazione speciale per Venezia “restituendo trasparenza a questa delicata materia e piena sovranità alla comunità locale sul suo territorio.”

A Sacca Fisola tra gondolieri cinesi e aeroporti francesi

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Spetta a “Il gondoliere cinese” aprire questo pomeriggio il ciclo di incontri della “tre giorni” contro le Grandi Navi e le Grandi Opere. Questo infatti è il titolo del romanzo dello scrittore ed ambientalista veneziano Lucio Angelini (Supernova editore, 2013). Siamo a Sacca Fisola, nella grande sala dell’impianto polisportivo dell’isola. Il campeggio sta crescendo di tenda in tenda man mano che arrivano gli ospiti nazionali e internazionali che domenica daranno vita alla grande manifestazione “par tera e par mar”. Accanto alla piscina comunale, sul lato dell’isola che volge alla laguna sud, Big Mike sta preparando il concerto serale. Il tempo tiene. E’ una bella giornata che - finalmente - ci regala un anticipo d’estate. Nelle grande sala, le sedie sono state messe a circolo. Non per mancanza di spettatori ma per restare fedeli a quello “spirito informale e famigliare”, come si legge nel programma, che caratterizzerà tutti gli appuntamenti.
Apre l’incontro Tommaso Cacciari del laboratorio Morion, che sintetizza l’obiettivo della “tre giorni”: denunciare l’intr

eccio politico affaristico che sta dietro tutte le Grandi Opere, quelle “galleggianti” comprese, e rivendicare Venezia e la sua laguna come un bene comune da tutelare.

Spetta a Flavio Cogo del comitato No Grandi Navi, intervistare l’autore del libro. “Il gondoliere cinese” è essenzialmente un noir che ha come protagonista principale... Venezia. Una Venezia mercificata, ben lontana dai fasti della Serenissima. Il romanzo dai toni forti descrive le pratiche sessuali sadomasochistiche basate sulla dominazione e la sottomissione cui indulgono i protagonisti. “Ho scelto appositamente uno sfondo scandaloso - spiega Lucio Angelini - perché questo si sposa perfettamente con lo scandaloso degrado in cui è precipitata l’ex Dominante. Il personaggio del mio libro che, per denaro, accetta di mercificarsi sino ad assumere l’identità di un cane ha un parallelo con le umiliazioni che la nostra città è costretta a subire ogni giorno. Con la non insignificante differenza che Venezia non è neppure pagata!”

Conclusa tra gli applausi la presentazione del libro, in attesa degli altri ospiti internazionali il cui arrivo è previsto per domani, intervistiamo la francese Roseline Amelot Pigat, ingegnere navale (ha lavorato sei anni anche nei cantieri di Monfalcone dove si sfornano, per l’appunto, le Grandi Navi) ed attivista del - ve lo scrivo in italiano - comitato contro l’aeroporto di Notre Dame di Landes. Una storia, questa, tutta da ascoltare e che nasce nel ’67 sull’onda della "politique de grandeur" del generale Charles de Gaulle. In un piccolo villaggio della Bretagna assediato dalle legioni di Cesare...

http://youtu.be/gaZ7uzSiSTM

Tre giorni di mobilitazione per dire No alle Grandi Navi

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Domenica 9 giugno si comincia presto e si parte alla grande. Alle 8 e mezza dalla stazione di Padova, alle 9 da quella di Monselice. Da Vicenza si sale sul treno alle 8 in punto. Da Macerata e dalle Marche arrivano col pullman e così da Bologna e dall’Emilia Romagna. Tutti a Venezia, dove l'appuntamento per domenica 9 giugno è alle 10 a piazzale Roma per la manifestazione diretta via terra all'ingresso del Terminal portuale crocieristico e alle 16 all'imbarcadero di San Basilio per il corteo acqueo.  E intanto, da qualche giorno, nell’isola di Sacca Fisola a rimboccarsi le maniche per allestire il campeggio nello spazio polisportivo, ospiti della Cooperativa Il Cerchio, dove stanno arrivando i primi partecipanti alle mobilitazioni. L’isola lagunare che sorge all'imbocco del canale della Giudecca - proprio quello che giornalmente viene percorso dai questi mostruosi alberghi galleggianti - sarà il cuore delle tre giornate dedicate all’evento No Grandi Navi. Il primo appuntamento di discussione nel pomeriggio di venerdì con la presentazione del libro di Lucio Angelini “il gondoliere cinese”, pubblicato da Supernova Edizioni. In serata festa e concerti con Soul Riot, Big Mike e Almost Inside.


Intanto, fioccano le adesioni alle iniziative che hanno già coperto gran parte dei comitati e movimenti che si battono a difesa dell'ambiente e del territorio. Per l’elenco completo così come per il programma integrale della giornate, ci si può collegare al SITO DEL COMITATO NO GRANDI NAVI di Venezia.
Una mobilitazione di tale portata, non ha mancato di ottenere i primi risultati anche a livello  istituzionale. E’ notizia di giovedì che il ministro per le Infrastrutture e i Trasporti Maurizio Lupi ha  fissato per il 13 giugno la prima convocazione di un tavolo a Roma, proprio per discutere di alternative al passaggio delle Grandi navi nel bacino di San Marco. Senza dubbio un primo risultato della mobilitazione dei cittadini veneziani, dal momento che il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni aveva invano richiesto da un anno la convocazione di una specifica riunione del Comitato interministeriale per la salvaguardia di Venezia, che fosse dedicata alla questione.
La battaglia però è ancora lunga e difficile, nonostante l'enormità dell'impatto ambientale e del pericolo rappresentato dalle navi da crociera in transito. Come fa notare il consigliere della lista "In Comune" Beppe Caccia, nella riunione del prossimo 13 giugno, il sindaco sarà solo a confrontarsi con i rappresentanti delle società armatoriali italiane ed europee, e con quegli stessi organi dello Stato che hanno finora unicamente tutelato gli interessi della potente lobby delle crocieristica (lo stesso ministero dell'Ambiente, la Capitaneria e l'Autorità Portuale di Venezia). Escluso ad esempio dall’incontro il ministro Massimo Bray, titolare del dicastero dedicato alle attività culturali che pure svolge un ruolo non indifferente nella tutela di un patrimonio monumentale e artistico di cui l’intera Venezia e la sua laguna fanno parte.
Ed è a Bray che si è rivolto Beppe Caccia, invitandolo ad intervenire a difesa di Venezia allontanando il rischio “che al centro del confronto non stiano i beni comuni così pesantemente aggrediti dalle grandi navi, ma ben precisi e consolidati interessi economici. E che il tutto si concluda con un nulla di fatto o, peggio, con l'adozione di soluzioni peggiorative quali lo scavo di nuovi profondi canali”. Per questo, conclude, bisogna arrivare al "definitivo  allontanamento dalla Laguna dei natanti con essa incompatibili, prima che sia troppo tardi”.
Intanto il Comitato No grandi navi ha chiesto alla Capitaneria di porto, all'Autorità portuale (responsabili in materia) e a Venezia Terminal Passeggeri (la società che gestisce l'arrivo delle crociere) che il giorno delle mobilitazioni si trasformi in una vera "domenica ecologica". Cioè che il 9 giugno non partano né arrivino a Venezia i mostri del mare. La risposta è stata l'arrogante conferma nel traffico programmato e, da parte della Questura, l'allarme per "possibili infiltrazioni" tra i manifestanti. La Prefettura ha diffuso un comunicato in cui, dopo aver garantito il massimo impegno per lo svolgimento della manifestazione, avverte che non saranno tollerate "violazioni di legge". Le prescrizioni dettate dal questore Roca per il corteo della mattina prevederebbero il divieto di sostare davanti all'ingresso del porto alla Marittima e vorrebbero imporre una conclusione della manifestazione lontano dall'area portuale.
Ma né i divieti, né la propaganda allarmistica scoraggiano la mobilitazione. In un comunicato diffuso dal comitato organizzatore si invita anzi a rafforzare la partecipazione ad una “tre giorni contro le Grandi Navi” che sia un reale momento a difesa di un bene comune che sta nei cuori di tutti: Venezia con la sua laguna.  

L'Europa oltre l'Europa

euro
Dall’Est all’Euromediterraneo. Incontri senza confini
Parte da Venezia l’Europa in movimento
Cronaca della prima giornata del convegno

E’ cominciato come doveva cominciare. Con un grande e commosso applauso in memoria di don Gallo. “Un uomo che è e che sempre rimarrà nei cuori di chiunque lotti per cambiare il mondo”, come lo ha ricordato in apertura Vilma Mazza.
E’ cominciato così la “due giorni” di incontri sul tema L’Europa oltre l’Europa organizzata da Global Project e European Alternatives. Il freddo quasi autunnale e la ventilata minaccia dell’acqua alta, sottoposta ai capricci di un imprevedibile vento di scirocco, non hanno compromesso la partecipazione di un folto pubblico che ha affollato la sala messa a disposizione dallo Iuav.
Questo primo appuntamento, coordinato da Vilma Mazza direttore di Global Project e da Lorenzo Marsili European Alternatives,è stata dedicata ai movimenti internazionali.
“Non perdiamoci a descrivere cose che già sappiamo - ha invitato Vilma Mazza - come le politiche di austerity o le repressioni, ma cerchiamo piuttosto di utilizzare questo incontro per costruire un ragionamento comune. Ragionamento che è tutt’altro che scontato. Nessuno di noi vuole tornare indietro nell’orologio della storia. Fermarsi a sostenere che l’Europa ci opprime rischia di sfociare in derive nazionalistiche. Piuttosto troviamo una strada comune per abbattere questa idea di Europa e costruirne una con una geografia politica diversa capace di guardare verso l’Euromeditteraneo”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Lorenzo Marsili che osserva come ogni ragionamento sull’Europa è soggetto a due poli di attrazione: quello dello status quo e dell’austerità sostenuto da politiche socialdemocratiche sempre più blande, e quello del nazionalismo xenofobo di chiara impronta fascista.



Tema al quale si riaggancia il primo ospite: il giornalista greco Argiris Panagoupoulus. “Ultimamente ho viaggiato parecchio per il sud dell’Europa - spiega - e ho visto dappertutto la stessa rabbia. Ma come si fa a costruire una Europa democratica partendo da un Paese come la Grecia che democratico non può più definirsi?” Argiris racconta episodi di precettazioni forzate e di un diritto fondamentale, come quello dello sciopero, che non esiste più. “Che diritti ci rimangono allora? Quello di andare a votare ogni quattro anni dopo un violento bombardamento di menzogne televisive?” Quindi esamina il caso greco di Syriza. “Mettere insieme le tante anime della sinistra greca è stato un rischio... nucleare! Eppure lo abbiamo fatto perché avevamo qualcosa di dire alla gente. Questa è una strada che mi auguro anche l’Italia sappia seguire. Sono stato in piazza con la Fiom e ho visto una piazza senza rappresentanza istituzionale“.

Parola alla Spagna e al redattore di Diagonal pablo Elorduy. Impossibile che il discorso non cada sugli indignados. “In Spagna la situazione è diversa. La sinistra tradizionale, quella che affondava le sue radici nel comunismo, e non la destra, è violentemente antieuropea. Il governo socialista ha seguito una politica ugale a quella dei conservatori e che si limita a predicare austerità e tagli al welfare. Abbiamo assistito ad un processo di svuotamento dello Stato cui sono rimasti solo i compiti di controllo sociale e di spoliazione dei beni comuni. Contro tutto questo è nato il movimento degli indignados, che ha messo in luce la carenza di democrazia e la crisi della rappresentanza. Cosa ne è ora di questo movimento? Si è verificato un ritorno al territorio e una attenzione alle battaglie locali”. Ammettendo che, rispetto ad un ragionamento europea gli indignados sono in forte ritardo, Pablo conclude con un parallelo musicale, invitando tutti i movimenti locali a “suonare la stessa musica”.

Anno zero anche in Romania, come spiega Iulia Popovici di CritcAtac. A Bucarest le proteste contro la casta politica e contro l’austerity hanno ottenuto solo di affobdare un governo di destra per lasciare spazio ad una coalizione socialista e liberalista in cui i più liberisti sono proprio i socialisti. “I nostri governanti sono proni ai comandi di Bruxelles e più pronti ad andare contro al loro stesso popolo che ai comandi della troika. Da anni stanno privatizzando tutto il privatizzabile e anche qualcosa di più”. Addirittura, racconta Iulia, anche il sistema di ambulanze di prima emergenza è in mano ai privati. Per quanto riguarda l’Europa, in Romania non ci sono Euroscettici. “L’Europa viene vista come un mercato aperto del lavoro. Ricordiamoci che nel mioPaese la migrazione è un cardine sociale e culturale”.

Claudio Gnesutta di Sbilanciamoci riprendo in mano la dicotomiia tra democrazia e capitalismo, osservando come questi due termini non si sposino bene assieme. “Siamo di fronte ad una rivoluzione dall’alto che significa che le regole sociali le sta riscrivendo l’alta finanza. Sino ad oggi c’è sempre stato un compromesso tra il sociale e l’economia. Adesso non c’è più bisogno di questo compromesso. L’economia ordina come deve organizzarsi la società. La finanza comanda perché può decidere come e dove devono spostarsi i capitali a livello globale. Si è assunta il diritto di decidere priorità, meriti e metodi, forte di una forte classe dirigente e di una forte egemonia culturale”. Gnesutta osserva come anche tanta sinistra abbia digerito il principio che l’economia è dominante in una società. Dove sta l’alternativa allora? “Riportando al centro il lavoro e i suoi diritti, ponendo la questione sociale sopra quella economica. Il problema non è euro sì o euro no, ma come cambiare le politiche economiche dell’Europa”.

Di rivoluzione dall’alto parla anche Francesco Raparelli di Dinamopress. “Ma piuttosto che usare questo termine preferssco quello di costituente neoliberale, preferisco parlare di saccheggio più che di economia. I salari, il welfare sono il primo bersaglio di questa costituente che tenta di trasformare la crisi in opportunità. Non è un caso che la grande finanza ha ripreso ad investire nei titoli di Paesi in bancarotta come la Grecia”. Quella che a parere di Raparelli ci attende è una stagione di grandi turbolenze sociali. “Non possiamo liquidare il problema come la supremazia dell’economia sulla politica. Il, problema è che si governo solo a sostegno del mercato. Non c’è un vuoto di politiche ma nuove politiche”. Impossibile pensare a rifondare questa Europa dal basso senza fare i conti con l’euro che, secondo Raparelli, è la quintessenza dell’Europa e un caposaldo di questo processo. Eppure sulla questione “euro sì o euro no” i movimenti non hanno ancora preso una posizione forte. “Grillo sta per lanciare il referendum contro l’euro. Noi cosa gli opponiamo?” domanda. Raparelli non si nasconde di non avere la soluzione in tasca e offre alla platea due possibilità: la moneta comune oppure “far uscire la Germania dall’euro. Intendo, istituendo zone di moneta diversificate nell’Europa. Cose fuori dal mondo? Può darsi. Di sicuro c’è solo che così come è, l’euro non può essere preso per buono”.

Il giurista austriaco Leo Specht descrive come stiamo vivendo la fine del compromesso sociale su cui si era fondata la nostra società ed in cui anche alle classi deboli veniva concesso l’accesso alla ricchezza sociale. “Il welfare di cui abbiamo goduto sino ad ora era organizzato su base nazionale ma l’attacco è venuto dall’Europa e non c’è stata difesa”. Specht propone di rovesciare la logica europea puntando su economie locali. “Le politiche europee si basano sul binomia economia e mercato ma ci sono tante forme di mercato, anche di creative e di sperimentali in grado di creare vere alternative”.

Srecko Horvat organizzatore del festival croato Subversive cerca di dare una risposta alla fondamentale domanda “Che fare?” e risponde raccontando un aneddoto riguardante Ho Chi Min al quale una delegazione di comunisti italiani aveva chiesto come poteva fare per sostenere la sua battaglia. Il leader vietnamita rispose “Quando tornate in Italia fate la rivoluzione che abbiamo bisogno di alleati”. “Magari non la rivoluzione - scherza Srecko, cui va dato l’innegabile merito di aver risvegliato la platea raccontando qualche episodio divertente - ma è innegabile che in tutta l’Europa qualcosa si muove. Il rischio è quello del Gattopardo, che cambi tutto per non cambiare niente”.

La parola passa al giornalista del Manifesto Marco Bascetta che ha denunciato il pericolo che le critiche all’Europa provengano solo da basi nazionaliste grazie anche alla nostra incapacità di pensare all’Europa in termini politici. Attenzione alla Germania, afferma, “in cui si sta affermando un nazionalismo basato su criteri di competitività”. L’evidente fallimento delle politiche di austerity, conclude, non ha comportato un retromarcia “perché sono sempre state giustificate sostenendo che non erano state applicate bene o in maniera completa”.

Per Raffaella Bolini dell’Arci, i pezzi di un processo alternativo ci sono e sono sparpagliati per tutta l’‘Europa. Il problema è che sono nascosti da una cappa di egemonia culturale liberista che non lasci spazi. “Ora ci cullano con il miraggio di una imminente crescita ma sono solo escamotage elettorali. L’unica crescita sarà per gli speculatori che riescono pure a passare per salvatori dell’economia”. Raffaella Bolini racconta di come il Governo greco abbia invitato i gruppi finanziari francesi a gestire le risorse idriche privatizzate del loro Paese per “aiutare” il popolo greco. “In queste condizioni, come si fa a far capire alla gente che il futuro è nella cooperazione e non nella competività?” si chiede. E conclude ottimisticamente: “Se c’è una cosa in cui noi italiani siamo sempre stati bravi è la cooperazione. Abbiamo costruito reti, associazioni, raccolte di firme e quant’altro per la Palestina, il Chiapas... Adesso è il momento di sostenere quelle realtà europee che resistono, nonostante se ne parli poco. In Grecia ci sono gruppi di mutuo soccorso di gente che non ha niente e aiuta chi non ha niente, in Romania interi paesi sono sulle barricate contro le privatizzazioni. Sosteniamoli come abbiamo sostenuto altre battaglie. Forse non riusciremo ad aiutare loro, ma certo aiuteremo noi a capire quale europa vogliamo”.

Conclude questo primo appuntamento Beppe Caccia che comincia con una citazione di buon auspicio di Nietzsche “Solo chi ha dentro il caos può partorire una stella”. Per il consigliere comunale della lista In Comune, l’eterogeneità che caratterizza i movimenti più che una risorsa può essere un rischio. “Per rendere costituente e produttiva questa eterogeneità bisogna partire da punti fermi. Siamo alla preistoria di un discorso politico europeo e dobbiamo rendercene conto. le forza in campo sono enormemente sproporzionate perché l’accumulazione capitalistica ha ristretto gli spazi che prima erano di competenza del lavoro. Per rovesciare questo quadro è indispensabile uscire da vecchie e comode certezze del passato. A monte della crisi c’è una trasformazione epocale del lavoro. Quello citato nel primo articolo della Costituzione non esiste più e più tornerà”. Caccia nota che che la parola “cittadini” presente nel sottotitolo del convegno, “per un patto costituente tra cittadine e cittadini”, è equivoco. “Perché questo termine, nelle politiche europee è stato usato in maniera escludente. L’Europa che vogliamo è una Europa dai confini più ampi, che guarda verso l’est e verso il Mediterraneo. Abbiamo bisogno di allargare i confini di questa Europa oltre le vecchie barriere. Abbiamo bisogno di cittadini insorgenti, perché senza conflitto non potremo mai aprire una fase costituente dal basso”.


Dal movimento all’istituzione. Incontri senza confini
L’Europa tra la crisi della rappresentanza e la politica dall’alto
Cronaca della seconda giornata del convegno


Spazio alle istituzioni, in questo secondo appuntamento del seminario l’Europa oltre l’Europa. La cornice prescelta non poteva che essere la sala consigliare di Ca’ Farsetti, sede del municipio di Venezia che si affaccia su un canal Grande fortunatamente miracolato dall’acqua alta. A far gli onori di casa, il consigliere comunale Beppe Caccia in collaborazione con Segolene Prunot.

Apertura a Ugo Mattei che focalizza il suo intervento sulla centralità dei beni comuni.
“Quando leggiamo che Delors e altri economisti invocano la necessità di apportare riforme strutturali all’Europa, sappiamo che parlano delle riforme imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale che continuano ad avere come obiettivo una ipotetica e futura crescita. Il nostro obiettivo, al contrario, è proporre una visione alternativa a questo riformismo già rivelatosi fallimentare. Perché la crescita, possiamo esserne certi, non ci sarà più”. In quanto alla crisi della rappresentanza, Mattei osserva che “un sistema che pensa ad una Europa sempre più simile ad uno Stato federale non è una soluzione. La causa di questa crisi non sta nella mancanza di sovranità del un Governo centrale ma nella mancanza di sovranità nel locale. Lo scontro sul livello della costituente è sorto proprio perché il sistema capitalista non tollera più quel poco di sovranità ancora concesso ai territori”. Come affrontare allora la sfida costituente? “intanto bisogna superare vecchi concetti come quello di destra e di sinistra. Non dobbiamo porci lo scopo di rifondare la sinistra ma trovare un linguaggio comune tra tutti coloro che non credono che l’accumulazione capitalista possa essere un criterio fondante dell’Europa”. Per Mattei, bisogna ripartire dai beni comuni portando la battaglia nel locale e, in particolare, nell’istituzione del Comune, come ente amministrativo più vicino ai cittadini. Un concetto questo, ribadito in tanti interventi. “Sforziamoci di costruire istituzioni nuove che si oppongano alla concentrazione verticistica del potere in nome della governabilità. Superiamo le vecchio distanze tra pubblico e privato. Poniamo al centro della nostra azione, sia nei movimenti che nelle istituzioni, concetti come l’inclusione, l’ecologia e un nuovo modo di stare assieme. E smettiamola di dare credito a quanti affermando che l’economia, prima o poi, tornerà a crescere!”

Con Theano Fotiou, parlamentare di Syriza, si torna a parlare di Grecia. Fotiou cita il motto della rivoluzione francese, libertà, fraternità ed uguaglianza, per ricordare come la politica europea promuova soluzioni completamente opposte. “Con i livelli di disoccupazione che abbiamo in Grecia come si fa a parlare di democrazia? Con le leggi che ogni giorno il parlamento approva e che sono contro la nostra costituzione, come si fa a parlare di democrazia? Queste sono le premesse ottimali per il fascismo. Noi in Grecia siamo arrivati al capolinea prima degli altri ma sula nostra stessa strada siete incamminati anche voi italiani. L’alternativa, non è il ritorno agli Stati nazionali ma una radicale rifondazione dell’Europa che abbia come base i cittadini e non la finanza”.

Voce fuori del coro, quella di Francesco Martone, responsabile degli esteri di Sel che polemizza con Mattei: “se non vogliamo più parlare di destra e di sinistra come possiamo combattere quello che sta succedendo in Ungheria dove si è imposto un regime fascista?” Anche la battaglia, secondo Martone, non va combattuta sul locale - “non c’è più tempo per ricostruire l’istituzione Comune” - quanto piuttosto dai banchi del parlamento europeo. Banchi ai quali sarà presumibilmente uno dei prossimi candidati di Sel. E conclude invitando la platea a “dare più forza alla propria rappresentanza al parlamento europeo”.

Addirittura sul “tragico ruolo del parlamentare europeo” si sofferma Niccolò Rinaldi, per l’appunto, parlamentare europeo nelle file dei liberali e democratici. Tragico ruolo in quanto “le nostre scelte sono distanti dal sentire comune dei cittadini”. Rinaldi si sofferma sul ruolo centrale del parlamento “espressione di democrazia diretta”, e paventa alle prossime elezioni l’arrivo di una forte rappresentanza euroscettica.

Roberto Musacchio di Altramentenota come la centralità della crescita abbia inquinato anche il pensiero socialista. “Le prossime elezioni saranno un vero e proprio referendum sull’Europa” commenta e bacchetta il relatore che lo ha preceduto, il parlamentare Rinaldi, sulla “distanza tra l’istituzione europea e il comune sentire del cittadino” osservando che “come dopo il disastro di Chernobyl tutti si sono informati su cosa è il nucleare, stavolta tutti si sono informati su cosa sia l’Europa”. Sulla questione euro sì o euro no, Musacchio ricorda che “già la lira era stata privatizzata dall’allora ministro Andreatta. L’euro non ha fatto altro che portare a termine un percorso già avviato. In questo nuovo panorama, ha ragione Ugo Mattei quando afferma che destra e sinistra sono uguali. Bisogna tornare al senso effettivo di questi parole. Spazio quindi alle politiche di movimento, ai beni comuni ad una nuova politica sul reddito. Proprio il diritto al reddito potrebbe rivelarsi un cardine fondamentale per scardinare l’Europa della grande finanza. Rovesciamo l’egemonia culturale liberista. Considerato che c’è tanta gente che lavora senza reddito, battiamoci per il diritto al reddito senza lavoro”.

Più come ex portavoce di Sbilanciamoci che come neo deputato di Sel - “all’opposizione” sottolinea -, interviene Giulio Marcon che osserva come la politica risponda solo alle logiche del mercato. “La questione sta nel riportare la finanza sotto il controllo dei cittadini. Questa è l’unica risposta alla crisi”. Per democraticizzare l’Europa, Marcon individua tre strade parallele: la democrazia diretta di cui i referendum sono lo strumento più efficace, la democrazia locale come focalizzato da Mattei e anche la rappresentanza elettorale.

Città e popoli sono il focus su coi si concentra l’assessora all’Ambiente del Comune di Venezia, Gianfranco Bettin, definite “le prime vittime delle politiche europee”. “Il patto di stabilità europeo ha colpito e mortificato proprio i Comuni che sono sempre stati, soprattutto in Italia, il cardine della partecipazione sociale e anche culturale dei cittadini. Il processo di spossessamento dei beni comuni ha investito le città perché queste erano il primo presidio di queste ricchezze di tutti”. Proprio sul terreno delle città quindi, si giocherà la partita determinante “tra i due poli dell’eurocrazia e del populismo. Sarà indispensabile allora aver maturato una sintesi politica in grado di dare una risposta razionale ma anche comprensibile a popolazioni impoverite e angosciate”. Un percorso che ci faccia uscire tanto dalla rassegnazione che ci porta ad accettare ingiuste ed inefficaci politiche di austerity, quanto dalle “nebbie di un populismo che oscilla tra rigurgiti fascisti e tentazioni di affidarci a vuoti demagoghi”. Ripartire quindi dallo spazio metropolitano per costruire una nuova condivisione dei beni comuni ma facendo attenzione che, di per sé, il ritorno al Comune non basta per garantire questo percorso. Bettin fa l’esempio dell’Arsenale di Venezia, recentemente tornato sotto la gestione del Comune. Un passo positivo, senza dubbia, ma non sufficiente a garantire un suo usufrutto slegato dalle logiche di mercato.

Applauditissimo l’intervento conclusivo di Lorenzo Marsili di European Alternatives. Uno che non te le manda a dire. “Parliamoci chiaro. Se pensiamo di andare alle elezioni raccontando alla gente che siamo per l’Europa ma che vorremmo rifondarla sulla base dei diritti, andiamo a perdere. La gente ci manderà tutti a cagare e fa bene a mandarci a cagare. Perché il tono delle danze lo sta dettando Beppe Grillo col referendum sull’euro. Cosa fare allora? Andare tra gli euroscettici per tornare a seguire le stesse politiche liberiste con una lire inflazionata piuttosto che con l’euro? Credo piuttosto che dobbiamo imparare a radicalizzare la nostra proposta alternativa”. Marsili non si nasconde che il nemico è un nemico invisibile. “Il drago dell’alta finanza” lo chiama. “Ma questo drago ha una rappresentanza politica che è ben visibile in figure come il cancelliere tedesco Angela Merkel”. Marsili conclude citando la “rivoluzione giacobina” proposta da Toni Negri. “I nostri eventuali candidati devono avere chiaro che vanno al parlamento europeo per sovvertire il parlamento europeo. Altrimenti, è meglio che se ne stiano a casa”.


Dal conflitto internazionale alla costituente europea
I movimenti sociali per una Europa dei popoli e dei diritti
Cronaca della terza giornata del convegno


Dopo la vetrina istituzionale di Ca’ Farsetti, il convegno l’Europa oltre l’Europa organizzato da Global Project e European Alternatives si sposta alle Zattere, all’interno degli antichi magazzini del sale della repubblica serenissima, negli spazi gestiti da Sale Docks.
Stavolta tocca ai movimenti e ai loro portavoce gestire la maratona di interventi conclusivi che durerà tutto il pomeriggio sino a sera in una lunga e partecipata assemblea. All’incirca una trentina i relatori che si alternano ai microfoni dopo l’introduzione di Omeyya Seddik, ricercatore tunisino e protagonista della Primavera di Tunisi. Provengono da tutta Europa: dalla Spagna alla Gran Bretagna, dalla Grecia alla Romania, senza trascurare le tante realtà di lotta per la democrazia e i beni comuni e contro le grandi opere attive nel nostro Paese. Il bilancio e il racconto delle varie mobilitazioni, lascia presto spazio alla preparazione dei prossimi appuntamenti come l’Alter Summit di Atene sabato e domenica 8 e 9 giugno, o Occupy Frankfurt in programma nel prossimo fine settimana.

Il passaggio di tre enormi navi da crociera proprio davanti alla fondamenta dove si apre il portone di Sale Docks - uno “spettacolo” che non ha mancato di lasciare esterrefatti gli ospiti stranieri - ha commentato meglio di tanti discorsi l’invito di Tommaso Cacciari del Morion a partecipare all’imminente “tre giorni” in difesa della laguna di Venezia, in programma da venerdì 7 a domenica 9 agosto. “Come abbiamo verificato anche al recente Social Forum di Tunisi, in cui sono stati discussi molti casi simili, questo sistema economico predatorio usa la politica delle grandi opere, portata avanti nel nome di un interesse generale che alla fin fine si riduce all’interesse di pochi privati, per devastare il territorio e impossessarsi dei beni comuni. Anche la laguna per noi veneziani è un bene comune e anche noi abbiamo le nostre grandi opere devastatrici. Una di queste sono quei mostri galleggianti che avete visto passare qui davanti e che distruggono l’ambiente lagunare, la città d’acqua e compromettono la nostra salute a vantaggio esclusivo degli interessi delle multinazionali del turismo. Per dire no alle grandi navi e per difendere Venezia e la sua laguna, e per ribadire che ambiente e salute non sono merci da cui trarre guadagno, invitiamo tutti a partecipare al queste giornate di lotta”.
La nuova Europa comincia anche da qui.

Finanza o democrazia? Un convegno per un nuovo patto costituente tra cittadini e cittadini

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Venezia, e non a caso. La città lagunare, storico “ponte” mediterraneo di scambi tra oriente ed occidente, tra settentrione e meridione, sarà la sede del convegno internazionale di due giorni “L’Europa oltre l’Europa”, che si svolgerà venerdì 24 e sabato 25 maggio. In allegato, potete scaricare il ricco programma della manifestazione che, proprio per dare una idea della varietà delle discussioni prevsite, si terrà sia in sedi istituzionali come le sale messe a disposizione dallo Iuav o dal Comune di Venezia, quanto in spazi autogestiti come il Sale Docks. L’iniziativa è stata presentata questa mattina a Ca’ Farsetti.
Perché un convegno sull’Europa?
Perché, si legge nel documento di presentazione dell’incontro, “tre anni ininterrotti di politiche di austerity hanno profondamente modificato la costituzione materiale dell’Unione Europea. Il processo di integrazione economica e finanziaria appare oggi guidato da poteri economici e politici estranei alla stessa cornice istituzionale dei Trattati. La fase costituente dall’alto che stiamo subendo si sta dimostrando post- e anti- democratica. Tanto più che ciò si verifica nel contesto di una gestione della crisi finanziaria ed economica che sta impoverendo drammaticamente il continente e allargando la forbice delle diseguaglianze sociali ai danni di molti”.



Il seminario è stato organizzato da Global Project e da European Alternatives e si inserisce in un percorso che continuerà in Germania, a Francoforte, con Occupy Frankfurt, e in Grecia, ad Atene, con Alter Summit.
“Quando abbiamo lanciato la proposta di questo incontro sull’Europa - spiega Vilma Mazza, direttore di Global Project- non ci aspettavamo una risposta così entusiastica. Lo stesso numero dei relatori, provenienti non solo da pressoché tutti i paesi europei ma anche dall’area mediterranea e dall’est, e che supera la quarantina, è un dato che la dice lunga sulle dimensioni di questa ‘due giorni’ di incontri. Tra loro ci sono esperti, amministratori locali, rappresentanti di movimenti. Tre categorie che difficilmente troviamo all’interno della stessa sala di convegno ma che, proprio per questo, abbiamo voluto far incontrare. In questa Europa arroccata dietro alle decisioni della troika e dove gli spazi di democrazia si restringono sempre di più, riteniamo che sia necessario costruire una azione multipla e pensare ad un linguaggio condiviso per poter incamminarci verso un deciso cambiamento di rotta”.
“Come Comune siamo molto interessati a questo convegno e, in generale, a questo tipo di percorsi che intrecciano esperienze di base e ed esperienze amministrative - commenta Gianfranco Bettin, assessore all’Ambiente del Comune di Venezia -. L’Europa in cui ci riconosciamo di più è quella dei popoli e delle città, che poi costituiscono la vera radice dell’Europa. Due dimensioni che oggi sono entrate in crisi e poste sotto continuo attacco dal quell’Europa che prevale in questo momento, che è soprattutto quella delle oligarchie finanziarie. Oggi i popoli soffrono le politiche del rigore e le città sono il fulcro della leva con cui vengono applicate tali politiche nel welfare e nei beni comuni. Beni sotto continua pressione per essere ceduti e, con loro, cedere anche sovranità. L’affacciarsi di una diversa idea di Europa, in grado di produrre tanto pratiche amministrative quanto pratiche di conflitto capaci di opporsi a quanto avviene, è, per noi tutti, non soltanto importante ma addirittura vitale”.
Marco Baravalle di Sale Docks osserva come il convegno internazionale comprenda “un focus interessante sull’Europa dell’est e su Paesi di cui si parla poco, pur se negli ultimi anni sono stati al centro di politiche e di vicende contraddittorie come governance identitarie, euroscettiche e di estrema destra, ma anche di movimenti che si sono opposti a queste derive e dei quali sappiamo molto poco”.
“L’Europa oltre l’Europa - conclude Baravalle - sarà un appuntamento che ha come obiettivo essenziale quello di ridefinire che cosa intendiamo oggi con ‘Europa’, sia per trovare un linguaggio comune come ha detto Vilma Mazza che per costruire insieme pratiche amministrative e di movimento, come ha spiegato l’assessore Bettin. Oggi l’Europa è solo quella della troika e dell’austerity. E’ una Europa che non risponde democraticamente ai bisogni dei suoi cittadini, una Europa delle decisioni prese dall’alto col baricentro chiuso dentro le cassaforti dei gruppi finanziari. Durante il convegno, cercheremo di definire una Europa diversa, un’Europa dei diritti e dei movimenti sociali. Una Europa che abbia un centro di gravità mobile, pronto a spostarsi ad est o a sud, verso quello che non ha caso è stato chiamato l’Euromediterraneo”.
Perché, proprio come per il mondo, anche un’altra Europa è non solo possibile ma anche necessaria.

Venezia sceglie la differenziata. Chiude l’ultimo inceneritore di Fusina

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Inceneritore, addio! Venezia sceglie la strada della differenziata, del riciclo intelligente e del recupero energetico. In un incontro con la stampa, svoltosi questa mattina al municipio di Mestre, l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, ha annunciato che entro la fine dell’anno l’impianto di incenerimento situato a Fusina sarà completamente dismesso. Si chiude quindi un capitolo aperto nei primi anni ’90 quando la Regione Veneto, nonostante la contrarietà del Comune di Venezia e le accese proteste dei residenti scelse questo sito per costruire un discusso termovalorizzatore.
Un errore che, come ha osservato l’assessore Bettin, rese più lungo e difficoltoso il passaggio verso un ciclo dei rifiuti più moderno e sostenibile. Adesso però è arrivato il momento di voltare definitivamente pagina.



"La chiusura di questo impianto - ha spiegato Bettin - è una scelta strategica, nel segno della salute, dell’ambiente, della sostenibilità e dell’innovazione. E’ il frutto di un percorso virtuoso che da tempo l'amministrazione ha intrapreso e che consiste nel ridurre a monte la produzione di rifiuti grazie ad una raccolta differenziata spinta, raccoglierli in modo corretto per poi poterli riciclare o ricavarne energia, superando così il vecchio sistema di smaltimento, basato sul conferimento alle discariche e sugli inceneritori, come questo di Fusina per l’appunto, che bruciano i rifiuti senza trattamento”. Una chiusura resa possibile dallo straordinario aumento della percentuale di raccolta differenziata registrato nel 2012 ed in continua crescita. Una chiusura inoltre, che non comporterà nessuna perdita di posti di lavoro, considerato che i 22 dipendenti dell’impianto saranno dirottati ad altre mansioni nel nascente Ecodistretto del riciclo e dell’energia.
“Le emissioni dell’inceneritore di Fusina sono sempre state tenute sotto controllo e negli anni sono state realizzate molte migliorie all’impianto - commenta Bettin -. Ma rimaneva comunque una struttura superata ed inquinante, come lo sono tutti gli inceneritori. La sua chiusura eviterà l'emissione nell'atmosfera di 50 mila tonnellate all'anno di CO2. Un passo importante per la nostra città, che si aggiunge agli ottimi risultati già raggiunti in termini di minor conferimento di rifiuti nelle discariche”.
Una scelta decisamente in controtendenza in una Italia che dal punto di vista del ciclo dei rifiuti rimane il fanalino di coda dell’Europa, considerato che si continua a puntare su una politica di incenerimento con conseguente conferimento in discarica che oramai ha dimostrato tutti i suoi limiti. Eppure nel nostro Paese, circa la metà dei rifiuti prende questa strada fortemente inquinante contro il 5 per cento ottenuto a Venezia. Si continuano inoltre a costruire e a mettere in funzione costosi inceneritori, non ultimo il contestatissimo impianto di Parma.
L’inquinamento in altre parole, è ancora una industria che in Italia fattura bene anche in tempi di crisi ed a cui vengono destinate risorse pubbliche che sarebbe assai meglio dirottare verso soluzioni più virtuose e meno impattanti. Una politica fallimentare che comporta carissime ricadute alla società, all’ambiente e alla nostra salute.
Venezia, per fortuna, ha scelto una strada diversa.

Marghera. Oltre duemila persone in piazza per dire "riprendiamoci la città!"

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Eccola qua la risposta che ci voleva. Una piazza strapiena di gente senza partito e senza bandiere. Migranti di prima e di seconda generazione fianco a fianco di autoctoni di lunga discendenza. Commercianti, operai, impiegati, studenti, disoccupati e anche tanti consiglieri comunali e assessori a rappresentare con il sindaco il governo della città. Una città che non ha detto “no” soltanto alla cieca logica della sopraffazione. Le circa duemila persone che hanno dato vita alla manifestazione di venerdì 15 marzo, hanno ribadito un secco “no” anche alle politiche di esclusione, alle leggi speciali, agli inutili presidi militari, alle ronde padane e non. 
E’ questa qua la Marghera che vogliamo. Una Marghera dove uomini, donne e bambini si sentano “sicuri” di girare per le strade perché sono le loro strade. Le strade che hanno riempito dei loro sogni. Le strade di una città solidale, inclusiva, sostenibile e aperta. Sono queste le uniche strade da percorrere perché non si verifichino più tragedie come quella che ha portato alla morte violenta di Ajdin Isak. Sembra averlo capito anche il sindaco Giorgio Orsoni che rivolto alla gente ha dichiarato: “il nostro esercito siete voi”. 



E non è un caso che lo striscione più colorato, lo striscione che apriva la fiaccolata, fosse sorretto proprio dai migranti che hanno aderito in massa alla manifestazione. Un centinaio di loro si è ritrovato negli spazi del centro sociale Rivolta nel pomeriggio per preparare il cartello e avviarsi all’iniziativa assieme ai ragazzi della scuola Liberalaparola.
“Marghera viva - si leggeva nello striscione - libera e antirazzista”. Perché la violenza più pericolosa, quella che genera tante altre prevaricazioni, è quella dettata dalla paura razzista. Una città viva e libera è anche una città antirazzista ed accogliente. 
Questa è la bella lezione che è arrivata da Marghera. E viene da chiedersi in quante altre città d’Italia, un episodio odioso che ha avuto come vittima un cittadino migrante avrebbe ottenuto una risposta così civile ed efficace. Una bella lezione quindi che è anche il segnale di una città che sta maturando. 

Tangenti sotto il cemento

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Giovedì 28 febbraio, di mattina presto, accadono nel Veneto due fatti distinti ma strettamente legati tra di loro. Scivolando tra i canali lagunari, due grandi rimorchiatori trasportano ai cantieri situati tra il lido e gli Alberoni le prime paratie mobili che costituiranno il sistema Mose. Contemporaneamente, gli agenti della guardia di Finanza si recano a Mogliano, nella villa di Piergiorgio Baita, e lo tirano giù dal letto per accompagnarlo al carcere. Raccontano, le fiamme gialle, che il presidente della Mantovani si è pure stupito di trovarsi i finanzieri in casa di mattina presto, senza dargli neppure il tempo di bere il suo caffè. Chi lo sa? Magari ha fatto la stessa faccia che aveva fatto vent’anni fa, in piena Tangentopoli, quando finì in carcere più o meno per le stesse motivazioni con le quali ci è finito oggi: associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Disavventure che non gli impedirono in seguito - anzi! - di scalare le vette di grandi società finanziarie, frequentare i salotti buoni del potere e della politica, farsi assegnare appalti “fiduciari” per strade, ospedali, grandi opere e costruirsi un vero e proprio “impero di cemento”.


Con l’imprenditore, la cui difesa è già stata assunta dall’avvocato e senatore Piero Longo, il legale di Berlusconi, è stata arrestata anche Claudia Minutillo, ora amministratore delegato di Adria Infrastrutture, ma più conosciuta con l’appellativo di “Dogaressa” all’epoca in cui era la segretaria particolare di Giancarlo Galan e fungeva da perno di collegamento tra il Governatore Veneto e tutta la mandria di cementificatori e palazzinari che gli scodinzolava attorno. In manette anche un presunto console onorario di San Marino, William Ambrogio Colombelli - un “poveraccio” che al fisco dichiarava di guadagnare 12 mila euro all’anno e fatturava per 10 milioni di euro alla volta -, e Nicolò Buson direttore finanziario della Mantovani.
Quella Mantovani spa che a Venezia si legge Mose. Ma non solo. L’impero di cemento costruito da Baita comprende anche l’appalto principale per la realizzazione del prossimo Expo di Milano ma la fetta di torta più grossa era quella che la società si era ritagliata nel Veneto. Potremmo pure dire che nella nostra Regione, la Mantovani si è mangiata tutta la torta! Un vero e proprio asso pigliattutto a Rubamazzetto. Dall’ospedale all’Angelo al percorso del tram di Mestre, dagli interventi di difesa della laguna al passante di Mestre, dalla viabilità della base statunitense Dal Molin alle autostrade. Difficile trovare una devastazione ambientale dove non ci sia dietro lo zampino della Mantovani spa.
Secondo gli inquirenti, l’associazione a delinquere messa in piedi da Baita & C ruotava attorno ad una società con sede legale a San Marino verso la quale venivano emesse fatture false - accertati sempre secondo la guardia di finanza perlomeno 10 milioni di euro - i cui importi venivano in seguito prelevati in contati per essere restituiti all’imprenditore e alla “dogaressa” Minutillo. Frode fiscale quindi. Ma non solo. La domanda che bisogna porsi è: come venivano utilizzati questi fondi neri?
Proprio qualche mese fa, Beppe Caccia, consigliere comunale di Venezia per la lista In Comune, aveva rivolto un appello a Piergiorgio Baita per sollecitarlo a fare chiarezza e ad illustrare pubblicamente, i conti del Consorzio Venezia Nuova e del suo azionista di maggioranza, la Mantovani. Anche in virtù della non irrilevante considerazione che ciò che maneggiano questi signori non sono soldi loro ma risorse pubbliche!
Come c’era da aspettarsi, l’appello di Caccia è stato completamente ignorato dall’imprenditore e, allo stato delle cose, si capisce pure il perché. “Dal 1984, da quando cioè è partito il progetto del Mose, quasi trent’anni or sono - ha dichiarato Beppe Caccia in un suo commento pubblicato sul sito dell’associazione In Comune - della marea di danaro che è andata e che va spesa per quel progetto, solo una parte va a finanziare le opere, mentre una gran parte va a finanziare qualcos’altro”.
Cosa sarò mai “qualcos’altro”? Vediamo come saranno spesi gli ultimi 1.250 milioni di euro stanziati per il Mose dal Governo Monti nell'ultimo scorcio (sconcio) di legislatura. “Innanzi tutto una quota del 12% va a pagare non i lavori o la loro progettazione, ma l’attività di management del Consorzio Venezia Nuova: ciò significa che questa attività verrà finanziata nei prossimi quattro anni con 250 milioni di euro, oltre sessanta milioni all’anno. Chiunque abbia una qualche competenza in materia sa che si tratta di cifre assurde e del tutto spropositate. Mettendo l’occhio nei bilanci passati si vede poi che questa cifra aumenta considerevolmente attraverso attività affidate dal Consorzio ad altri soggetti  e rimborsate con cifre molto superiori a quanto effettivamente speso. Si può dunque pensare che i 250 milioni lieviteranno almeno fino a 300”.
“I 950 milioni restanti verranno spesi per i lavori. Ma come? Attraverso l’affidamento diretto alle imprese del Consorzio tra cui le indagate Mantovani SpA e le sue controllate come Palomar e senza gara di appalto. Anche pensando che la forte etica di quelle imprese non le induca a gonfiare le voci di costo (basterebbe informarsi in proposito presso i costruttori veneziani), qualora si facessero delle gare, come avviene in tutto il mondo civile, si otterrebbero dei ribassi medi sui lavori di circa il 30%. Ciò significa che se si facessero delle gare si risparmierebbero 285 milioni di euro, pur lasciando alle imprese la legittima remunerazione del proprio lavoro. Ripeto, questo sarebbe il risparmio minimo a fronte di conti ineccepibili da parte delle imprese. Per la precisione, in questa cifra ci sono anche costi di progettazione, magari fatta in famiglia con incarichi, sempre senza gare, dati da moglie a marito o da padre a figlio, ma non è questo il punto”.
Continua l’ambientalista: “Dunque, dei 1.250 milioni dati dallo Stato circa il 50%, cioè circa 600 milioni di euro non vanno a pagare le opere, ma vanno a un ristretto numero di persone che realizzano così assieme a degli impressionanti superprofitti, degli inspiegabili consensi e degli inspiegabili silenzi da decenni a questa parte. Ristretto numero di persone tra le quali va annoverata la rete dei “collaudatori”, che dovrebbero essere i controllori di ultima istanza, i quali si distribuiscono parcelle principesche e alla cui testa c’era fino a poco fa il noto Balducci”.
Per farla breve tutta l’operazione che ruota attorno al Mose rappresenta il più colossale e impressionante trasferimento di danaro dal pubblico al privato che si sia visto in Italia. Quando l’opera sarà finita (sempre che venga mai finita perché chi la realizza ha interesse ad allungare continuamente i tempi e ad aumentare continuamente i costi) della cifra spesa, solo poco più della metà sarà stato effettivamente speso nelle opere di salvaguardia.
E il resto? “Tutto ciò, che produce gravi distorsioni dell’etica e (a qualcuno potrebbe interessare) del mercato, e che viene pagato, come si dice oggi, ‘mettendo le mani nelle tasche degli italiani’, avviene in nome di Venezia - spiega Caccia -. Con il pretesto della salvezza della città che tutto il mondo vuole e che tutto copre è stata attivata una macchina per mangiare soldi che non si ferma di fronte a nulla”. E conclude: “Vogliamo la verità. Vogliamo sapere a cosa sono serviti questi fondi neri. Se sono state pagate tangenti, chi si è lasciato corrompere e perché”.
Da sempre, le associazioni ambientaliste e non solo oro, hanno sostenuto che le grandi opere come il Mose non servono a salvaguardare l’ambiente, anzi. Piuttosto queste operazioni sono strutturate per deviare finanziamenti pubblici verso colossi privati che li utilizzano non soltanto per cementificare il territorio ma anche per corrompere ed influenzare la politica, dirottandola dal cittadino e bypassando le amministrazioni locali verso ristretti gruppi di potere non di rado malavitoso.
Non è incredibile, riteniamo, che l’arresto di Baita & C sia avvenuto dopo lo tsunami elettorale che ha scompaginato gli equilibri politici. Non è neppure incredibile che il leader del centro destra, Silvio Berlusconi, abbia dichiarato in piena campagna elettorale che le tangenti sono una pratica necessaria per far girare l’economia. Quello che ci risulta davvero incredibile è che 7 milioni 332 mila e 972 italiani lo abbiano pure votato.
Ma questo punto, gli ambientalisti non possono più farsi bastare la soddisfazione di poter dire, ancora una volta, "visto che avevamo ragione noi?". Conclude Beppe Caccia "Ci auguriamo che questa sia la volta buona per fare pulizia e per liberare una volta per tutte Venezia e il Veneto da questo sistema malavitoso di intreccio tra politica ed affari".

Caso Abu Omar. La Corte d’appello condanna i vertici del Sismi

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Profondo sconcerto per la decisione dei giudici e grande rammarico per non essersi potuto difendere in aula “a causa del segreto di Stato che prova la mia innocenza, non la mia colpevolezza”. Così l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari commenta la sentenza “bis” della IV sezione della Corte d'appello del tribunale di Milano che lo ha condannato a dieci anni di reclusione per il sequestro dell’allora imam di Milano Abu Omar, avvenuto il 17 febbraio del 2003. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Pollari si paragona ad Enzo Tortora, “oggi è stata condannata una persona che tutti in Italia sanno essere innocente”, e non trascura di lanciare accuse e avvertimenti, più o meno velati, agli alti piani della politica (tutti quegli anni al Sismi, gli avranno pur insegnato qualcosa): “In questo processo io non sono mai stato messo in condizione di difendermi. Perché? È una domanda alla quale non so rispondere e che dovreste fare ad altri”. E continua: “I governi Prodi, Berlusconi e Monti (che hanno coperto l’operazione con il segreto di Stato.ndr) sono stati dunque i miei complici? E se lo sono stati perché nessuno li interpella?” Le linea difensiva di Pollari è quella del “buon soldato” che obbedisce agli ordini dei generali per amor di patria e che alla fine paga per tutti. “Lo stesso Governo - afferma l’ex capo del Sismi - ha messo per iscritto che le mie attività sono istituzionali e quindi sono lecite”. E conclude con il più classico degli “Ahi, serva Italia”: “Io sono un uomo abituato a rispettare la legge. Ma questo è un Paese di falsi moralisti in cui conviene essere scorretti e infingardi”.


Comunque la si pensi, è innegabile che il potere politico abbia giocato tutte le sue carte per impedire che si giungesse a questa sentenza di condanna. Proprio durante il dibattimento, anche il governo Monti, così come prima aveva fatto quello di centrodestra (Berlusconi) e quello di centrosinistra (Prodi), aveva esplicitamente ribadito la piena copertura del segreto di Stato sull’intera vicenda. Inoltre, a pochi giorni dalla sentenza, la presidenza del Consiglio dei Ministri ha sollevato un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nel tentativo di invalidare la sentenza della Cassazione che ha chiesto alla corte d’Appello di procedere con questo processo “bis” nei confronti di Pollari e dei suoi sottoposti.
Una mossa che non ha ottenuto gli effetti sperati, tanto è vero che la Corte si è ben guardata dal sospendere il dibattimento in attesa della decisione della Consulta ed anzi ha proceduto con la sentenza, accogliendo le richieste dell’accusa. Pollari è stato giudicato colpevole e condannato a 10 anni (il sostituto procuratore generale Piero De Petris ne aveva chiesto 12), 9 anni per Marco Mancini, all’epoca numero due del Sismi, e 6 anni gli agenti Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra, e Luciano Di Gregori.
Vicenda chiusa? Non ancora. Gli avvocati della difesa hanno già annunciato il ricorso alla Cassazione. Il legale di Marco Mancini, Luigi Panella, ha sollevato dubbi sulla legittimità della sentenza sostenendo che in questo processo "sono stati utilizzati atti coperti da segreto". Il che, va detto, contraddice quanto afferma Pollari, secondo cui i giudici non avrebbero utilizzato il segreto di Stato in quanto questo proverebbe l’innocenza degli imputati.
L’ex capo del Sismi comunque è assai esplicito nel ribadire la sua fiducia nella Cassazione. “E' una questione di civiltà giuridica - afferma - A cosa serve parlare di rapporti leali tra poteri dello Stato se poi sono soltanto mere enunciazioni di principio? La democrazia si esercita con i fatti e con la sincerità”.
Democrazia, appunto. Questa è la parola con la quale Nicolò Pollari giustifica il sequestro e le torture inflitte, prima nella base di Aviano e poi in Egitto, ad un cittadino egiziano perseguitato dal Governo di Mubarak ed al quale il nostro Paese aveva concesso l’asilo politico. Una persona sulla quale gravavano solo dei “sospetti”, peraltro mai confermati, di essere in contatto con cellule terroriste. Il “caso Abu Omar” non è stato altro che un rapimento in piena regola autorizzato dal governo Bush a pochi giorni dall’invasione dell’Iraq e compiuto da un commando di agenti della Cia - tutti condannati in via definitiva dalla corte di Cassazione - nel nostro territorio. Uno schiaffo alla nostra dignità democratica e alla nostra sovranità nazionale. Uno schiaffo al quale ben tre Governi non hanno saputo rispondere in altro modo che apponendo il segreto di Stato.

Profughi libici in corteo per la dignità e la libertà

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Freedom. Libertà. Possiamo lanciare decine di appelli e buttare giù pagine su pagine di analisi ma la vera motivazione che spinto alla mobilitazione i profughi dalla Libia, che questo pomeriggio a Venezia hanno dato vita ad un colorato corteo, è rinchiusa tutta in questa parola: freedom. “Perché manifestate? E cosa chiedete all’Italia?” chiedeva dietro alla telecamera, in un cattivo inglese, l’operatore della Rai. E loro - che l’inglese lo parlano quasi tutti correttamente, così come altre due o tre lingue - rispondevano con una sola parola: libertà. Quella libertà che fa rima con dignità e che, come ha efficacemente spiegato l’amico Aladi, profugo proveniente dalla Nigeria, “non può esistere senza una casa, senza un lavoro... senza una prospettiva di futuro”. Ed invece eccoli qua. a due anni dall’ennesima “emergenza” con la quale si continua ad affrontare in Italia come in Europa il problema della migrazione, come se il problema non fosse politico ma solo di ordine pubblico. Eccoli tutti qua senza casa, senza soldi, senza futuro. O meglio, con un futuro che assomiglia ad uno di quei buchi neri dello spazio profondo che inghiotte tutto e tutti, considerato che tra poco più di un mese, il 28 febbraio, scadranno le convenzioni con gli enti cui la prefettura ha dato l’incarico di provvedere la loro assistenza.


L’accordo stipulato tra la Caritas e la Prefettura di Venezia, che non ha neppure preso in considerazione la proposta della Rete Tuttiidirittiumani e di altre associazioni cittadine che si erano offerte di occuparsi dell’accoglienza a titolo gratuito, ha fissato il contributo statale in 46 euro al giorno a profugo. Una cifra che al mese fa all’incirca lo stipendio medio di un professore. Mille trecento e rotti euro netti al mese che in tanti, qui, se li sognano di notte. Dove sono finiti quei soldi? hanno chiesto i migranti. Possibile che la Caritas non debba neppure produrre una rendicontazione su come è stato speso questo denaro pubblico? Anche se la convenzione - chissà come mai - non lo prevede, fare chiarezza sulle spese dovrebbe essere ugualmente un obbligo per una mera questione di trasparenza.
“Siamo persone e non siamo valigie - spiega un migrante -. Ci hanno tenuto parcheggiati per troppo tempo. Tra noi ci sono anche donne con bambini. Questa che ci è stata data non è accoglienza. Non possiamo andare avanti a permessi di soggiorno che scadono ogni due o tre mesi. E dove andremo dopo il 28 senza un soldo in tasca, senza prospettive e senza documenti? Vogliamo sapere quale sarà il nostro futuro. Ne abbiamo il diritto”.
Tra le donne fuggite dalla guerra in Libia c’è una battagliera Blessing. Potremmo definirla una doppia profuga, considerato che era giunta a Tripoli per fuggire alla guerra che insanguinava il suo Paese d’origine. Blessing ha due bambini. Il secondo ha pochi mesi ed è nato in Italia eppure, per i motivi che sappiamo tutti, non può considerarsi italiano. Il bambino più grande ha sette anni e non può andare a scuola. “Mi hanno detto che non posso iscriverlo a scuola - spiega - e che devo attendere che la mia posizione venga definita. Ma che colpa ne ha mio figlio? E cosa aspettano a dirci cosa faranno di noi? Questa che loro chiamano accoglienza ha ottenuto solo di tenerci segregato dal resto della società. Non abbiamo neppure avuto la possibilità di cercarci un lavoro e di intessere relazioni sociali. Questa non è giustizia. Io voglio un futuro per me e per i miei bambini. Voglio dignità”.
Quella stessa dignità che reclamavano tutti gli striscioni che i circa 250 profughi dalla Libia - migranti di guerra provenienti da tanti Paesi come il Mali, la Nigeria, il Sudan - hanno portato per le calli di Venezia sino alla prefettura dove sono stati accolti da uno schieramento di poliziotti e di celerini francamente eccessivo per una manifestazione che certamente non si poteva definire a rischio di violenza. La tensione è comunque calata quando il prefetto ha accettato di ricevere una delegazione dei profughi.
“Abbiamo assistito all’ennesima gestione emergenziale e ad un meccanismo forzato che ha prima costretto che ha prima costretto tutti i migranti provenienti dalla Libia a chiedere asilo politico per poi ricevere nella stragrande maggioranza dei casi un diniego - si legge nel documento diffuso dalla Rete Tuttidirittiumani -. Infine è stato loro concesso con colpevole ritardo (cioè solo adesso) un permesso umanitario in concomitanza con la scadenza del programma di accoglienza. Alla base di questo c’è stata una gestione che ha assunto in molti casi la forma di un vero e proprio business costruito sulle spalle dei migranti (così come dimostrato da diverse inchieste) con un'enorme discrepanza tra le grosse cifre investite - 46 euro al giorno a persona - e la bassissima qualità e disorganizzazione del sistema di accoglienza”.
Più o meno quello che, in un linguaggio meno forbito ma più diretto, ha scritto un profugo sul suo cartello: “Dove sono finiti questi soldi?”

Studenti in campo per dire no all'omofobia

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In piazza per una scuola laica. Almeno un centinaio di giovani ha accolto l’appello lanciato dal coordinamento studenti medi di Venezia e Mestre e ha partecipato al sit in svoltosi ieri pomeriggio in campo San Geremia davanti alla sede regionale della Rai. “Non è una manifestazione contro qualcuno ma per ribadire tre questioni che ci paiono basilari per costruire una scuola davvero laica e moderna - ha spiegato Nicolò, portavoce degli studenti del Foscarini -: la prima è che in Italia si continua ad insegnare educazione cattolica e non storia delle religioni come sarebbe più utile in una società che si sta definendo come interetnica, la seconda è che la scuola deve cominciare affrontare temi come l’omosessualità che tutt’oggi sono considerati tabù, la terza che va introdotta come materia di studio l’educazione alla sessualità, come già si fa nel resto dell’Europa”.


La mobilitazione degli studenti medi di Venezia nasce in risposta al caso sollevato dal professore di religione del liceo marco Foscarini Enrico Pavanello che in una sua lezione tenuta in una classe di studenti di seconda superiore ha equiparato l’omosessualità alla pedofilia, sostenendo inoltre che essere gay è una scelta malata che un preparato psicologo può risolvere. Il docente in questione non è nuovo a queste prese di posizioni. Lo scorso anno infatti era riuscito ad ottenere dal preside il permesso di organizzare all’interno dell’istituto (e stiamo parlando di una scuola pubblica) una mostra contro l’aborto.
La lezione sul tema “gay = pedofilo” del Pavanello è comunque finita dritta nei media locali, sollevando il proverbiale vespaio di polemiche cui lo stesso Pavanello ha cercato di smorzare sostenendo che altro non si trattava che di uno “spunto di riflessione”. Inevitabile, spunto o no, la dura presa di posizione delle associazione per i diritti dei gay e, di contrasto, la pronta difesa del patriarcato di Venezia che ha ribadito piena fiducia nel suo docente, considerato “una ottima persona”.
Al di la della facile ironia sul fatto che le alte gerarchie della chiesa non perdano mai l’occasione di evidenziare il pericolo della pedofilia ma sempre in casa d’altri, resta il fatto che il vero problema non sta tanto nella presa di posizione omofoba di uno sconosciuto professore di religione, sia pure sostenuta nell’ambito di una lezione svolta in una scuola pubblica, quanto nel fatto che questi, alla fin fine, non fa che ribadire quando ogni giorno affermi il papa Ratzinger, che è tutt’altro che uno sconosciuto professore di religione.

Tra i senza dimora con la cooperativa Caracol

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C’è un momento, verso le dieci di sera, in cui la temperatura scende repentinamente di 4 o 5 gradi. Dei deboli raggi del sole invernale non rimane neppure il ricordo in fondo a quella strada senza uscita e senza luminarie, sotto quel porticato disfatto che, se non ti cade in testa, forse ti risparmierà da un po’ di pioggia o di neve, o in quell’angolo di piazza dove ti sei costruito un rifugio di cartone con gli avanzi dei mercatini natalizi. Sono tutte cose che già sai e che hai già imparato negli altri inverni passati su una strada. Sai già che questa è l’ora delle luci che si spengono, l’ora del freddo assassino. Sai già che la carta di giornale sopra il quale ti prepari a passare la notte non ti difenderà dall’umidità che traspira dall’asfalto bagnato. Sai già che i quattro stracci luridi che indossi e che non ti hanno risparmiato dal freddo neppure in pieno giorno, non ti salveranno adesso dal gelo che ti ammala e ti ammazza. Per te si prepara un’altra notte come tante altre. Con la sola differenza che ogni notte è sempre peggio. L’inverno avanza e con lui il buio, il gelo, la solitudine, la fame. Perché, nelle nostre città dove non manca mai un albero di natale illuminato nelle piazze centrali, per le strade delle periferie si continua a morire di freddo.


E’ proprio nel momento in cui il gelo ti stringe le carni sino ad ammazzarti che alla stazione di Mestre arrivano i compagni della cooperativa Caracol. Sono in tutto una decina, scendono da una scassato pulmino portando scorte di coperte, termos con bevande calde, merendine e altri generi di conforto. Indossano una specie di giubbotto arancione da stradino (non ci sono certo soldi per una vera divisa) ma che per i senza dimora di Venezia è diventato un segno di riconoscimento che fa la differenza tra la vita e la morte. “Oramai abbiamo il nostro giro consolidato col pulmino che ripetiamo tre o quattro volte per notte - spiega Momo, portavoce della cooperativa che ha sede all’interno del centro sociale Rivolta di Marghera -. Alla stazione troviamo di solito una sessantina di persone che ci attende. Non abbiamo posti per tutti, al ricovero. Diamo la precedenza ai malati, alle donne, ai bambini...” Bambini? Sulla strada?
“Dove vivi? Certo che ci sono bambini sulla strada. Tanti minori che si autogestiscono ma soprattutto sotto natale troviamo sempre delle madri con figli di due o tre anni. Anche infanti mi è capitato. A loro diamo sempre la precedenza e li portiamo al caldo. Ovviamente, il giorno dopo mi attacco al telefono e spacco le palle anche alle pietre sino a che l’assessorato, il Comune, il sindaco, il patriarca, o San Pietro in persona non gli trova una sistemazione decente”. Conosco Momo da un bel po’ di tempo e vi assicuro che come rompe le palle lui su questioni come queste, non le rompe nessuno. Ogni inverno mi faccio un dovere di trascorrere qualche notte con la cooperativa Caracol - che per inciso ha assunto questo nome dai liberi municipi organizzati dal sub comandante Marcos (praticamente ogni attivista della Caracol ha trascorso due o tre estati in Chiapas a sostenere la rebeldia zapatista). Trovo l’esperienza estremamente educativa per capire quale siano i veri problemi della città e che, guarda caso, non sono mai quelli dentro le agende politiche dei nostri onorevoli e non finiscono mai in prima pagina nei giornali che contano. La domanda che faccio sempre a Momo è: quale è la new entry di questo inverno? Ci sono stati i cassaintegrati, gli sfrattati che dormivano in auto, i rovinati dalla slot machine... E quest’anno? “Le donne. Soprattutto donne dell’est, ex badanti che hanno perso il lavoro perché l’anziano che accudivano è morto o perché le famiglia non poteva più permettersi di pagarle. Sono loro le ‘nuove facce‘ della povertà“. Il clochard tradizionale, mi spiega, oramai non esiste più da qualche anno. Sono sempre meno. Gli alcolizzati, magari con problemi psichici alle spalle, hanno vita breve sula strada.
”Il ricambio viene da persone che fino a poco tempo fa facevano una vita normale. Li vedi subito, alla stazione. Si avvicinano a noi timidamente. Vestono in maniera decente o quasi e cercano di darsi un contegno. Ci tengono a giustificarsi e raccontano che la loro è una situazione di bisogno temporanea. Quasi sempre si illudono, purtroppo”.
“Noi cerchiamo di fare quello che possiamo per tutti - prosegue Momo -. Soprattutto non obblighiamo nessuno. Chi vuole viene con noi e chi vuole prende la sua coperta e rimane là”. Perché qualcuno dovrebbe rifiutare la vostra assistenza? “Nelle strade c’è tutto un mondo che è difficile, se non impossibile, comprendere appieno. C’è chi ha teme che se lascia libero il suo giaciglio non lo recupera più. C’è chi è alcolizzato e ha bisogno di stare vicino ad un supermercato perché mezz’ora prima l’orario di apertura vuole già essere là, davanti all’entrata, per procurarsi il suo cartoccio di vino. C’è chi ha problemi mentali, chi ha paura e non si fida, chi con parla l’italiano e non capisce chi siamo, chi occupa spazi abusivi e teme che la polizia lo sgomberi...” E aggiunge ridendo: “Anche se, avremmo tanti difetti noi della Caracol, ma non certo quello di avvisare gli sbirri! Al massimo, quando il freddo è eccessivo e non possiamo portare tutti al ricovero, avvisiamo l’assessore Sandro Simionato che, va detto a suo onore, si fa in quattro per chiamare le Ferrovie e far aprire la sala riscaldata della stazione”. Momo non lo dice, ma qualche anno fa, di fronte ad un rifiuto delle Ferrovie dello Stato, i ragazzi del Rivolta hanno aperto la porta della sala d’aspetto riscaldata col piede di porco! Da quella volta comunque non ci sono più stati incomprensioni con le Ferrovie. La lotta paga. Soprattutto quando si fa dura.
Va sottolineato comunque che il Comune di Venezia gioca un ruolo importante e cosciente di fronte all’emergenza freddo. Al contrario della Regione Veneto di marca leghista che ha tagliato qualsiasi fondo per l’assistenza ai senza casa, dirottandoli a quel genere di “feste culturali” tanto amate dai padani tipo la “sagra dei osei” dove si celebra la caccia agli uccelli con le reti da richiamo, vietata dall’unione Europea che non manca mai di affibbiare al veneto qualche multa meritata e salata. La Caracol si mantiene grazie ai finanziamenti del Comune di Venezia ma soprattutto grazie all’attivismo e al volontariato dei suoi sostenitori. In un Veneto dove i sindaci leghisti anche quando danno il panettone ai poveri si accertano se questi siano di razza padana, la città lagunare è rimasta l’unica ad offrire assistenza a chi ne ha bisogno senza distinzione di razza o di colore. Qui i vigili non bastonano i mendicanti accucciati in stazione come ho personalmente visto fare due anni fa nella Verona di Tosi (il che mi è costato una litigata furiosa con i due prodi “tutori dell’ordine” con conseguente invito a “mostrare miei i documenti” e domanda del “ma lei perché non si fa i cazzi suoi?”)
Il risultato è che la stazione di Mestre è diventata un ricovero per tutti i senza dimora del Veneto e se ci prendi un treno di sera non ti manca mai di sentire l’imbecille di turno che ti commenta di quanto questo luogo sia sporco e mal frequentato “al contrario della stazione di Verona”. Al che vi lascio solo immaginare la mia risposta.
“Così vanno le cose. Ma che ti devo dire? - mi fa Momo - Io preferisco mille volte avere a che fare con queste persone, molte dei quali posso chiamare amici, che con tutti quei pezzi di m... posso dire pezzi di merda in una intervista?” Diciamo di cacca. “Va bene. Preferisco stare con questa povera gente che con tutti quei pezzi di cacca che comandano in Regione e vanno in Tv a fare la voce grossa su questioni di sicurezza, pericolo clandestini, xenofobie varie e altre fesserie. Cioè... mi domando: sono particolare io o anche tu la pensi così?” Sta tranquillo che sono le persone “particolari” come te quelle che rendono il mondo un posto degno di essere vissuto e non certo quei pezzi di me... voglio dire, di cacca che mi toccava vedere nel teleschermo, prima che buttassi via la Tv.
“fatto sta che per noi è sempre più dura. Le risorse sono poche e le spese come la benzina, il riscaldamento, i generi di prima necessità aumentano”. Già ma voi siete tipi tosti, giusto? “Più ce le danno e più teniamo duro! La Regione non ci da più un soldo? tanto peggio. Gli abbiamo risposto di andare...” Sì, ho capito dove... “e ci stiamo attrezzando per aumentare il numero di posti letto da 24 a 30, e offrire altri servizi come pasti caldi, corsi di lingua con la scuola Liberalaparola, medicine, docce due volte alla settimana, anche se non siamo gente che obbliga gli altri a lavarsi. E oggi, tanto per continuare in gloria, abbiamo organizzato un bel festone natalizio con tanto di panettone e spumante, grazie ai ragazzi dell’Osteria del Rivolta che hanno cucinato gratis”.
Ci sono andato ed è stata davvero una bella festa. Oltre agli attivisti del Rivolta e della Caracol c’era una sessantina di senza dimora. “Vedi come stanno cambiando le cose - mi ha detto preoccupato il consigliere Beppe Caccia intervenuto come rappresentante del comune assieme a Flavio del Corso presidente della municipalità di Marghera - Di clochard vecchio stile ce ne sono due o tre. Gli altri sono tutte persone che stanno conoscendo solo ora la miseria e la vita di strada. Operai che hanno perso il lavoro, cassa integrati, ex badanti dell’est che non hanno neppure i soldi per tornare in patria. Ascolta qualche loro storia che hanno tanto da insegnare”. Così ho fatto. Ho parlato con Andrej, studente dell’est con una media da capogiro all’università di Venezia ma che vive in strada perché, pur essendo iscritto ad architettura, non ha i documenti in regola e non può fare domanda per la casa dello studente. Poi c’è Paolo, italianissimo, che vendeva protese dentarie e aveva rapporti con tutti gli studi dentistici del veneziano. Dopo il divorzio è arrivato lo sfratto e la crisi gli ha tolto il lavoro. Vive in un’auto parcheggiata in via Fratelli Bandiera che non può muoversi perché non ha più un soldo per pagare il bollo di circolazione. Per curarsi le carie, va a mettersi in fila all’ambulatorio che Emergency ha messo in piedi a Marghera. Sergej invece è russo. Lavorava in una piattaforma in mezzo al mar Baltico e guadagnava una vagonata di rubli. La caduta dell’unione sovietica lo ha riportato a terra solo per scoprire che i suoi rubli non valevano più niente e che sua moglie che viveva con un altro uomo e gli aveva cambiato la serratura di casa. Allora è partito per la Spagna a cercare lavoro. Qui a Venezia, mi spiega è solo di passaggio, perché un tecnico del suo valore lo stanno aspettando a braccia aperte. La stessa storia che mi aveva raccontato tre anni fa, mentre aspettava la sua coperta alla stazione di Mestre. Mentre faccio finta di credergli ripenso a quello che mi ha appena detto il saggio (che non sa di essere saggio) Momo. Meglio questa gente a tutti quei musi di cac... ma no, diciamo pure di merda che contrabbandano idee vili, razziste e fasciste davanti alle servili telecamere dei nostri telegiornali.

Delinquenti, tossici ed extracomunitari. Il razzismo nei media

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Cominciamo con qualche perla di saggezza. “Arrestato un 34enne nomade residente a Bolzano” (da La Nuova del 24 novembre). Il giornalista mi dovrebbe spiegare come fa un nomade a essere anche residente. Vien da pensare che sia lo stesso articolista che, qualche mesa fa, sempre nelle nuova, ha scritto “l’uomo, di etnia nomade...” Come dire che se ti sfrattano e ti tocca vivere per strada cambi improvvisamente etnia e diventi “nomade”. Ma ci sono perle ancora più lucenti, nei nostri quotidiani. Titolone sul Gazzettino del 16 novembre: “Controllano sei stranieri e trovano sei bici rubate”. A voi che viene da pensare? Che ne hanno rubate una a testa? Invece no. L’articolo mescola due episodi diversi avvenuti in zone diverse della città, pur se in occasione dello stesso giro di controllo da parte delle forze dell’ordine. Per inciso, i sei stranieri sono risultati tutti regolari ed estranei al furto delle bici. Sempre dal Gazzettino, 25 novembre. Titolo: “Pochi soldi per l’assistenza: è allarme immigrati”. Che relazione c’è tra le due cose, chiederete? Nessuna, ovviamente. Nel testo si legge che i tagli alla sanità mettono a rischio tanti servizi e alla fine si puntualizza che questo nuocerà anche ai migranti che usufruiscono del servizio sanitario.


Poi ci sono tutta una lunga serie di “si dice”, “pare che”, “secondo alcuni”... tutte affermazione che alla scuola di giornalismo ti spiegano che non vanno mai usate ma che, evidentemente, se riferite a nomadi, extracomunitari e clandestini si può fare una eccezione. Ecco qualche esempio. Dalla Nuova del 25 novembre: “Al servizio mensa di Marcon si sono presentate delle persone, pare zingari...”. Dal Gazzettino del 4 novembre: “la donna ha raccontato di essere stata aggredita da tre individui, forse extracomunitari”. Dal Gazzettino del 22 novembre: “L’uomo aveva i tratti somatici dell’etnia sinti”. Mi spiegate per cortesia quali sono i tratti somatici dei sinti? Prendiamo un esempio: il calciatore Andrea Pirlo che non ha mai nascosto di provenire da questa, chiamiamola, anche noi, etnia, che tratti somatici distintivi dagli “italiani doc” possiede?
Per non parlare, tanto per testimoniare la suprema ignoranza di tanti miei colleghi giornalisti, di tutta la serie di “extracomunitari rumeni” che infestano gli articoli di cronaca nera. Qualcuno glielo dovrebbe spiegare, prima o poi, che la Romania è parte integrante della Comunità Europea! Un canadese può essere definito extracomunitario, ma un rumeno proprio no!
Ultima nota per le lettere al direttore. Certo, queste non le scrivono i giornalisti, ma vi assicuro che sono un indicatore precisissimo della linea politica del giornale perché tra le centinaia che arrivano quotidianamente in una redazione vengono pubblicate solo quelle che, in qualche modo, testimoniano la correttezza dell’approccio politico del quotidiano ai problemi della città. Alle voci discordanti che servono a testimoniare la pluralità, casomai, si lascia spazio nelle colonnina riservata all’opinionista (che non legge mai nessuno). Quella delle lettere invece è, dopo lo sport, la pagina più letta dei nostri giornali. Ebbene, la lettera pubblicata dal Gazzetino il 27 novembre è stupendamente emblematica: “Sovente leggiamo i ben noti e soliti problemi che affliggono Venezia: l’acqua alta e il Mose, il turismo maleducato, il moto ondoso, le grandi navi, Santa margherita, via Piave, i sinti, i cassa integrati di Marghera, i vu cumprà, il tram, la sporcizia dilagante nel centro storico”. Che dire di questo bell’elenco di disgrazie? Qualsiasi commento è superfluo!

Questo che abbiamo sopra riportato è un sunto del lavoro effettuato dal gruppo stampa del l’Osservatorio contro le discriminazioni Unar del Comune di Venezia e presentato in un incontro svoltosi lunedì 10 dicembre al liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre. Davide Carnemolla dell’Osservatorio veneziano ha presentato i dati complessivi del monitoraggio sui termini e sui pregiudizi razzisti veicolati dai nostri giornali locali, compreso le “perle” che abbiamo già riportato. Il rapporto è scaricabile dal sito dell’osservatorio all’indirizzo
http://antidiscriminazionivenezia.wordpress.com.
Ospiti d’onore dell’incontro sono stati due giornalisti del calibro di Carlo Berini di Articolo 3 e Giulietto Chiesa presidente di Alternativa. Berini che nella sua città, Mantova, ha organizzato un osservatorio antidiscriminazione che è stato uno dei punti di riferimento per la struttura veneziana, ha messo in guardia gli studenti sul fatto che la discriminazione non riguarda solo categorie come i rom o i migranti ma “è una questione che vi troverete ad affrontare per tutta la vostra vita e che vi colpirà personalmente quando al lavoro sceglieranno un raccomandato al posto vostro o qualcuno vi passerà davanti in una graduatoria senza averne i requisiti. Allora sarà importante imparare a riconoscere l’ingiustizia, affrontarla e superarla così che nessuno che viene dopo di voi ne venga fatto oggetto”. Applauditissimo l’intervento di Giulietto Chiesa che ha parlato dell’informazione nel nostro Paese. Anzi, dell’informazione che non c’è nel nostro Paese. “I telegiornali sono composti per il 5% da notizie false al 95%, per il 45% da pubblicità che come tutta la pubblicità è falsa al 100% e per il restante 50% da intrattenimento che, quando non è inutile, è comunque falso all’80%”. E ha concluso: “L’informazione è controllata da un gruppo ristretto di potenti che possono decidere cosa dire e come. E’ un sistema che non accetta e che non lascia trapelare la realtà dei fatti. Ci mettono davanti agli occhi una realtà virtuale che è totalmente diversa dal mondo reale in cui dobbiamo vivere”.
“Proprio come il film Matrix?” ha osservato uno studente dalla platea.
“Già, proprio come Matrix - ha risposto Chiesa - solo che questo non è un film e non ci sarà nessun Eletto a salvarci. Dobbiamo farlo noi”.

Venezia in campo per il suo Arsenale

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Una bella domenica di festa e di partecipazione, a Venezia. La città si è ritrovata davanti al suo arsenale per manifestare tutto il suo sdegno di fonte allo “scippo” a firma del ministro delle Sviluppo Economico Corrado Passera. Poche righe inserite di frodo in un testo che tratta di tutta un’altra questione - l’agenda italiana sul digitale - me che nei fatti annulla il passaggio dell’arsenale alla città di Venezia sancito dal governo Monti con un apposito emendamento al cosiddetto decreto legge sulla “spending review”. Un’operazione tutta giocata sulle famose “righe piccole” e sulla speranza che gli interessati se ne accorgano solo quando è troppo tardi per rimediare. Stavolta l’operazione gli è andata buca. La città lo ha saputo ed ha reagito con prontezza. Ma quello che più ha fatto urlare allo scandalo è che lo “scippo” sarebbe manovrato dal Magistrato alle Acque, dal Consorzio Venezia Nuova e dalle imprese a lei legate che vogliono impedire il trasferimento al Comune dell’area dei Bacini e delle Tese dell’Arsenale, già destinate ai costosissimi lavori di manutenzione di quella disgrazia per Venezia e per la sua laguna che è il Mose.

In altre parole, il Consorzio e il Magistrato, braccio operativo del ministero a Venezia, avrebbero fatto pressione sul ministro Passere - più propenso a far andare avanti i lavori del Mose che a favorire Venezia - per inserire questo contestato codicillo che consente al demanio di mantenere il possesso di circa il 70% dell’area dell’Arsenale, lasciando alla città solo un’elemosina.
Il che ha improvvisamente fatto tabula rasa di circa trent’anni di discorsi, sogni e progetti che tra calli e campielli si sono sempre fatti a tutti i livelli - dalle stanze di Ca’ farsetti ai tavoli di osteria tra uno spritz e l’altro - su “cosa faremo quando finalmente torneremo in possesso del nostro Arsenale?”



Si capisce che la faccenda sia andata di traverso ai veneziani che, per l’appunto, hanno accolto in gran numero l’invito lanciato da una ventina di associazioni a partecipare a questa prima giornata di mobilitazione per chiedere che l’arsenale dei veneziani venga dato ai veneziani. La partecipazione all’iniziativa infatti, è stata numerosa e pittoresca con le remiere e le associazioni di vela ad occupare pacificamente il canale con caorline e bragozzi dalle vele coloratissime, sandoli e gondolini da regata e persino una “bissona” da parata sulla quale lo stesso sindaco Giorgio Orsoni ha preso la parola per denunciare questa sorta di furto con destrezza. “La nostra mobilitazione è la prova concreta di quanto la città abbia a cuore una parte importante della sua storia come l’arsenale” ha dichiarato il primo cittadino che ha poi lanciato un appello al presidente della Repubblica perché non firmi il decreto “truccato”.
Una partecipazione, dicevamo, a 360 gradi che ha coinvolto oltre al sindaco anche altri esponenti del consiglio comunale come il capogruppo della lista in Comune, Beppe Caccia, uno dei primi a denunciare la vergogna del “codicillo fraudolento”. Caccia ha chiesto al sindaco Orsoni la convocazione di un consiglio comunale straordinario dedicato all’Arsenale ed inoltre ha depositato una interrogazione urgente in cui chiede che siano avviate le procedure per rimuovere dal suo incarico il presidente del Magistrato alle Acque di Venezia, Ciriaco D'Alessio. Personaggio già noto alle cronache di Tangentopoli e ora protagonista di questo tentativo di strappare alla città di Venezia un pezzo della sua tradizione per consegnarlo alla lobby del Consorzio Venezia Nuova. "Considerato che i gravi precedenti penali, la discutibile gestione dell’intera vicenda legislativa relativa al passaggio del compendio dell’Arsenale e l’inaccettabile atteggiamento tenuto nei confronti delle Istituzioni locali dimostrano una complessiva inadeguatezza di Ciriaco D’Alessio a ricoprire l’importante e delicato incarico di Magistrato alle Acque per Venezia, - spiega l’ambientalista -e inoltre configurano una condizione di vera e propria ’incompatibilità ambientale’ di tale indegno funzionario dello Stato con la nostra città, chiediamo al sindaco di intervenire presso il presidente del Consiglio dei ministri per rimuoverlo dal suo incarico”.
“Questo colpo di mano fatto dal ministro Passera su ordine del Consorzio e con l’arma meno democratiche che esiste, che è quella del decreto, è assolutamente inqualificabile ed inaccettabile - ha concluso Tommaso Cacciari del laboratorio Morion -. Il ministro ci ha letteralmente scippato l’Arsenale per girarlo al Consorzio Venezia Nuova che, ricordiamolo, è un cumulo di imprese private di emeriti cementificatori che dagli anni ’80 hanno il monopolio delle grandi opere di salvaguardia della città, spesso inutile e dannose come il Mose, e per questo hanno dragato tutto i fondi della legge speciale. Adesso vorrebbero mettere le mani anche sull’Arsenale, anche in vista del business della manutenzione del Mose stimata sulla ventina di milioni all’anno. E per far questo hanno bisogno degli spazi dell’Arsenale che stanno cercando di sottrarre alla città”. Il tutto, al di là di qualsiasi percorso partecipativo dei cittadini su scelte che coinvolgono la loro città.
Ancora, come per l’acqua e per le grandi opere, si scrive Arsenale ma si legge democrazia.

Di seguito, intervista con Beppe Caccia




Intervista con Tommaso Cacciari



Fiaccolata per l’ambiente e la salute a Monselice

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Una grande fiaccolata ha illuminato ieri sera, venerdì 28 settembre, le strade di Monselice. Una grande fiaccolata per dire no al cemento, no ad una economia tumorale che macina ambiente e salute per garantire il profitto di pochi sui diritti di tutti. Perlomeno settecento persone hanno accolto l'appello "Per non morire di cemento" lanciato dai comitati della Bassa Padovana "Lasciateci respirare" ed "E noi?", e si sono date appuntamento in piazza Mazzini per dare vita ad un pacifico corteo notturno. All'iniziativa ha aderito pressoché l'intero arcipelago associazionista del Veneto. Una bella serata di festa per Monselice, con tanto di banchetto informativo che, oltre a raccogliere firme, distribuiva torte, pizze e bicchieri di vino. "Il mercato del cemento è in crisi - ha spiegato Francesco Miazzi, portavoce del comitato Lasciateci Respirare - Il business per gli industriali si è spostato sullo smaltimento dei rifiuti da usare come impastante della materia prima. A pagare le spese di questa economia malata sono ancora i cittadini. Il tutto nell'indifferenza, se non addirittura nella complicità, delle istituzioni che dovrebbero invece tutelare la salute della gente. Particolarmente grave mi sembra l'atteggiamento dell'ente Parco dei Colli che ha abdicato alle sue funzioni di salvaguardia, considerando che sin dalla sua istituzione i cementifici sono sempre stati considerati incompatibili con la tutela dell'ambiente dei colli Eugane e si è sempre rifiutato di portare avanti l'accordo di programma che prevedeva la delocalizzazione degli impianti se non la loro dismissione. Ed invece, tra Monselice ed Este, continuano ad operare ben tre di queste industrie dichiarate insalubri di prima classe. Un record europeo di cui non andiamo fieri".


Questi tre impianti, spiegano gli organizzatori della manifestazione sono autorizzati a produrre cemento utilizzando rifiuti. Una lavorazione riconosciuta come altamente pericolosa per la salute. In totale, ogni anno sono smaltite nel territorio del parco dalle cementerie Zillo di Este e Italcementi di Monselice ben 343.500 tonnellate di rifiuti. Ora, la nuova proprietà della Cementeria di Monselice ha chiesto l'autorizzazione di smaltire altre 225.000 tonnellate di rifiuti speciali. "Chi concede le autorizzazioni non considera che questi impianti ormai si trovano all'interno dei centri abitati - spiega Silvia Mazzetto del comitato "E noi?" - e che i limiti di legge delle emissioni inquinanti vanno calcolati globalmente e non separatamente per ciascun impianto. Il risultato è che, da anni, noi e i nostri figli, unici in Europa, respiriamo incredibili quantità di sostanze pericolose per la nostra salute".
"Dobbiamo disinnescare questa bomba ecologica - conclude Francesco Miazzi - . Dobbiamo difendere la salute e le giuste aspettative di quanti qui vivono e lavorano. E' urgente cercare soluzioni che consentano finalmente l'equilibrato sviluppo di questo territorio, tutelando il lavoro ma anche il futuro nostro e dei nostri figli. La Bassa Padovana non può diventare la discarica del Veneto".

Rapimento di Abu Omar. La Cassazione conferma le condanne agli agenti della Cia e riapre il processo agli ex vertici del Sismi

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La Cassazione ha confermato le condanne ai 23 agenti della Cia che hanno rapito Abu Omar e ha imposto la riapertura del processo per i due vertici del Sismi Nicolò Pollari e Marco Mancini, sollevando forti dubbi sul segreto di Stato in virtù del quale la Corte d‘Appello di Milano aveva dichiarato i due non processabili.
Sempre la quinta sezione penale della Corte di Cassazione presieduta da Gaetanino Zecca, ha disposto un nuovo processo d'appello anche per i tre agenti segreti italiani - Giuseppe Ciorra, Luciano Di Gregori e Raffaele Di Troia - considerati corresponsabili del rapimento.

Ricordiamo che Abu Omar, all’epoca imam di Milano, sospettato (solo sospettato!) di contatti con cellule terroristiche era stato rapito il 17 febbraio 2003 in territorio italiano da un gruppo di agenti della Cia con l’evidente complicità dei servizi segreti nostrani e portato in una base Usa in Egitto, su un aereo decollato dall’aeroporto militare di Aviano, dove, secondo le denuncia dello stesso rapito, avrebbe subito prigionia, violenze e torture.


Il tutto sulla base di semplici sospetti e senza nessun procedimento giudiziario. Una azione assolutamente illegale che ha costretto la magistratura ad istruire un processo per rapimento. Il 15 dicembre 2010, la Corte d’Appello di Milano aveva così condannato i 22 agenti della Cia ritenuti responsabili del fatto a sette anni di carcere e a nove anni il capo-area, Robert Lady. Condanne ovviamente in contumacia. Sempre la Corte d’Appello milanese aveva inferto la pena di 2 anni e 8 mesi all'ex responsabile dell'archivio del Sismi, Pio Pompa, e il suo funzionario Luciano Seno. Non processabili infine, in virtù del discutibilissimo vincolo del “segreto di Stato”, imposto tanto dal Governo Prodi di centrosinistra che successivamente da quello Berlusconi di centrodestra, i due allora capi del Sismi Nicolò Pollari e Marco Mancini, e i tre agenti sopracitati.
Il ricorso alla corte di Cassazione portato avanti da Abu Omar, attualmente residente in Egitto dove non sono emerse prove sul suo coinvolgimento con gruppi integralisti, ha ottenuto una nuova sentenza che sposa, in pratica, la sua tesi. Non soltanto il tribunale supremo ha confermato con l’ultimo grado di giudizio le condanne ai 007 americani ed italiani, ma ha anche ha chiesto alla Corte d’Appello di riprocessare i vertici Sismi Pollari e Mancini, oltre ai funzionari Ciorra, Di Gregori e Di Troia, sostenendo che, anche al di là del Segreto di Stato, ci sono sufficienti elementi per ipotizzare un loro coinvolgimento nel rapimento.

Tutela l’ambiente, sfrutta i lavoratori. Il caso del centro riciclo di Vedelago di Treviso

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Quindici lavoratori buttati sulla strada è una notizia che, di questi tempi, otterrebbe a malapena una colonnina bassa in cronaca locale. Ma in questo caso la storia è diversa perché è diversa l’azienda che ha spedito le lettere di licenziamento. Si tratta infatti del centro di riciclo di Vedelago (Treviso), una delle strutture atte al recupero e allo smaltimento dei rifiuti più avanzate e più attente all’ambiente di tutto il nostro Paese. Un’azienda più volte citata come esempio di buone pratiche per la sua attenta gestione del ciclo dei rifiuti e che, non a caso, è tra gli sponsor di alcune iniziative che si stanno svolgendo alla conferenza mondiale sulla decrescita, attualmente in svolgimento a Venezia. Peccato che tanta attenzione all’ecologia non venga supportata da una altrettanto attento rispetto per i diritto dei lavoratori! Questo pomeriggio, venerdì 21 settembre, i quindici lavoratori licenziati dall’azienda sono intervenuti all’incontro sulla decrescita e hanno preso la parola sul palco, e tra gli applausi della platea, hanno raccontato le ragioni della loro vertenza.


“Dal suo lato pubblico l’azienda presenta un aspetto positivo e ambientalista - ha spiegato Sergio Zulian dell’Adl Cobas - dal lato privato abbiamo riscontrato situazioni di totale mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori. Così, abbiamo iniziato una vertenza sindacale chiedendo puntualità nel versamento degli stipendi, servizi igienici puliti, una mensa decente e il riconoscimento dei delegati sindacali dei lavoratori. Ci siamo subito scontrati con la chiusura e l’indisponibilità al dialogo della titolare che non ha riconosciuto nessuna delle nostre richieste e che ci ha risposto solo con le lettere di licenziamento inviate a 15 dei 31 lavoratori del reparto smistamento. Licenziamenti che non esitiamo a definire di rappresaglia perché sostenuti da motivazioni generiche come la solita crisi economica e senza nessun tentativo di ricorrere agli ammortizzatori sociali”.
I lavoratori hanno proclamato lo stato di agitazione e chiedono la sospensione dei licenziamenti e l’immediata apertura di un tavolo di trattativa. Particolarmente significativo il loro volantinaggio ai partecipanti al convegno sulla decrescita. “Un pubblico attento e sensibile - hanno detto - che merita di essere informato su cosa si nasconde dietro uno degli sponsor della conferenza”.
Decrescita e tutela dell’ambiente non possono essere costruiti a scapito dei fondamentali diritti del lavoro e della cittadinanza. “Altrimenti - ha concluso Sergio Zulian - finiremo per applaudire quel coltivatore biologico perché non usa concimi chimici e rispetta la natura. E pazienza se usa gli schiavi per ammortizzare i costi!”



Il Rivolta guarda al futuro: fotovoltaico, palestra e ostello sociale

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Un centro sociale ad energia solare. Il cso Rivolta di via Fratelli Bandiera si è dotato di un grande impianto fotovoltaico capace di garantire una costante produzione di energia pulita per sé e per la città. Un impianto che è, tra quelli realizzati sui tetti, il più ampio e il più potente di tutta la provincia. La centralina e i circa mille metri quadri di pannelli, sistemati sul tetto del capannone dove si tengono i concerti, sono stati presentati oggi ai giornalisti alla presenza di una nutrita rappresentanza istituzionale tra cui il vice sindaco Sandro Simionato, gli assessori, Gianfranco Bettin all’ambiente e Bruno Filippini al Patrimonio, il presidente della municipalità Flavio Del Corso. L’incontro ha fornito l’occasione per presentare gli altri progetti appena realizzato o in corso di realizzazione al Rivolta di Marghera. Progetti realizzati grazie all’impegno gratuito ed entusiasta di centinaia di giovani e meno giovani, e coperti economicamente da iniziative di autofinanziamento.


La palestra popolare, innanzitutto. Uno spazio, per dirla con le parole di Michele “Ace” Valentini, libero e aperto a tutta la cittadinanza dove vengono organizzati corsi che spaziano dal kick boxing al tango. “Uno spazio dove praticare lo sport così come lo intendiamo noi: come attività salutare e di benessere fisico ma anche psicologico, solidale, popolare e antirazzista”.
Un’altra attività che sarà ampliata, ha spiegato Vittoria Scarpa, è quella svolta dalla cooperativa Caracol che d’inverno si impegna per offrire un riparo e una sistemazione temporanea ai senza fissa dimora, salvandoli dal gelo mortale. “Purtroppo abbiamo dovuto constatare che il numero dei senza casa è in costante aumento - ha spiegato la portavoce del Rivolta -. Questo inverno, gli attuali 24 posti letto che abbiamo a disposizione potrebbero non essere sufficienti e stiamo lavorando per raddoppiare la nostra offerta realizzando altre unità abitative ispirandoci a criteri di bioedilizia ed ecocompatibilità”. Una novità riguarda anche l’uso di questi moduli abitativi che, se d’inverno saranno destinati a situazioni d’emergenza e al riparo dei senza fissa dimora, d’estate saranno usati come “ostello sociale” per offrire accoglienza a basso costo a studenti, viaggiatori o partecipanti a seminari ed incontri. Già oggi, ha sottolineato Ace, i moduli ospitano una ventina di giovani venuti ad assistere alle conferenze della settimana della Decrescita.
Ma la novità principale del nuovo Rivolta riguarda il passaggio all’energia pulita. Grazie ad un mutuo decennale acceso con Banca Etica (“L’unica banca che non è responsabile dell’attuale disastro finanziario” ha sottolineato Ace) di 200 mila euro, i tetti del centro sociale sono stati ricoperti di pannelli e trasformati in un impianto fotovoltaico capace di raggiungere una produzione di 115 mila kwh all’anno dei quali 70 mila ad uso interno e gli altri messi a disposizione della città come energia pulita ricavata dalla fonte rinnovabile per eccellenza come è la nostra stella. L’impianto è stato realizzato dalla ditta EA Energia Alternativa di Vicenza, grazie anche alla consulenza di Agire, l’agenzia veneziana per l’energia. In termini di riduzione delle emissioni inquinanti, l’impianto garantisce un mancato rilascio nell’atmosfera di 62 mila e 400 chili di anidride carbonica all’anno e un risparmio di 810 tonnellate equivalenti di petrolio.
“Grandi progetti pensati dentro la città e realizzati per la città - ha commentato soddisfatto Simionato -, proprio come il Rivolta ci ha abituato in questi anni di proficua collaborazione con l’amministrazione”.
Parole di apprezzamento per il lavoro svolto sono state spese anche dall’assessore Filippini che ha sottolineato la gestione trasparente dell’operazione e citato il cso come un esempio importante di buon utilizzo degli spazi comunali. Dal canto, suo Gianfranco Bettin ha invitato a paragonare l’area del Rivolta con quella degradata dell’ex cral Gavioli, situata immediatamente a ridosso del cso, ed ha concluso, riferendosi al ventilato progetto del palazzone di Pietro Cardin, “Per ora, il Rivolta rimane l’unico Palais Lumière di Marghera”.

No Grandi Navi, No Grandi Opere per un futuro di pace e di sostenibilità

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Una volta, questa domenica di settembre, era il giorno della Lega e di Roma ladrona. Arrivavano con le bandiere del sole padano e la “sacra ampolla” d’acqua del Po. Se andava bene, raggiungevano Riva degli Schiavoni senza incidenti per ascoltare il Bossi urlare contro meridionali e migranti. Se andava male, si fermavano per strada a menare qualche disgraziato cameriere con la pelle di un colore, a sentir loro, poco “padano”.
Ma oggi invece, è stata una bellissima domenica di festa. Festa vera. Una Venezia più incantevole del consueto, un cielo terso, un tiepido sole settembrino... anche l’acqua del canale della Giudecca sembrava incredibilmente più azzurra del solito! E poi tanta, tanta gente, tante bandiere e tante barche. Donne, uomini e bambini venuti da tutto il Veneto non per vomitare insulti e minacce secessionistiche, ma per chiedere un futuro senza Tav, senza basi militari, senza quelle grandi navi che ad ogni passaggio inquinano come 14 mila auto. Un futuro di pace e di sostenibilità. Una manifestazione pacifica cui hanno aderito pressoché tutti i comitati contro le grandi opere che minacciano di cementificare quel poco che ancora rimane della nostra Regione. Molti sono arrivati a Venezia in bicicletta sciroppandosi un bel po’ di chilometri, senza contare i tanti ponti e le tanti calli da percorrere con la bici a mano, della città lagunare.

Purtroppo la manifestazione ha suscitato una reazione assolutamente spropositata da parte dell’autorità portuale che, dopo aver ritardato la partenza di tre grandi navi (accampando la scusa di una esercitazione antincendio per non ‘turbare’ l’animo dei crocieristi), ha chiesto l’intervento in forze della polizia che ha fatto cordone per impedire alle barche - almeno un centinaio - di chiudere il canale della Giudecca ai mostri del mare. Addirittura, un elicottero della polizia si è calato più volte quasi a pelo d’acqua nel tentativo di spaventare la gente sui natanti. Tentativo del tutto inutile, che non ha fatto cedere il passo a nessuno.



E’ stata dunque una grande domenica di festa e di lotta che ha lanciato un segnale non ignorabile a chi, come il ministro dell’ambiente Corrado Clini, ha dichiarato che è “impossibile” togliere le grandi navi dalla laguna di Venezia. Impossibile difendere la città più fragile del mondo dagli appetiti delle compagnie di crociera. Impossibile difendere quello che rimane dell’antica laguna dei dogi da una economia tumorale che oramai, dopo aver fagocitato e cacato tutto quello che riusciva a trasformare in merce, sta mercificando come ultima frontiera diritti e ambiente.
Le centinaia di persone che si sono trovate alla Punta della salute hanno dimostrato che non solo non è impossibile difendere l’ambiente ma è anche l’unica strada da percorrere per uscire da una crisi che non è mai stata nostra.

Non è solo un treno!

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Grandi navi e non solo. Progetti di revamping di rifiuti speciali, di tracciati in gronda lagunare contro puntuali promesse di riconversioni industriali che vengono puntualmente disattese. Anche Venezia ha le sue Tav, ha ricordato Beppe Caccia in apertura dell’incontro organizzato dall’associazione In Comune per presentare il libro “Non solo un treno .. la democrazia alla prova della Val di Susa” curato da Marco Revelli e Livio Pepino edito da Edizioni Gruppo Abele. L’iniziativa si è svolta giovedì 13 settembre, nel municipio di Mestre. Presenti in sala i due autori circondati da una ricca cornice di pubblico.
Livio Pepino, già presidente di Magistratura Democratica, ha spiegato così il titolo del libro: “Certa politica liquida la questione della Val di Susa raccontando che alla fin fine si tratta solo di un treno. Mica di un bombardiere! La verità è un’altra. La vicenda della Tav non può essere ridotta alla linea ferroviaria ma investe tutta una serie di temi non ultimi quelli della legalità e della democrazia”. Pepino fa un sunto di come il progetto dell’alta velocità sia nato da un convegno in casa Fiat più di trent’anni or sono e di come sia mutato nel tempo da linea veloce per il trasporto di passeggeri a trasporto merci, mantenendo però la costante della devastazione ambientale. L’ex magistrato affronta la questione Tav dal punto di vista della legalità discorrendo, in particolare sul diritto alla salute. “Un diritto che la Costituzione sancisce come assoluto - spiega -. Al contrario, per fare un esempio, del diritto alla proprietà privata che può essere subordinato al principio dell’interesse generale”. Nel caso del diritto alla salute invece non ci sono ‘se’ o ‘ma’. Va salvaguardato a tutti i costi. La presenza di amianto nelle montagne destinate allo scavo risulta quindi un elemento del quale non si può - anche da un punto di vista legale - non tenere conto. “Bisogna accertare oggi con metodi scientifici la pericolosità dei lavori per non dover affrontare domani un processo di risarcimento delle vittime. Non bastano le assicurazioni dei sostenitori del progetto”.



Un altro principio di legalità messo in discussione dall’opera è quello del governo della maggioranza. “Chi vuole la Tav afferma: ‘in fondo l’opera è stata voluta dai maggiori partiti che sono stati eletti democraticamente. Non ha senso e non è corretto contestare quello che ha deciso la maggioranza del Paese’. Ma chi dice così ha un concetto di democrazia alquanto rustico. La democrazia infatti non si esaurisce in una sorta di tirannia della maggioranza, per citare Toqueville. La maggioranza decide chi governa ma non con che criteri o con che limiti”. Senza scomodare Toqueville, ricordiamo Platone che scriveva di come i probi cittadini ateniesi avessero votato “a grande maggioranza” di conquistare l’isola di Samo e massacrarne tutti gli abitanti. Se questa è la democrazia che vi piace...
“Al contrario - ha concluso Livio Pepino - sulla questione della Tav, proprio la nostra democrazia ha abdicato. Un problema che era davvero di democrazia è stato trasformato in un problema di ordine pubblico e dato il gestione alle forza di polizia che hanno militarizzato il territorio sino a far diventare reato dei comportamenti e delle manifestazioni di protesta che, al di fuori della val di Susa, non sono reato”.
Dal canto suo, Marco Revelli, esamina la questione Tav sotto la lente del politologo. “La vicenda della val di Susa è stata in questi anni il mio buco della serratura attraverso il quale leggere i cambiamenti in atto, dalla crisi dei partiti al baratro in cui è precipitata l’economia”.
L’Alta Velocità, spiega, è un progetto concepito in un’altra epoca e in un altro mondo, quando si faceva un gran parlare di crescita infinita e le merci e la loro circolazione erano dei dogmi che nessuno poteva contestare. “Un modello nichilista e retorico che ha mostrato presto i propri limiti”. Revelli snocciola qualche dato sulle previsioni fatte dai sostenitori della Tav sul traffico di merci che avrebbe dovuto viaggiare sulla linea ferroviaria. Numeri spropositati legati ad una idea infinita di crescita. “Non solo le previsioni non si sono avverate neppure lontanamente, ma il traffico è regredito, sia per la rotaia che per la gomma”.
Una storia che oramai abbiamo imparato a conoscere. Solo due categorie di persone, è stato scritto, sono convinte che un mondo finito possa supportare uno “sviluppo” infinito: i pazzi e gli economisti.
Revelli, con la vivacità di spirito che lo contraddistingue, incanta la platea tracciando audaci parallelismi tra il Marinetti futurista e politici come Fassino “che ripete le stesse retoriche ma senza avere né il genio né l’intelligenza del poeta”. Soprattutto, lo fa quasi cento anni dopo.
Nella sua analisi, Revelli individua alcuni elementi portanti nella questione della Val di Susa. Il primo è la commistione tra le grandi costellazioni di interessi economici e la politica. le stesse costellazioni che in questi anni hanno depredato l’Italia. “Lo stesso Pd, o come si chiamava allora, sino al 2004 era molto cauto sulla Tav. Si trasforma improvvisamente un pasdaran dell’Alta Velocità quando entra in gioco la cooperativa rossa Cmc (la stessa che sta ristrutturando la stazione di Venezia.nrd). Solo a questo punto arriva a chiedere che i cantieri diventino un sito strategico militare”. Nessuno vuole nascondere che i soldi servono alla politica - sospira Revelli - ma sono sempre stati un mezzo per un fine. La Tav ha rovesciato il concetto: la politica è il mezzo e i soldi il fine.
Un altro punto focale della questione, commenta ancora Revelli, è l’informazione. Gli stessi gruppi economici impegnati nell’opera sono proprietari dei maggiori quotidiani italiani. Il che spiega come mai l’informazione segua sempre una sola direzione, quella della Torino Lione. Mai come nella Tav i giornali hanno raccontato tante balle e per tanto tempo. Quali sono i limiti alla manipolazione della realtà? si chiede Revelli, sostenendo che la Val di Susa ha comunque dimostrato di essere impermeabile e di essere sempre riuscita a non farsi condizionare dai media.
“Ma la Tav ha segnato soprattutto la crisi del rapporto tra i cittadini e le istituzioni. E’ una crisi di democrazia e di rappresentanza. La questione che c’è sotto è grossa. I valsusini difendono non solo il loro diritto alla salute ma un sistema relazionale. Difendono il loro territorio e un modo di vivere in questo loro territorio. Se vogliamo vederla così, difendono un bene comune”. Revelli parla del referendum su acqua e nucleare e di come questo abbia stabilito un principio fondamentale: c’è uno spazio pubblico che non può essere invaso da uno spazio politico. Il parlamento può legiferare quello che gli pare, ma i beni comuni non li può toccare.
Revelli conclude parlando del movimento No Tav. Movimento che forse sarebbe più esatto definire una resistenza di popolo trasversale alle generazioni e alle precedenti convinzioni politiche. Ma comunque la si chiami, la resistenza della gente della val di Susa ad una economia e ad una politica in profonda e irreversibile smarrimento, sta tracciando il futuro dell’Italia che vogliamo. “In Val di Susa - conclude Revelli - è in gioco sì la nostra democrazia in crisi, ma anche una sua auspicabile metamorfosi salvifica”.
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